Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18400 del 04/09/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/09/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 04/09/2020), n.18400

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

ricorso 18214-2213 proposto da:

L.S., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE SOMALIA 35,

presso lo staio dell’avvocato ANDREA CARANCI, che lo rap r senta e

difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempere, e

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 177/2012 della COMM. TRIB.REG. d ROMA,

depositata il 23/IC/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31/01/2020 dal Consigliere Dott. DI PAOLA LUIGI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con la sentenza impugnata, emessa in sede di giudizio di rinvio a seguito della cassazione di precedente pronuncia della CTR del Lazio n. 162/28/07, è stata rigettata, in riforma della decisione della Commissione tributaria provinciale di Roma, l’impugnativa proposta da L.S., volta all’annullamento dell’avviso di accertamento (n. (OMISSIS)), relativo all’anno di imposta 2002, con il quale era stato recuperato a tassazione ai fini IRPEF, IRAP e IVA, l’importo di Euro 72.592,00, relativo a costi – sostenuti per l’erogazione di compensi a fronte di collaborazioni afferenti ad attività professionale ritenuti inesistenti;

per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il L., affidato a quattro motivi;

l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, il ricorrente – denunciando violazione e falsa applicazione del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, conv. in L. 26 aprile 2012, n. 44, che ha modificato la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si duole che il giudice di appello abbia omesso di considerare che, alla stregua della disposizione citata, i costi derivanti da operazioni soggettivamente inesistenti sono, ove non utilizzati per il compimento di delitti, deducibili;

con il secondo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – lamenta che il predetto giudice abbia fondato una presunzione (i.e.: accertamento finale della falsità soggettiva delle fatture) basata su un dato a sua volta frutto di presunzione (i.e.: inesistenza di adeguata struttura in capo al sig. Tolli, soggetto emittente le fatture, desunta da circostanze meramente indiziarie, quali la cessazione di una utenza telefonica fissa e la mancata risposta ad un numero di utenza cellulare, nonchè la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del predetto soggetto);

con il terzo motivo – denunciando omessa e, comunque, insufficiente motivazione della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – si duole che la CTR non abbia preso in considerazione gli elementi di prova prodotti da esso ricorrente, con conseguente mancata indicazione, nella motivazione, delle ragioni che avrebbero indotto il giudice a disconoscere la valenza degli elementi in questione;

con il quarto motivo – denunciando nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riferimento al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, e art. 156 c.p.c. lamenta che la predetta CTR abbia reso una pronuncia sorretta solo formalmente da una motivazione, invero ellittica, apparente e tautologica.

Ritenuto che:

il primo motivo va disatteso, poichè dal passo del verbale di accertamento riportato nello stesso ricorso emerge che la contestazione dell’Ufficio – richiamata nella sentenza impugnata e ritenuta fondata – ha avuto ad oggetto operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, mediante il disconoscimento, in prima battuta, della effettività delle operazioni e, solo in seconda, della riconducibilità delle stesse al sig. Tolli; infatti, la frase “per difetto di documentazione, per mancanza di inerenza, per probabile delegittimazione passiva riconducibile alla incerta veridicità soggettiva della fatturazione, per cui si reputa che, se anche le prestazioni descritte nei documenti sono state effettivamente eseguite, siano state fornite da altro soggetto” va plausibilmente letta nel senso che la sussistenza oggettiva delle operazioni non è stata fatta oggetto di riconoscimento da parte dell’Ufficio (ma, semmai, di una mera subordinata ipotesi cui comunque associare il disconoscimento del suo formale autore), nè, pertanto, dal giudice di appello, che ha quindi ritenuto inesistenti oggettivamente e non solo soggettivamente i costi contabilizzati, con conseguente inapplicabilità della norma richiamata nel motivo di ricorso (peraltro, la natura controversa della questione concernente la oggettiva sussistenza, o meno, delle operazioni emerge, linearmente, da un passo dell’ordinanza n. 8691 del 12/04/2010, in sede di giudizio rescindente, ove si legge: “Premesso – quanto ai rilievi del controricorrente – che non risulta la formazione di alcun giudicato interno riguardo alla effettiva esistenza delle operazioni”);

il secondo motivo è infondato, poichè, a fronte del principio di diritto (i.e.: “qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni”) enunciato da questa Corte nella citata ordinanza n. 8691 del 2010, la CTR, come esattamente evidenziato in memoria dall’Agenzia, era tenuta, ai fini della valutazione circa la fondatezza della pretesa erariale, a verificare, in primo luogo, se l’Ufficio avesse o meno offerto “validi elementi di prova”; e questi sono stati all’esito ravvisati, con apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità, nella mancanza di struttura imprenditoriale in capo al presunto fornitore dei servizi (circostanza, del resto, riconosciuta nello stesso ricorso) e nella qualità di evasore totale, da diversi anni, di quest’ultimo;

il terzo motivo è inammissibile, poichè, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, anche nel processo tributario è applicabile (e v., sul punto, Cass. Sez. U. 7/04/2014, n. 8053) la nuova versione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che ha introdotto nell’ordinamento il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, sicchè il motivo andava articolato in conformità al nuovo parametro normativo (cfr., ancora, Cass. Sez. U. n. 8053/2014, cit., secondo cui “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”);

il quarto motivo è infondato, poichè il giudice di appello ha esplicitato le ragioni del proprio convincimento, assegnando, con apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità, maggior inferenza probatoria a determinati elementi di prova (i.e.: mancanza di struttura imprenditoriale in capo al presunto fornitore dei servizi e sua qualità di evasore totale da diversi anni) piuttosto che ad altri (i.e.: dichiarazioni provenienti dallo stesso presunto fornitore e da alcuni amministratori di condominio), sicchè sotto l’apparente deduzione del vizio di mancanza assoluta di motivazione il motivo in questione mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Cass. Sez. U. 27/12/2019, n. 34476), dolendosi di un effettuato apprezzamento delle circostanze probatorie in senso difforme da quello auspicato (cfr., sul punto, Cass. 7/4/2017, n. 9097: “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione”);

al rigetto del ricorso segue il pagamento delle spese di lite, determinate come in dispositivo;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese processuali, liquidate in Euro 3.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 31 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 4 settembre 2020

 

 

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