Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18398 del 20/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 20/09/2016, (ud. 12/01/2016, dep. 20/09/2016), n.18398

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10480-2015 proposto da:

GRANDE ALBERGO ORIENTE S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempero, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata difesa dall’avvocato MARIA ELENA MATARRESE, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.D., (OMISSIS), D.C.S. C.f. (OMISSIS),

P.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE

MAZZINI, 73 SCALA B INT. 2, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO

AUGUSTO, che li rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 76/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 23/03/2015 r.q.n 418/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/01/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato MATARRESE MARIA ELENA;

udito l’Avvocato MERICO PAOLA per delega Avvocato AUGUSTO VINCENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

Con sentenza in data 11 febbraio 2014 il giudice del lavoro di Bari accoglieva in parte le domande degli attori F.D., P.A. e D.C.S. di cui al ricorso introduttivo del giudizio depositato il 19 ottobre 2001, condannando la S.r.l. GRANDE ALBERGO ORIENTE (G.A.O.) al pagamento della somma di Euro 26.400,00 (in favore dei ciascuno dei ricorrenti F. e P.) e di Euro 28.600,00 a favore della ricorrente D.C., i quali erano stati licenziati da detta società per cessazione di attività dal (OMISSIS), previo accordo in data (OMISSIS) mediante cui G.A.O. aveva garantito la riassunzione dei dipendenti licenziati (nella misura massima di 14 unità,… con gli stessi livelli d’inquadramento e gli scatti di anzianità maturati al momento del recesso) in caso di nuova gestione dell’attività alberghiera o anche nell’ipotesi di fitto o cessione a terzi, ritenendo altresì che non era fondata la tesi dei ricorrenti circa l’ipotizzata cessione d’azienda. Infatti, secondo la sentenza di primo grado, tra l’originaria gestione alberghiera, facente capo all’attuale società ricorrente, e quella successivamente intervenuta (ALPITOUR World Hotels & Resorts S.p.a.) si era verificata un’interruzione. Inoltre, la ripresa della gestione riguardava un’azienda del tutto diversa da quella preesistente (l’albergo era rimasto inoperante a causa di lavori di ristrutturazione), identificabile con una porzione dell’immobile originario ed analoga soluzione di continuità si era verificata nei riguardi dei rapporti di lavoro instaurati dalla nuova gestione, cosicchè quelli preesistenti erano già tutti cessati al momento della ripresa dell’attività alberghiera.

Il contenuto dell’accordo sindacale in data (OMISSIS) doveva essere qualificato in termini di promessa del terzo ex art. 1381 c.c., ossia l’assunzione dei licenziati, laddove tuttavia non era prospettabile un inadempimento dell’obbligazione di facere, contrattualmente assunta dalla G.A.O., sicchè residuava la sola possibilità di un indennizzo, correlato alla mancata assunzione da parte del terzo, liquidato equitativamente in misura corrispondente alle mensilità perse da (OMISSIS) (per il F. e il P.) e sino al (OMISSIS) per la D.C., poichè costoro fino al (OMISSIS) avevano percepito dalla G.A.O., in base all’accordo del (OMISSIS), un importo mensile di 600,00 Euro, mentre poi alle date indicate erano stati destinatari di proposte di assunzione.

Avverso la suddetta decisione la S.r.l. GRANDE ALBERGO ORIENTE proponeva appello con atto depositato il sei marzo 2014, quindi respinto dalla Corte distrettuale di Bari come da sentenza n. 76/13 gennaio – 23 marzo 2015, con la condanna inoltre della società al pagamento delle relative spese, liquidate in favore dei costituiti F., P. e D.C., compensate invece per intero nei confronti delle altre società appellate, anch’esse costituitesi.

Contro la decisione d.C. territoriale ha quindi proposto ricorso per cassazione la S.r.l. GRANDE ALBERGO ORIENTE, come da atto notificato in data 3 e 31 marzo 2015, affidato a quattro motivi.

Resistono all’impugnazione avversaria F.D., P.A. e D.C.S., mediante controricorso (notificato a mezzo posta elettronica certificata) in data otto maggio 2015 alla sola società ricorrente.

Non risultano controricorsi per ALPITOUR WORLD HOTELS & RESORTS S.p.a., nè per FIMCO S.p.a., cui pure era stato notificato il ricorso di G.O.A. S.r.l., però diretto unicamente nei confronti di F.D., P.A. e D.C.S., avverso la pronuncia resa a favore di costoro.

Sono state depositate memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il ricorso introduttivo del giudizio gli attori, richiamato l’accordo sindacale intervenuto a seguito di procedura di mobilità In data (OMISSIS), avevano preteso di essere assunti dalla subentrata società ALPITOUR ed in ogni caso il risarcimento del danno, sul presupposto peraltro della cessione di azienda ex art. 2112 c.c., cessione tuttavia già esclusa dal giudice di primo grado, che con la sua pronuncia aveva qualificato la garanzia di cui all’anzidetto accordo in termini di promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c.. A tale riguardo, però, non si era ritenuta alcuna colpevole inadempienza risarcibile da parte della società promittente, sicchè quest’ultima era tenuta al solo indennizzo di cui all’art. 1381 cit., e non già al risarcimento del danno, visto che detta convenuta si era comunque adoperata per ottenere la riassunzione dei tre ricorrenti, i quali si erano rifiutati, in quanto pretendevano l’assunzione dalla subentrante ALPITOUR e non da altri.

Tanto chiarito, con il primo motivo la società ricorrente ha denunciato violazione del principio di corrispondenza tra quanto chiesto e quanto pronunciato, con vizio di ultrapetizione, ex art. 112 c.p.c., avendo il giudice di merito deciso oltre il limite delle domande avanzate dagli attori, sostituendo di ufficio una domanda non esperita a quella proposta, violazione del principio tantum devolutum quantum appellatum, nonchè violazione di giudicato interno (ex artt. 329 e 342 c.p.c.), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Meritava quindi censura la decisione della Corte distrettuale, che aveva ritenuto infondato il motivo di appello, inerente all’assenza di domanda d’Indennizzo nel giudizio di primo grado.

Con il secondo motivo, la società ha dedotto violazione dell’art. 112 c.p.c. (principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e vizio di ultra petizione) e del correlato principio del tantum devolutum quantum appellatum, nonchè violazione del giudicato interno per acquiescenza, ex art. 329 e 342 c.p.c., in relazione al cit. art. 360, n. 4, tanto con riferimento al 2^, 3^, 4^e al 5^ motivo di appello. Infatti, secondo la ricorrente, la Corte di merito aveva erroneamente interpretato i suddetti motivi dell’interposto gravame, nonchè pronunciato oltre quanto devolutole e su questioni sulle quali, in assenza di d’impugnazione si era formato il giudicato per intervenuta acquiescenza sulle parti non gravate. In sintesi, la ricorrente assumeva di non aver mal sollevato alcuna censura con riferimento al fondamentum del decisum del giudice di prime cure, avendo soltanto censurato che da tale decisum detto giudice non aveva tratto le dovute conseguenze giuridiche in ordine alla pronuncia sull’indennizzo, che non andava emessa e che contrastava con detto decisum. In altre parole, la società appellante si era avvalsa proprio di detto decisum per sostenere la fondatezza della sua impugnazione e lamentare la conseguente infondatezza della pronuncia sull’indennizzo emessa in violazione dell’art. 1381 c.c., in base a quanto dedotto con i motivi d’appello, avendo accertato che l’accordo del (OMISSIS) prevedeva la riassunzione dei lavoratori nell’ipotesi di nuova gestione dell’attività alberghiera o di fitto o cessione a terzi, nella misura massima di 14 dipendenti su 17 (nessuno dei quali aveva chiesto l’Incentivo all’esodo); la domanda degli attori, in base all’accordo si fondava sulla cessione d’azienda, però non verificatasi; la (OMISSIS) si era comunque attivata, avendo fatto quanto le era stato possibile; il terzo aveva offerto tre contratti di lavoro a tempo pieno ed Indeterminato, però rifiutati sulla scorta di un’erronea interpretazione dell’accordo, mentre avrebbero potuto riprendere a lavorare come avvenuto da parte di tutti gli altri.

Tali statuizioni, secondo la ricorrente, costituenti il fondamento della decisione di primo grado, erano state assunte da pane appellante come un dato processuale pacifico in giudizio, avverso il quale non aveva quindi prospettato motivi specifici d’impugnazione, avendo invece fondato la propria censura sulla pronuncia dell’indennizzo a suo carico, chiedendo la conferma nei resto della sentenza, laddove a pag. 28 del proprio ricorso aveva chiesto di revocare e/o annullare la pronuncia di primo grado sull’indennizzo, o in estremo subordine di rideterminare quest’ultimo In misura assai più contenuta, confermando per il resto.

In particolare, con il secondo motivo d’appello si censurava la pronuncia sull’indennizzo proprio perchè, come accertato dal primo giudicante, non si era verificata la cessione d’azienda, sulla quale i lavoratori avevano fondato la loro domanda, sicchè, non essendosi verificata la condizione prevista dall’accordo del (OMISSIS), che rendeva esigibile l’adempimento della promessa di riassunzione da parte del terzo, il tribunale non avrebbe dovuto condannare la convenuta al pagamento dell’indennizzo. Era evidente che la G.A.O. non solo non aveva mosso censure rispetto a quanto affermato dal giudice adito circa l’accordo e la sua qualificazione (avendo contestato solo quanto da egli affermato con riferimento alle deduzioni da essa effettuate sull’accordo), ma aveva fondato la sua impugnazione proprio su quanto ritenuto dal giudice sull’accordo, ragion per cui, non rientrando la statuizione sul contenuto dell’accordo nel motivi d’appello, non poteva la Corte territoriale pronunciarsi su questioni non devolutele, sulle quali si era formato il giudicato interno e per averlo fatto, oltrepassando il thema decidendum, non aveva pronunciato sul 4^ motivo d’appello, con il quale si era chiesto darsi atto che essa GAO aveva sempre mantenuto distinte le tre ipotesi della riassunzione (nuova gestione dell’attività alberghiera – fitto – o cessione a terzi), laddove con il ricorso Introduttivo del giudizi gli attori avevano in particolare fondate le proprie pretese in relazione all’ipotesi della cessione a terzi, però esclusa dal primo giudicante.

Dunque, ad avviso della ricorrente, la Corte distrettuale non poteva ricostruire diversamente i fatti storici di causa, pena la violazione del giudicato interno formatosi per acquiescenza sulle parti della sentenza non impugnate, laddove la medesima aveva ritenuto che all’accordo del (OMISSIS) andava riconosciuto contenuto contrattuale, comprovante una diretta obbligazione di GAO alla riassunzione del personale già licenziato qualora la stessa GAO avesse assunto in proprio la nuova gestione ovvero la promessa di assunzione da parte di un terzo che avesse assunto la titolarità della nuova gestione (In caso di affitto o di cessione). Così facendo era incorsa nel vizio di ultrapetizione, nella violazione del principio devolutivo e del giudicato, per essersi addentrata illegittimamente nell’interpretazione dell’accordo, non aveva pronunciato sul secondo motivo di appello, relativo all’impossibilità di pronunciare sull’indennizzo per li mancato verificarsi della condizione della cessione d’azienda, su cui si fondava la domanda degli attori, che rendeva esigibile l’adempimento della promessa del fatto del terzo.

Nè la Corte distrettuale aveva pronunciato su quanto richiesto con il 5^ motivo di appello, relativo alle conseguenze connesse alle modalità della prestata garanzia alla riassunzione, ovvero sull’assenza di un diritto certo alla reintegra; circostanza rilevante ai fini dell’esclusione della pronuncia sull’indennizzo, atteso che, essendo stata tale garanzia prestata per 14 dei 17 lavoratori, i ricorrenti non potevano vantare un diritto certo alla reintegra.

Con il terzo motivo la ricorrente ha denunziato violazione e/o falsa applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c., commi 1 e 2 comma, nonchè art. 1363 c.c. nell’Interpretazione dell’accordo sindacale del (OMISSIS), In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, laddove l’impugnata sentenza aveva ritenuto che l’accordo prevedeva la garanzia della riassunzione nell’ipotesi in cui parte datoriale avesse assunto la nuova gestione dell’attività alberghiera o nel caso in cui un terzo avesse assunto la nuova gestione di detta attività, puramente e semplicemente (pg. 8 penultimo cpv.), e non già nell’ipotesi in cui l’avesse assunta esclusivamente per fitto o cessione d’azienda. La Corte distrettuale, secondo la ricorrente, pur avendo ritenuto la prevalenza del canone Interpretativo letterale, non lo aveva però correttamente applicato nella specie, avendo omesso di raffrontare e collegare tra le parole della clausola n. 5 dell’accordo (La Grande Albergo garantisce ai lavoratori… la riassunzione nell’ipotesi di nuova gestione dell’attività alberghiera o anche nell’Ipotesi di fitto o cessione a terzi), non avvedo considerato determinate parole (fitto o cessione a terzi), che aveva tralasciato, non avendo tenuto conto del complessivo comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto (evincibile anche dall’accordo del (OMISSIS), laddove Infatti i lavoratori istanti avevano specificamente fondato le loro domande sulla cessione d’azienda, pretendendo l’assunzione da parte dell’ALPITOUR), non avendo collegato e raffrontato tra loro ex art. 1363 c.c. le clausole n. 5 e n. 6 dell’accordo sindacale e queste con l’accordo del (OMISSIS), concluso in attuazione della clausola n. 6.

Per contro, avuto riguardo alla operata distinzione delle tre ipotesi emergeva che la prima (riassunzione in caso di nuova gestione) non poteva che riferirsi ad essa G.A.O. (mentre la sentenza de qua aveva ritenuto che non vi fosse distinzione in ordine alla titolarità giudica di detta nuova gestione), laddove il fitto o la cessione inerivano al caso di subentro di terzi relativamente alla gestione dell’attività alberghiera (mentre, secondo i giudici dell’appello,

vi era di ogni precisazione delimitativa circa l’oggetto del fitto o della cessione, così ritenendo l’ipotesi del subentro del terzo svincolata dal fitto o dalla cessione, contrariamente a quanto poteva evincersi in modo certo ed immediato dall’intera clausola cinque, secondo cui, a dire della ricorrente, la garanzia della riassunzione con riferimento al terzo era limitata all’ipotesi del fitto o della cessione).

La Corte di merito, poi, aveva incomprensibilmente opinato che la ripresa dell’attività alberghiera non sarebbe stata preventivamente definibile nè in relazione a chi, nè in relazione alle sue stesse modalità contrattuali e che alcun elemento di valutazione al riguardo poteva trarsi dall’accordo del (OMISSIS) prodotto dai lavoratori.

Ad avviso della ricorrente, invece, dalla lettura dei succitati documenti si evinceva chiaramente che le parti contraenti, concordando sull’impossibilità di rinnovare le autorizzazioni all’esercizio dell’attività alberghiera, con conseguente dovuta cessazione dell’attività, prevedendo la ripresa dell’attività alberghiera, una volta ottenute le necessarie autorizzazioni al termine della ristrutturazione dello stabile, avevano ritenuto d’individuare le modalità della ripresa (in caso di nuova gestione da parte di GAO o di fitto o cessione a terzi della stessa), prevedendo per tali modalità la garanzia di riassunzione ed all’uopo fissando incontro entro 15 mesi (clausola 6:… per la verifica dei tempi di ristrutturazione dello stabile e delle prospettive di ripresa dell’attività alberghiera), di cui poi al verbale di accordo in data (OMISSIS) (per cui a causa del ritardi nel rilascio del permesso a costruire la ristrutturazione dello stabile e la conseguente ripresa dell’attività avrebbe subito uno slittamento, rispetto a quanto previsto, donde l’impegno a prolungare sino al mese di ottobre 2008 la corresponsione della somma di Euro 600,00).

Tale ripresa poi non avvenne, avendo la ricorrente alienato alla SORGENTE spa soltanto una porzione dell’immobile, essendo stata la maggior parte scorporata e vendita a terzi.

ALPITOUR spa non era quindi subentrata nell’azienda alberghiera, cessata nel (OMISSIS), avendo costituito nella parte dell’immobile, concessole in locazione dalla società SORGENTE un’azienda ex novo, con propria Identità… ed Iniziato detta nuova sua attività con la diversa denominazione HOTEL ORIENTE (in forza di apposita autonoma licenza ottenuta il (OMISSIS)).

Pertanto, l’impugnata interpretazione fornita dalla Corte barese (che aveva ritenuto l’obbligo di riassunzione, con riferimento al terzo, svincolato dalla cessione o fitto d’azienda) era Isolata e si discostava dalle altre citate diverse decisione dei giudici locali intervenute sulla stessa questione, che avevano ritenuto non essersi verificata la cessione d’azienda al terzo.

Come quarto motivo di ricorso la società ha inoltre dedotto erronea valutazione della doglianza relativa alla quantificazione dell’indennizzo in conseguenza della violazione di cui ai precedenti motivi, nonchè violazione del principio generale di equità, in relazione all’art. 360 c.p., nn. 3 e 4. Infatti, la Corte distrettuale non aveva preso in considerazione tutti i profili evidenziati nel 6^ motivo di appello, rilevanti ai fini di una liquidazione più contenuta dell’indennizzo. Inoltre, la Corte d’Appello, avendo ritenuto che la proposta del terzo non fosse adeguata, e con riferimento all’indennizzo che non vi fosse stata pronuncia extra petita partium non aveva correttamente valutato la censurata misura dell’indennizzo liquidato dal giudice di primo grado.

Gli anzidetti primi due motivi di ricorso, entrambi formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per asserita violazione dei principi di cui agli artt. 112, 329 e 342 c.p.c., che possono esaminarsi congiuntamente per la loro stretta evidente connessione, sono inammissibili.

Ed invero, l’Interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, per cui, ove questi abbia espressamente ritenuto che era stata avanzata, tale statuizione, ancorchè in ipotesi erronea, non può essere censurata per ultrapetizione, atteso che il suddetto difetto non è logicamente verificabile prima di avere accertato l’erroneità della relativa motivazione, sicchè tale errore può concretizzare soltanto una carenza nell’interpretazione di un atto processuale, ossia un vizio sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio motivazione).) (Cass. lav. n. 21874 del 27/10/20151 In senso conforme v. pure Cass. lav. n. 2630 del 5/2/2014, secondo cui l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, per cui, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata – ed era compresa nel “thema decidendum” – tale statuizione, ancorchè In ipotesi erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato l’erroneità di quella medesima motivazione. In tal caso, il dedotto errore del giudice non si configura come “error in procedendo”, ma attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte, e non a quello inerente a principi processuali, sicchè detto errore può concretizzare solo una carenza nell’interpretazione di un atto processuale, ossia un vizio sindacabile in sede di legittimità del 18/04/2006. V. ancora in senso analogo Cass. n. 11639/2004 e n. 3702/2006). unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione. Conforme altresì Cass. 3^ civ. n. 8953 del 18/04/2006. v. ancora in senso analogo Cass. n. 11639/2004 e n. 3702/2006).

Nella specie, peraltro, nemmeno è ipotizzabile una diversa qualificazione degli anzidetti due motivi sub art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ostandovi le preclusioni derivanti dall’art. 348-ter, u.c. stesso codice (nella specie ratione temporis applicabile). In tema di c.d. doppia conforme, visto che la decisione di primo grado (11/02/2014) risulta essere stata confermata con il rigetto dell’appello, di cui al ricorso in data sei marzo 2014, da parte della sentenza qui impugnata (13 gennaio – 24 febbraio 2015).

Appare, altresì, errata la denunciata violazione dell’art. 329 c.p.c. nella fattispecie. Infatti, la nozione di “parte della sentenza”, alla quale si riferisce il cit. art. 329 c.p.c., comma 2, In tema di acquiescenza implicita e cui si ricollega la formazione del giudicato interno, identifica soltanto le “statuizioni minime”, costituite dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibili di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia. Ne consegue che l’appello, motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi della suddetta statuizione minima suscettibile di giudicato, apre il riesame sull’intera questione che essa identifica, ed espande nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene coessenziali alla statuizione impugnata, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (v. Cass. 2 civ. n. 16583 del 28/09/2012).

Orbene, il giudice di secondo grado per decidere la controversia sottoposta al suo riesame può agire con piena libertà, senza essere tenuto a seguire criticamente, punto per punto, la sentenza Impugnata quindi, egli può, senza essere soggetto ad alcun vincolo, salva l’ipotesi che su taluni punti della controversia la sua Indagine sia preclusa per essersi formata la cosa giudicata, non soltanto pervenire a diverse conclusioni in base ad un diverso apprezzamento dei fatti, ma anche giungere alla medesima soluzione in forza di motivi e di considerazioni che il primo giudice aveva trascurato e così sostituire totalmente la propria motivazione a quella della sentenza di primo grado, pur confermandone il contenuto decisorio (Cass. 3 civ. n. 1583 del 19/09/1970).

In particolare, come più volte ritenuto da questa Corte (v. tra le altre in senso conforme Cass. lav. n. 6757 del 24/03/2011, nonchè n. 19424 del 22/08/2013), la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., riguarda il “petitum” che va determinato con riferimento a quello che viene domandato, sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto. Tuttavia, tale principio, così come quello del “tantum devolutum quantum appellatum” (artt. 434 e 437 c.p.c.), non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione del fatti autonoma, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica del fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte (in senso analogo Cass. 2^ civ. n. 8479 del 13/06/2002, secondo cui in particolare il vizio di ultrapetizione non riguarda le Ipotesi in cui il giudice, espressamente o implicitamente, dia al rapporto controverso o al fatti che siano stati allegati, quali “causa petendi” dell’esperita azione, una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, avendo egli il potere – dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti ed i fatti che formano oggetto della contestazione, sempre che sia rispettato Lambito delle questioni proposte e siano stati lasciati immutati il “petitum” e la “causa petendi”, senza introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto. Conformi Cass. n. 258/1999, n. 475/2002.

Cfr. ancora Cass. 2 civ. n. 21397 del 18/09/2013, secondo cui la liquidazione d’ufficio di un corrispettivo d’opera In misura Inferiore a quella pretesa non richiede una specifica istanza dell’attore, non avendo le parti l’onere di sollecitare il giudice all’esercizio del suoi poteri officiosi, qual è quello di accogliere la domanda per un Importo inferiore rispetto al domandato, ed imponendo la mancanza di convenzione sul corrispettivo, al pari del difetto sulla relativa prova, non già il rigetto della domanda, ma l’accoglimento di questa per un Importo minore del preteso, previa determinazione “officio iudicis” in base all’art. 2225 c.c…

V. altresì Cass. n. 18868 del 24/09/2015, secondo cui il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti, formanti oggetto della contestazione, incontra il limite del rispetto del “petitum” e della “causa petendi”, sostanziandosi nel divieto di Introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicchè il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto, oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso, così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori.

Dunque, il principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c., comporta unicamente il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti nonchè In base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. 3 civ. n. 16809 del 20/06/2008. V. altresì Cass. 3 civ. n. 22595 del 26/10/2009, secondo cui il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato può ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione -“petitum” e “causa petendi” – attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti; ne consegue che non Incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate. Nella specie, quindi, veniva confermata la sentenza di appello, secondo la quale la richiesta di riduzione della somma, già riconosciuta dal primo giudice In favore dell’attore, era implicitamente contenuta nell’originaria richiesta di rigetto della domanda attrice e nella integrale contestazione delle pretese della medesima.

Parimenti, secondo Cass. sez. un. civ. n. 2082 del 05/07/1971, secondo cui ricorre vizio di ultrapetizione solo quando la pronuncia giudiziale trascende i limiti oggettivi della controversia, quali risultano dalle contrapposte domande ed eccezioni delle parti, mentre siffatto vizio non è ravvisabile rispetto alla configurazione giuridica dei termini della controversia ed alla identificazione delle norme di diritto in base alle quali la lite deve essere decisa, rientrando nel potere-dovere del giudice il compito di inquadrare nella esatta categoria giuridica i fatti dedotti ed acquisiti al giudizio e di applicare le relative norme di legge. Similmente le Sezioni Unite con sentenza n. 2480 del 29/12/1965 ritenevano che l’Indagine relativa alla qualificazione giuridica del rapporto controverso ed alla determinazione del regolamento normativo cui esso è soggetto rientra nei poteri-doveri dei giudice e perciò non può dar luogo al vizio di ultrapetizione).

Orbene, con la sentenza n. 17168 del 09/10/2012 questa Corte ribadiva il principio, che il collegio condivide ribadendolo, secondo cui in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una Indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi In esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito In sede di legittimità (conforme Cass. n. 13242 del 2010). Nella specie, con la stessa pronuncia la Corte riteneva, altresì, che in caso di promessa dei fatto del terzo, costituisce modifica ammissibile della domanda invocare, in primo grado, l’adempimento dell’obbligo contrattuale assunto e chiedere, in appello, il pagamento dell’indennizzo ex art. 1381 c.c.. ove i terzi non abbiano compiuto il fatto promesso, dovendosi ritenere la nuova domanda come mera riduzione di quella originaria (v. la sentenza di questa Sezione lavoro, n. 17168 del 14/06 – 09/10/2012 cit.. Cfr. inoltre Cass. 2 civ. n. 19502 del 30/09/2015, secondo cui non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorchè il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicchè, proposta azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del prominente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia “ultra patita” il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il prominente venditore alla restituzione della caparra stessa, producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni.

In senso analogo v. pure Cass. 2 n. 23490 del 5/11/2009, di modo che, proposta in primo grado una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare, e di conseguente condanna del prominente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia “ultra petita” il giudice il quale ritenga che il contratto si sia risolto non già per inadempimento del convenuto, ma per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti, ex art. 1453 c.c., comma 2, e condanni il prominente venditore alla restituzione della sola caparra – la cui ritenzione è divenuta “sine titulo” – e non del doppio di essa).

Nè è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa a una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise – sia pure con una pronuncia implicita della loro irrilevanza o di infondatezza – in quanto superate e travolte, anche se non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di altra questione, il cui solo esame comporti e presupponga, come necessario antecedente logico-giuridico, la detta irrilevanza o infondatezza; peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitazione dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. 2 civ. n. 13649 del 24/06/2005, la quale nella specie, in cui era stata dedotta l’inammissibilità dell’appello in quanto privo di specifici motivi, rilevava che i giudici, nell’esaminare e nel valutare nel merito le ragioni poste a base dell’impugnazione, avevano implicitamente ritenuto infondata l’eccezione al riguardo formulata dall’appellato. Conformi Cass. 1 civ. n. 11844 del 19/05/2006 e n. 7406 del 28/03/2014).

Nei sensi anzidetti vanno inoltre disattese le ulteriori doglianze (3^ e 4^ motivo di ricorso), dedotte dalla società, che, pur avendo essa appellato la decisione di primo grado, con il parziale accoglimento della domanda, accoglimento quindi confermato con il rigetto dell’interposto gravame, pacificamente esclusa nella specie ogni ipotesi di reformatio in pejus in danno della medesima, pretende poi erroneamente di attribuire valore di giudicato alle sole argomentazioni, cui non può riconoscersi alcuna portata decisoria e definitiva, in base alle quali la medesima gravata decisione finiva per essere confermata, ancorchè in base ad un diverso ragionamento (v. Cass. sez. 6 – 5, n. 3594 del 14/02/2014, secondo cui in tema di impugnazioni, la sentenza d’appello, anche se confermativa, si sostituisce totalmente a quella di primo grado, sicchè il giudice del gravame ben può, in dispositivo, confermare la decisione impugnata ed in motivazione enunciare, a sostegno di tale statuizione, ragioni ed argomentazioni diverse da quelle addotte dal giudice di primo grado, senza che sia per questo configurabile una contraddittorietà tra li dispositivo e la motivazione della sentenza d’appello. Conformi Cass. n. 1604/2008 nonchè n. 9661 del 10/09/1999).

Nè i succitati motivi meritano pregio laddove contestano la ricostruzione del medesimi fatti e quindi anche delle volontà dei contraenti, operata dalla Corte d’Appello, trattandosi in effetti di doglianze volte più che altro a rivisitare in punto di fatto quanto correttamente, sotto il profilo logico – giuridico, opinato dal giudice di merito con argomentazioni perciò non passibili di censura in questa sede di legittimità.

Infatti, la Corte distrettuale legittimamente rigettava il primo motivo di appello (v. l’ampia ed esauriente motivazione a pagg. 4-6 della sentenza), relativo alla pretesa violazione della regola dettata dal citato art. 112, precisando che gli attori avevano comunque chiesto la condanna dell’attuale parte ricorrente al risarcimento dei danni da mancata riassunzione; ciò che non ostava ad una pronuncia in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, citando tra l’altro varia giurisprudenza di legittimità formatasi sul tema della consentita diversa qualificazione giuridica degli stessi fatti dedotti o ritualmente acquisiti in giudizio (specialmente con ampi riferimenti alla suddetta pronuncia di questa Corte, sez. lavoro, n. 17168/12). Di conseguenza, anche nella fattispecie si era realizzata soltanto una riqualificazione giuridica dei fatti controversi, qual puntualmente dedotti ed allegati.

Quindi, venivano disattesi il secondo ed il quarto motivo d’appello (mancato verificarsi della condizione quale la cessione dell’azienda, e non anche la semplice ripresa dell’attività alberghiera – la riassunzione doveva considerarsi subordinata all’ipotesi di nuova gestione dell’attività alberghiera da parte della stessa originaria società gerente – ovvero al fitto o alla cessione a terzi dell’azienda – cfr. pgg. da sei a 13 della sentenza, punti da tre a 3.2, laddove venivano dettagliatamente esaminati l’accordo sindacale del (OMISSIS), segnatamente clausole 1, 2 e 5 nonchè 6, ulteriore accordo del 2 ottobre 2007, per cui la G.A.O. si era impegnata a prolungare sino all’ottobre 2008 il pagamento della somma di 600,00 Euro a favore dei dipendenti, a causa dei ritardi nel rilascio del permesso di costruire, donde lo slittamento dei tempi necessari alla ristrutturazione dello stabile, rispetto al previsto). Pertanto, secondo la Corte di merito, in conclusione all’accordo del (OMISSIS) era da ascriversi un contenuto contrattuale comportante una diretta obbligazione della GAO alla riassunzione del personale licenziato – qualora la stessa avesse assunto in proprio la nuova gestione dell’attività alberghiera – ovvero la promessa di assunzione da parte di terzi – che avessero assunto la titolarità della nuova gestione alberghiera, però in assenza di ogni precisazione delimitativa circa l’oggetto del fino o della cessione. Il collegamento della dichiarazione negoziale in questione con il contestuale accordo di chiusura dell’avvitato licenziamento collettivo rendeva evidente che l’impegno a garantire a riassunzione veniva assunto nel momento in cui si concordava sulla cessazione dell’attività, cosicchè la stressa ripresa di questa non era preventivamente definibile nè in relazione a chi vi avesse potuto provvedere, nè in ordine alla sue stesse modalità contrattuali (rispetto alle quali rilevava, ad ogni modo, che al momento di quella cessazione la stessa azienda, nella sua preesistente consistenza, veniva meno).

La sentenza de qua superava, poi, il terzo e quarto motivo di appello (pagg. da 8 a 10, punti 4, 4.1 e 4.29, circa il perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 1381 c.c. – proposte di assunzione da parte di LEADER SERVICE e di ECOLOGICA Barese, garanzia di riassunzione soltanto di 14 dipendenti su 17), laddove dagli atti emergevano che era venuta meno la pur pattuita garanzia degli scatti di anzianità maturati al momento del licenziamento, il mutamento di qualifica professionale per la D.C. donde l’impossibilità della sua assunzione con lo stesso livello del precedente inquadramento. Similmente, le proposte relative al F. ed al P. comportavano un inquadramento Inferiore e la stessa appellante aveva allegato di aver procurato quanto promesso soltanto ad otto dei sui ex dipendenti, sicchè a parte la mancata previsione nell’accordo di alcun criterio preordinato alla scelta del personale ed assumere, non vi era alcuna ragione per rifiutare l’assunzione degli appellati allorchè costoro ne avevano fatto richiesta con l’istanza di tentativo di conciliazione del (OMISSIS). Di conseguenza, la promessa del fatto del terzo risultava piena ed incondizionata.

Infine, veniva esaminato anche l’ultimo motivo di appello (pgg. 10/12 della sentenza) relativo alla censurata liquidazione dell’indennizzo, precisandosi, tra l’altro, che il reclamato risarcimento del danno era stato chiesto dagli attori sino alla definizione giudiziale della controversia. Quindi, avuto riguardo alle obbligazioni di facere e di dare a carico del promittente, pur escludendo un inadempimento della prima, ricorreva il solo presupposto dell’indennizzo per la seconda, che andava equitativamente liquidato in relazione al lasso temporale verosimilmente idoneo, all’epoca del fatti di causa, a consentire un’adeguata ricollocazione lavorativa degli istanti, tenuto conto delle loro attitudini professionali (facchino/addetto alle sale quanto al F. ed al P., impiegata D.C.). Dunque, secondo i giudici di appello, proprio il criterio equitativo della liquidazione consisteva nel riferimento piuttosto che ad un periodo di non lavoro, in quanto tale considerato, in un parametro esterno (le retribuzioni già percepite in costanza del rapporto di lavoro e rapportate ad un periodo d’inoccupazione), che era stato ritenuto appunto equitativamente adeguato a consentire un’adeguata ricollocazione lavorativa. In altri termini, esclusa la fondatezza dei denunziato inadempimento e con esso di una pretesa risarcitosia correlata al danno emergente ed al lucro cessante, l’appellata pronuncia aveva condivisiblimente finalizzato la determinazione dell’indennizzo all’anzidetta adeguata ricollocazione, valutando perciò come equo un importo che a tale funzione potesse rispondere.

Orbene, in tema di ricorso per cassazione il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativi, della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. tra le altre Cass. n. 26110 del 30/12/2015, secondo cui il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte dei provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, soltanto attraverso il vizio di motivazione. Conformi: Cass. n. 8315 del 04/04/2013.

V. pure Cass. 2 civ. n. 6224 del 29/04/2002, secondo cui non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., n. 3), la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito, non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta, non un giudizio di diritto, ma un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto li profilo del vizio di motivazione.

In senso analogo cfr. anche la pronuncia delle Sezioni unite civili di questa Corte, n. 10313 del 05/05/2006, secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi Implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta Interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa).

D’altro canto, questa Corte (sez. lav., sentenza n. 261 del 09/01/2009), peraltro in base alla previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., aveva modo di affermare che nel caso in cui nel ricorso venga prospettato un vizio di motivazione della sentenza, il ricorrente – a fronte di una denunziata insufficiente spiegazione logica relativa all’apprezzamento, operato dal giudice di merito, del fatti della controversia o delle prove – non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze Istruttorie con una logica alternativa – pur se essa sia supponete dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla realtà fattuale – essendo invece necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile, atteso che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (secondo il testo allora ratione temporis applicabile), dovendo incidere su un fatto “decisivo del giudizio”, legittima il ricorso per cassazione unicamente per vizi di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione e non certo per consentire alla S.C., quale giudice di sola legittimità, di scegliere sulla base di criteri possibilistici o probabilistici tra due prospettazioni, ambedue logiche ma nello stesso tempo alternative (in senso analogo Cass. 1 civ. n. 25927 del 18 novembre – 23/12/2015, secondo cui per il ricorso relativo ad insufficiente giustificazione logica dell’apprezzamento del fatti della controversia o delle prove non basta prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, essendo necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile.

Circa poi le rilevanti novità introdotte dal legislatore nella formulazione del citato art. 360, n. 5, qui invece applicabili, con evidenti riflessi nella fattispecie oggetto di questo giudizio, per cui opera inoltre la preclusione di cui all’art. 348 ter, u.c. stesso codice di rito, v. l’ampia disamina contenuta nella motivazione della pronuncia di Cass. civ. n. 26097 del 13/11 – 11/12/2014 con la giurisprudenza Ivi richiamata, in part. Cass. sez. un. civ. n. 8053 del 07/04/2014, secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cessazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, In quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nei “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Inoltre, Cass. civ. n. 26097/2014 cit. ha chiarito anche che in Ipotesi di cosiddetta “doppia conforme”, ex art. 348 ter c.p.c., comma 4, è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicchè il sindacato di legittimità è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili; citando altresì Cass. sez. un. 22 settembre 2014 n. 19881, di guisa che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie).

D’altro canto, risultano pure inconferenti i riferimenti fatti da parte ricorrente all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non risultando nella specie, alla stregua altresì delle considerazioni che precedono, alcun rilevante error in procedendo in relazione alla pronuncia di cui è stata chiesta la cassazione (cfr. peraltro Cass. n. 26831 del 18/12/2014, secondo cui la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione; ne deriva che è inammissibile l’impugnazione, con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito. Conformi Cass. n. 6330/2014, nonchè n. 15676 del 09/07/2014 secondo la quale i vizi rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, cit. comportante per l’impugnante l’onere di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale. Analogamente Cass. 3 n. 18635 del 12/09/2011, secondo la quale l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, cit. non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato “error in procedendo”, di modo che, ove il ricorrente non indichi lo specifico e concreto pregiudizio subito, l’addotto “error in procedendo” non acquista rilievo idoneo a determinare l’annullamento della sentenza Impugnata).

Pertanto nei sensi anzidetti, conformemente ai richiamati principio di diritto, pertinenti al caso in esame, alla stregua delle censure enunciate dalla Società in epigrafe, il ricorso va senz’altro disatteso.

La soccombente ricorrente va di conseguenza condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei soli controricorrenti, che hanno, in questa sede, resistito, in relazione al valore della controversia, desumibile dal dispositivo della confermata decisione di primo grado. Infine, deve trovare applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: ai sensi di tale disposizione, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni discrezionali (Cass. 14 marzo 2014, n. 5955) – della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Non vi è così altra scelta che dare atto del rigetto del ricorso, quale idoneo presupposto per il versamento, da parte della ricorrente ed ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso principale.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore dei controricorrenti in Euro 5000,00 per compensi professionali ed in Euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso per spese generali in ragione del 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2016

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