Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18376 del 06/08/2010

Cassazione civile sez. III, 06/08/2010, (ud. 07/07/2010, dep. 06/08/2010), n.18376

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – President – –

Dott. FILADORO Camillo – Consiglie – –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consiglie – –

Dott. MASSERA Maurizio – Consiglie – –

Dott. D’AMICO Paolo – Consiglie – –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.F. (OMISSIS), T.G.

(OMISSIS), T.E. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PESCHERECCI 1, presso lo

studio dell’avvocato TIBERIO PIERLUIGI, rappresentati e difesi

dall’avvocato SCILLIA CARMELO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.C.M.A. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA MONTESANTO 25, presso lo studio

dell’avvocato PATERNO’ RADDUSA PIETRO, rappresentata e difesa

dall’avvocato PAPALE ORAZIO giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 609/2005 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

SEZIONE AGRARIA, emessa il 13/06/2005, depositata il 27/06/2005

R.G.N. 1603/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2010 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE FRACNESCO SCILLIA (per delega dell’Avv.

SCILLIA CARMELO);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso 21 gennaio 2002 D.C.M., in proprio e quale rappresentante di + ALTRI OMESSI ha adito la sezione specializzata agraria del Tribunale di Caltagirone.

Ha esposto la ricorrente che essi attori, eredi di S. G., + ALTRI OMESSI fondo rustico in (OMISSIS), fondo che negli anni cinquanta era stato – dai detti danti causa – concesso a mezzadria a T.S..

Questo ultimo – ha riferito altresi’ l’attrice – aveva coltivato il fondo fino alla sua morte avvenuta nell’aprile del 1996 ed i suoi figli, T.G., F. ed E., nonostante privi di qualsiasi diritto a mente della L. n. 203 del 1982, art. 49 – non avendo mai esercitato attivita’ agricola come coltivatori diretti o come imprenditori agricoli – non avevano inteso rilasciare il fondo.

Tutto cio’ premesso la ricorrente ha chiesto fosse dichiarato risolto il contratto inter partes alla data della morte di T. S. con condanna dei detti figli del T. al rilascio del fondo oltre al risarcimento del danno.

Costituitisi in giudizio i T. hanno premesso, in fatto, che nessun rapporto di mezzadria era intercorso tra gli S. e T.S. posto che, negli anni cinquanta, questo ultimo aveva cominciato a possedere il fondo con la consapevolezza degli S. che, attesi i cordiali rapporti, e non avendo interesse a curare ed amministrare il terreno, avevano lasciato che cio’ facesse T.S., appropriandosi dei frutti.

Il loro genitore – hanno esposto ancora i convenuti – aveva tuttavia spontaneamente donato agli S. a titolo di amicizia un po’ d’olio o frutta di stagione.

Tutto cio’ premesso, i convenuti hanno eccepito la infondatezza della domanda attrice, atteso che essi concludenti legittimamente possedevano il fondo per essersi verificata, gia’ dagli anni settanta, l’usucapione acquisitiva dell’immobile.

Poiche’ per tale ragione essi T. avevano gia’ avviato altro giudizio teso all’accertamento della avvenuta usucapione del fondo in discussione i convenuti hanno chiesto, da un lato, la sospensione del presente giudizio, ex art. 295 c.p.c., in attesa della definizione del giudizio di usucapione, dall’altro, il rigetto della domanda perche’ infondata per l’avvenuta usucapione del fondo in loro favore.

In via ulteriormente subordinata gli attori hanno chiesto, infine, l’indennita’ del caso per le migliorie apportate.

Espletata la istruttoria del caso, l’adito Tribunale con sentenza 10 – 24 maggio 2004, ritenuta la sussistenza del dedotto rapporto agrario ed esclusa la eccepita usucapione, ha dichiarato risolto il contratto e condannato i convenuti al rilascio del fondo, rigettata ogni altra domanda.

Gravata tale pronunzia dai soccombenti T.F. e T.E., nel contraddittorio della D.C. che si e’ costituita in proprio e nella qualita’ concludendo per la conferma dell’impugnata sentenza nonche’ di T.G. che ha spiegato appello incidentale, la Corte di appello di Catania, sezione specializzata agraria, con sentenza 13 – 27 giugno 2005 ha rigettato gli appelli, con conferma della impugnata sentenza.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia notificata il 14 marzo 2006 hanno proposto ricorso, affidato a sette motivi T. F., T.E. e T.G..

Resiste con controricorso, D.C.M.A. in proprio e quale procuratrice speciale di S.G., figlio erede di + ALTRI OMESSI .

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Dedotta dall’appellante incidentale T.G. la non integrita’ del contraddittorio per non essere stati parti del giudizio di primo grado altri.

L’erede dell’originario mezzadro T.S., cioe’ la figlia di questi T.C. e i nipoti P.C., G. e Gi., figli della premorta figlia T.M. G., i giudici di appello hanno ritenuto la censura priva di fondamento.

Premesso che il giudizio, diretto a far dichiarare che il rapporto agrario e’ cessato alla morte del T.S., e’ iniziato in epoca ben successiva al decesso di questo ultimo ed allorche’ unici occupanti del fondo (e sullo stesso accampanti diritti; erano i convenuti in primo grado, hanno precisato i giudici di secondo grado, va ricordato che in base alla L. n. 203 del 1982, ed in particolare dell’art. 49, u.c., in caso di morte dell’affittuario, mezzadro o colono, nel contratto non succedono gli eredi in quanto tali bensi’ soltanto quelli tra essi che dovessero avere la qualita’ di coltivatore diretto, ovvero di imprenditore agricolo a titolo principale e che intendano avvalersi di tale facolta’.

Poiche’ la parte che lamenti la non integrita’ del contraddittorio deve dedurre e comprovare i presupposti in base ai quali ulteriori soggetti sono litisconsorti necessari, ne discende – hanno concluso la propria indagine sul punto quei giudici – che la mera prospettazione che in causa non siano stati evocati altri eredi ex lege di T.S., senza alcun riferimento agli ulteriori detti requisiti e presupposti del resto e’ sintomatico che durante l’intero giudizio di primo grado i T. non abbiano mai menzionato ulteriori litisconsorti ne’ sia mai emerso l’interessamento di altri al fondo in esame non e’ idonea a dimostrare l’assunto.

2. Con il primo motivo i ricorrenti censurano nella parte de qua la sentenza impugnata denunziando “violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Nullita’ del procedimento e della sentenza» per essersi il giudizio del merito svoltosi senza la partecipazione degli altri eredi del defunto T.S..

Si richiama, al riguardo, l’autorita’ dell’insegnamento contenuto in Cass. 6 agosto 1997, n. 2283 che non esiste, atteso che Cass. 14 marzo 1997, n. 2283, riguarda tutt’altro argomento e in Cass. 10 gennaio 2003, n. 203.

3. Il motivo non coglie nel segno.

Giusta la testuale previsione di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49, u.c. – da cui totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti – in caso di morte dell’affittuario, colono compartecipante o soccidario, il contratto si scioglie alla fine della annata agraria in corso, salvo che tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attivita’ agricola in qualita’ di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale, come previsto dal comma 1.

Pacifico quanto sopra, non controverso, in linea di fatto, da un lato, che l’originario conduttore del fondo per cui e’ controversia e’ deceduto nell’aprile 1996, dall’altro, che il presente giudizio e’ stato promosso solo successivamente, con atto 21 gennaio 2002, per sentir dichiarare l’avvenuto scioglimento del rapporto agrario gia’ esistente inter partes alla data della morte di T. S., da ultimo, che degli eredi di T.S. unicamente gli odierni ricorrenti ( T.F., E. e G.) invocano di avere titolo per succedere nella posizione del loro dante causa nel godimento del fondo in discussione, e’ di palmare evidenza che non sussiste la invocata violazione della regola di cui all’art. 102 c.p.c. per non essere stati evocati in giudizio altri eredi del defunto T.S..

Deve ribadirsi – infatti – al riguardo, in conformita’ a costante giurisprudenza di questa Corte regola-trice, che a norma della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49 in caso di morte del conduttore e’ consentita la prosecuzione ex lege del rapporto con l’erede, in quanto questi presenti il requisito della qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale, ovvero si trovi in determinate condizioni volute da tale norma.

Non sussiste, pertanto, nel giudizio promosso per il rilascio del fondo, la necessita’ di integrare il contraddittorio anche nei confronti degli eredi privi dei detti requisiti, non avendo gli stessi titolo per conseguire la detenzione del bene (Cass. 11 gennaio 2002, n. 322; Cass. 27 luglio 1995, n. 8186), specie qualora detti eredi (privi dei requisiti di legge per succedere al proprio dante causa nella qualita’ di conduttori del fondo) abbiano abbandonato il fondo stesso e non abbiano avanzato, al riguardo, alcuna pretesa.

Come gia’ affermato in altra occasione, piu’ parti devono agire o essere convenute nello stesso processo se “la decisione non puo’ pronunciarsi che in confronto di piu’ parti”, ossia quando la situazione sostanziale dedotta in giudizio deve essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde non privare la decisione della utilita’ connessa all’esperimento dell’azione proposta, indipendentemente dalla natura del procedimento richiesto.

Premesso quanto sopra, si osserva che come risulta dalla stessa formulazione letterale della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49, u.c. una tale necessita’ di una decisione unitaria, nei confronti di tutti gli eredi dell’originario conduttore – non sussiste con riguardo a coloro dei detti eredi che sono privi dei requisiti per succedere nel rapporto.

A norma della ricordata disposizione, infatti, il contratto si scioglie ex lege nei confronti degli eredi non coltivatori diretti mentre prosegue esclusivamente in capo a quello (o a quelli) degli eredi che possano vantare una tale qualita’, si’ che e’ palese la autonomia della posizione di ciascuno dei detti eredi.

Pertanto, come qualora il giudice del merito abbia escluso che alcuni degli eredi del defunto conduttore possano succedergli nel rapporto e costoro non abbiano impugnato la relativa statuizione e’ irrilevante che il ricorso per cassazione, promosso da altri coeredi che assumono di proseguire nel rapporto, non sia stato notificato nei confronti degli altri eredi e non deve, pertanto, disporsi l’integrazione del contraddittorio, nei loro confronti, a norma dell’art. 331 c.p.c. (Cass. 18 luglio 2008, n. 19924), cosi’ deve escludersi che sia necessario l’evocazione in giudizio degli eredi del defunto conduttore che non abbiano mai reclamato la propria qualita’ di successori nel rapporto agrario di cui era parte il loro dante causa, per avere esercitato e continuato ad esercitare attivita’ agricola in qualita’ di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale.

In alcun modo pertinente, al fine di pervenire a una diversa soluzione della controversia , e’ la giurisprudenza di questa Corte, ricordata in ricorso, con riguardo all’eventualita’ – palesemente non ricorrente nella specie – in cui sia chiesta una pronunzia di risoluzione, per inadempimento, del contratto di affitto agrario, nel quale una pluralita’ di soggetti riveste la qualita’ di conduttore.

4. Censurando i T. la sentenza del primo giudice per aver deciso la controversia senza disporre la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. in attesa della definizione dell’altra causa inter partes avente ad oggetto la domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione in loro favore del fondo in controversia, i giudici di appello hanno disatteso tale doglianza evidenziando che per farsi luogo alla sospensione necessaria del giudizio, in attesa della definizione di altra controversia sottoposta allo stesso o ad altro giudice, la questione che si assume pregiudiziale non deve essere stata sottoposta anche all’esame del giudice che dovrebbe, in ipotesi, procedere alla sospensione, poiche’ in tal caso, essendone egli investito, ha il potere – dovere di deciderla.

Proprio tale ipotesi ricorre nella specie posto che la questione relativa all’intervenuta usucapione del bene e’ stata sottoposta, quale fatto impeditivo dell’accoglimento della domanda attorea all’esame anche della sezione agraria del Tribunale di Caltagirone adito dai concedenti per ottenere il rilascio del fondo occupato dai T., e costituisce pertanto oggetto rientrante nel thema decidendum di questa causa.

Del resto la sospensione necessaria del processo presuppone non solo l’indispensabilita’ logica dell’antecedente, nel senso che la definizione della relativa controversia si ponga come momento ineliminabile del processo logico della causa dipendente prendendo questa contenuto anche da quanto affermato con la pronuncia sulla controversia pregiudiziale, ma anche l’indispensabilita’ giuridica,, nel senso che l’accertamento dell’antecedente logico venga postulato con effetto di giudicato per modo che possa eventualmente verificarsi conflitto di giudicati.

Cio’ che nella specie – hanno evidenziato quei giudici – non potrebbe verificarsi perche’, come in ipotesi analoghe evidenziato dal giudice di legittimita’ l’eventuale accoglimento nell’un giudizio della domanda di rilascio del fondo e nell’altro di quella di usucapione da parte dell’affittuario comporterebbe l’unica conseguenza che – per effetto della seconda pronuncia -il concedente sara’ costretto a restituire l’immobile che l’affittuario aveva dovuto rilasciargli in ottemperanza della prima sentenza.

Inoltre – hanno ancora precisato i giudici a quibus – lo stesso carattere latu sensu pregiudiziale del giudizio di usucapione rispetto a quello teso a far accertare 1 ‘esaurimento del rapporto di mezzadria appare addirittura ribaltabile posto che l’accertamento che alla base dell’acquisizione del potere sulla cosa vi sia stato o meno un rapporto obbligatorio costituisce, alla luce dell’art. 1141 c.c. presupposto della stessa domanda di usucapione.

5. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano nella parte de qua la sentenza impugnata, lamentando “violazione dell’art. 295 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto”.

Si assume, infatti, che la domanda di usucapione appartiene alla competenza del giudice ordinario e la stessa – di conseguenza – non puo’ essere esaminata dalla sezione specializzata agraria si’ che – contrariamente a quanto invoca la sentenza impugnata – la stessa non costituisce oggetto rientrante nel thema decidendum di questa causa.

6. La censura e’ inammissibile.

Come assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza piu’ che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente – nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata su una pluralita’ di ragioni, tra di loro distinte e tutte autonomamente sufficienti a sorreggerla sul piano logico – giuridico, e’ necessario, affinche’ si giunga alla cassazione della pronuncia, che il ricorso si rivolga contro ciascuna di queste, in quanto, in caso contrario, le ragioni non censurate sortirebbero l’effetto di mantenere ferma la decisione basata su di esse (Cass. 20 novembre 2009, :n. 24540; Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640; Cass. 7 luglio 2008, n. 18589).

Certo quanto sopra e’ agevole osservare che i giudici del merito hanno posto, a fondamento dei rigetto a della censura relativa alla mancata sospensione del presente giudizio, in attesa della definizione di altro, tra le stesse parti, avente a oggetto l’accertamento della avvenuto acquisto, per usucapione, del fondo per cui e’ controversia da parte degli odierni ricorrenti, due – autonome – rationes decidendi.

Avendo i ricorrenti censurato esclusivamente la prima e taciuto totalmente quanto agli argomenti sviluppati nel seconda (mediante il rinvio ad una piu’ che consolidata giurisprudenza, costante nell’affermare che non sussiste un rapporto di pregiudizialita’ necessaria tra l’azione proposta dal comodatario e, quindi, anche dall’affittuario, volta ad ottenere l’accertamento della proprieta’ del bene, e quella di rilascio promossa viceversa dal comodante o dal concedente, in ragione della diversita’ tra il titolo in base al quale si chiedeva il rilascio del dante causa (comodato) e quello oggetto dell’azione proposta dal ricorrente, tendente ad ottenere la declaratoria di proprieta’ per usucapione, trattandosi viceversa di un’ipotesi di pregiudizialita’ meramente facoltativa, e conseguendone ulteriormente che “come tale, la relativa esclusione del giudice di merito e’ insindacabile” in sede di legittimita’, ad esempio, in questo senso, Cass. 12 maggio 2003, n. 7195, nonche’ per una fattispecie identica alla presente, Cass. 23 ottobre 1998, n. 10558) e’ palese – come anticipato – la inammissibilita’, per carenza di interesse, del motivo in esame.

Anche nella eventualita’ – infatti – lo stesso dovesse risultare fondato non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata sul punto, rimanendo la stessa ferma in base all’ulteriore ratio decidendi non oggetto di censura.

7. I T. hanno censurato la sentenza del primo giudice, con il secondo motivo di appello deducendo che in mancanza di richiesta di conversione, la pretesa mezzadria era cessata nel 1989, sicche’ da tale momento e fino al 1997 era evidente che il relativo contratto non poteva essere qualificato di mezzadria, – ma di affitto, in applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 27.

Il motivo – hanno affermato i giudici di appello – e’ infondato perche’ la prosecuzione di fatto del rapporto di mezzadria al termine della durata stabilita dalla L. n. 203 del 1982, art. 34 – ed e’ di fatto la prosecuzione che avvenga, come nella specie, senza stipula di un nuovo contratto – non determina l’instaurazione di un nuovo rapporto agrario della stessa natura perche’ l’art. 45 della stessa legge esclude la possibilita’ di una tacita rinnovazione – tant’e’ che non e’ imposta alcuna disdetta – in quanto risolventesi nell’instaurazione di un nuovo rapporto mezzadrile in contrasto con il divieto di nuovi contratti associativi.

Non viene quindi meno – hanno concluso i giudici di appello – il diritto del concedente di chiedere la declaratoria di avvenuta cessazione del contratto ne’ puo’ applicarsi l’art. 27 della legge citata il quale richiede la stipula di un nuovo contratto e non la mera prosecuzione di fatto del risalente rapporto.

Per altro ed assorbente verso – hanno ancora evidenziato i giudici di appello – va osservato come proprio la richiesta applicazione dell’art. 27 in relazione al periodo successivo al 1989 presuppone ammessa da parte dei T. la qualita’ di coltivatore diretto del padre T.S., deceduto solo nell’aprile del ‘96 (l’art. 27 infatti, ex art. 23, non concerne l’affitto a non coltivatore diretto e da tale ammissione non puo’ che discendere comunque l’applicazione anche dell’art. 49, u.c. sicche’ la morte dell’affittuario T.S. (aprile ‘96), se di affitto si vuoi parlare, ha determinato comunque la cessazione del rapporto in mancanza di eredi coltivatori diretti od imprenditori agricoli a titolo principale che intendano subentrare, requisiti o pretesa neanche dedotti dai T. che, va ribadito, in primo grado si sono limitati a chiedere il rigetto della domanda per l’insussistenza di alcun rapporto agrario e, quindi, della intervenuta usucapione del fondo ed in subordine il paga mento dell’indennizzo per migliorie (indennizzo che presuppone la cessazione del rapporto).

8. I ricorrenti censurano con il terzo motivo la sentenza impugnata nella parte de qua denunziando “violazione e falsa applicazione dell’art. 2141 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e 5”.

Si osserva, in particolare, che dal 1989 (data di scadenza dell’asserito rapporto di mezzadria prorogato ex lege) al 2001 (data di inizio del presente giudizio) e’ stato posseduto da T. S. (morto del (OMISSIS)) e dai figli e da cio’ consegue – anche a voler ritenere che un tempo tra le parti era intercorso un ipotetico rapporto agrario (circostanza decisamente contestata dai T.), che tale contratto, alla data della domanda giudiziale, non poteva essere qualificato di mezzadria.

Pertanto, concludono i ricorrenti, e’ giuridicamente errata la pronuncia adottata nella parte in cui ha dichiarato risolto il contratto di affitto, sul presupposto della esistenza di un contratto di mezzadria sino alla morte del T. proprio perche’ alla data del 10 novembre 1997 non era possibile allegare a fondamento della domanda di rilascio l’esistenza di un contratto di mezzadria.

Gli stessi S., concludono i ricorrenti, hanno affermato espressamente che il terreno aveva mutato destinazione essendo edificabile, si’ che l’azione da esperire era quella di cui all’art. 948 c.c. di natura reale e di competenza del giudice ordinario.

9. Il motivo e’ infondato.

Sotto entrambi i profili in cui si articola.

9.1. Come noto a decorrere dalla data di entrata in vigore della L. 15 settembre 1964, n. 756, giusta il non equivoco disposto dell’art. 3, comma 1, di questa ultima, non possono essere stipulati nuovi contratti di mezzadria.

Contemporaneamente i contratti stipulati in violazione del divieto in questione sono nulli (L. n. 756 del 1964, art. 3, comma 2, prima parte), mentre la nullita’ ai sensi della precedente disposizione non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione (L. n. 756 del 1964, art. 3, comma 2, seconda parte).

Da ultimo:

– da un lato, giusta quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza piu’ che consolidata di questa Corte regolatrice, in tema di contratti agrari, in presenza di rapporto associativo per il quale non sia stata fatta richiesta di conversione in affitto a coltivatore diretto L. n. 203 del 1982, ex art. 25 e segg. trova applicazione, al fine di determinarne la data di cessazione, la L. n. 203 del 1982, art. 34 che disciplina in via esclusiva la durata dei contratti associativi non convertiti (cfr., ad esempio, Cass. 15 gennaio 2002, n. 374);

– dall’altro, – la L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 45, comma 2 pur se fa divieto, alle parti, di stipulare contratti di mezzadria, non prevede che sia obbligo dei concedenti agire immediatamente giudizialmente per ottenere la consegna dei fondi gia’ detenuti dalla controparte a titolo di mezzadria una volta che questa sia ex lege cessata.

Premesso quanto precede, si osserva che nella specie:

– da una parte, non vi e’ stata, su istanza di alcuna delle parti, domanda di conversione dell’originario contratto di mezzadria in affitto (ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 25 e segg.);

– dall’altra, che cessato il rapporto alla data di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 34, lett. a) (cioe’ trascorsi sei anni dalla entrata in vigore di tale legge), le parti (id est i concedenti e T. S.) non hanno stipulato un nuovo contratto (conforme ai modelli consentiti dalla L. 3 maggio 1982, n. 203);

– da ultimo, che i concedenti, pur cessato ex lege il contratto di mezzadria non hanno richiesto la restituzione del predio (il T., in altri termini e’ rimasto nel godimento del fondo).

Pacifico quanto sopra e’ palese che correttamente i giudici del merito hanno ritenuto che il rapporto di mezzadria – cessato ex lege nel 1989 – e’ proseguito, tra le parti, in linea di fatto, sino alla data della morte del mezzadro, atteso – come notato sopra – che la nullita’ della mezzadria non sussiste per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione.

9.2. Quanto – da ultimo – al rilievo che avendo le controparti eccepito la natura non piu’ agricola, ma edificabile, dei terreni oggetto di controversia le stesse non potevano piu’ agire nei confronti degli odierni ricorrenti invocando un cessato rapporto contrattuale un tempo in essere con il dante causa di essi concludenti, ma erano tenuti – in realta’ – all’esperimento di una azione reale, a norma dell’art. 948 c.c. innanzi al tribunale in composizione ordinaria, lo stesso e’, per un verso, inammissibile, per altro manifestamente infondato.

9.2.1. Non risultando, in particolare, la questione specifica trattata nella sentenza impugnata e non avendo i ricorrenti dedotto di averla gia’ prospettata in sede di merito (indicando, altresi’, in quale occasione la stessa e’ stata sollevata), e’ evidente -come anticipato – che la stessa e’ inammissibile.

In sede di legittima, infatti – come assolutamente pacifico presso una giurisprudenza piu’ che consolidata di questa Corte regolatrice – non possono dedursi questioni giuridiche non prospettate nel corso del giudizio di merito, che richiedano nuovi accertamenti di fatto (Cfr. Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 giugno 2008, n. 17497, tra le tantissime).

9.2.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, la deduzione e’ manifestamente infondata atteso che la competenza della sezione specializzata agraria non deriva dalla circostanza che il petitum sostanziale (nella specie: domanda di rilascio di un terreno) sia un bene avente, in base al piano regolatore generale vigente, destinazione agricola, ma dalla natura del rapporto invocato dall’attore.

Certo che nella specie gli attori hanno, da un lato, chiesto fosse dichiarato cessato un contratto agrario (di mezzadria, gia’ in essere con il dante causa dei convenuti), dall’altro, accertato che i convenuti non avevano alcun titolo per detenere, in forza di quel contratto, il terreno oggetto di controversia, e’ palese che correttamente e’ stata esperita, dagli attori – innanzi alla sezione specializzata agraria, competente per materia L. 3 maggio 1982, n. 203, ex art. 47 e L. 14 febbraio 1990, n. 29, art. 9 — un’azione personale, e non reale, nei confronti dei convenuti, a prescindere dalla destinazione urbanistica del terreno detenuto dai convenuti.

10. I giudici del merito, in sede di interpretazione delle deduzioni difensive dei ricorrenti sono pervenuti alla conclusione in forza della quale deve ritenersi che l’ingresso nel fondo da parte del T. sia avvenuto proprio col consenso dei proprietari e che costoro abbiano di poi ricevuto prodotti del fondo costituiscano fatti che devono valutarsi alla luce delle comuni nozioni di esperienza in base alle quali il consenso prestato al godimento della cosa propria e la dazione di prodotti non rappresentano una amichevole e graziosa concessione dei proprietari – la quale del resto non potrebbe comunque ex art. 1144 c.c. porsi a fondamento del possesso ad usucapionem – e, rispettivamente una regalia del possessore sine titulo bensi’ una concessione di godimento della cosa nell’ambito di un rapporto obbligatorio consentito da chi sulla cosa ha e mantiene un pozione diritto, rapporto in cui trova giustificazione anche l’elargizione al concedente di prodotti del fondo.

11. Con il quarto motivo i ricorrenti denunziano la sentenza impugnata nella parte de qua lamentando “violazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5. Error in procedendo”.

Si assume, in particolare, che la Corte ha dato per certa una circostanza di fatto mai addotta dai T. e anzi contraddetta dalle loro univoche ammissioni, incorrendo in un error in procedendo, consistente in un vero e proprio travalicamento dei limiti del giudizio. I T. infatti non hanno mai affermato che l’ingresso nel fondo e’ avvenuto con il consenso degli S., piuttosto il contrario quarto motivo;

12. Il riassunto motivo e’ inammissibile.

Giusta quanto assolutamente pacifico – presso una piu’ che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice – da cui totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti la interpretazione dell’atto introduttivo del giudizio, come degli altri scritti difensivi delle parti e’ riservata – in via esclusiva – al giudice di merito.

Deriva, da quanto sopra, pertanto, che tale interpretazione:

– da un lato, se ancorata a correnti canoni di ermeneutica processuale, non e’ censurabile in sede di legittimita’ (cfr. Cass. 29 settembre 2009, n. 20870);

– dall’altro, e’ censurabile in sede di legittimita’ solo per vizi di motivazione, il che comporta l’esame non dell’atto che si assume erroneamente interpretato dal giudice a quo ma delle ragioni esposte nella sentenza impugnata per affermare quella particolare interpretazione degli scritti difensivi (cfr. Cass. 16 gennaio 2007, n. 820).

Pacifico quanto precede e’ agevole osservare che nella specie, ancorche’ si denunzi, nella rubrica dei motivo, la violazione dell’art. 116 c.p.c, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 nonche’ la motivazione della sentenza della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti – in realta’ – ritengono non adeguata la interpretazione data dai giudici di merito al complesso delle loro difese, suscettibili – a loro soggettivo parere – di essere interpretate in termini di-versi da quelli ritenuti (con adeguata interpretazione, carente di vizi logici e giuridici e, comunque, in alcun modo censurata nella parte espositiva del motivo) dai giudici di secondo grado ed e’ di palmare evidenza – pertanto – la inammissibilita’ della deduzione.

13. Come accennato sopra i giudici del merito, vuoi sulla base dei rilievi censurati dai ricorrenti con il quarto motivo di ricorso, vuoi alla luce della complessa istruttoria orale svoltasi in sede di merito, sono pervenuti alla conclusione che alla base del godimento del fondo da parte del dante causa degli odierni ricorrenti era un rapporto di mezzadria.

14. Con il quinto motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata denunziando “violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c, nn. 3 e 5. Omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione della sentenza”.

Il motivo per piu’ versi inammissibile, per altri manifestamente infondato non puo’ trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

14.1. Come non controverso in giurisprudenza, in tema di ripartizione dell’onere della prova la violazione dell’art. 2697 c.c. – rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 – si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne e’ gravata, secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, perche’ in questo caso vi sara’ solo un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimita’ solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (in termini, ad esempio, Cass. 14 febbraio 2001, n. 2155).

Certo quanto precede, non controverso che nella specie i ricorrenti, lungi dal denunziare che i giudici del merito – in violazione dei precetti di cui all’art. 2697 c.p.c. – hanno accolto la domanda sul rilievo che gli attori non fossero onerati dal dimostrare i propri assunti, si dolgono – esclusivamente – che le prove in atti siano state ritenute sufficienti all’accoglimento della domanda avversaria, e’ palese – sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 – la inammissibilita’ della deduzione.

14.2. Sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ancora, la deduzione e’ inammissibile, almeno sotto due, concorrenti, profili.

14.2.1. A norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo applicabile nella specie ratione temporis essendo oggetto di ricorso una pronunzia resa anteriormente al 2 marzo 2006 le sentenze pronunziate in grado di appello o in un unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione, tra l’altro “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”.

E’ palese, pertanto, che i detti vizi – salvo che non investano distinte proposizioni contenute nella stessa sentenza, cioe’ diversi punti decisivi – non possono concorrere tra di loro, ma sono alternativi.

Non essendo logicamente concepibile che una stessa motivazione sia, quanto allo stesso punto decisivo, contemporaneamente omessa, nonche’ insufficiente e, ancora contraddittoria e’ evidente che e’ onere del ricorrente precisare quale sia – in concreto – il vizio della sentenza, non potendo tale scelta (a norma dell’art. 111 Cost. e del principio inderogabile della terzieta’ del giudice) essere rimessa al giudice, come invece pretende parte ricorrente.

Totalmente disattendendo tali principi, i ricorrenti, pur assumendo, nella intitolazione del motivo, che la sentenza impugnata e’ affetta da “omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione della sentenza”, si astengono, nella parte espositiva del motivo – destinata a contenere, come impone l’art. 366 c.p.c., n. 4 “i motivi per i quali si chiede la cassazione” in quale passaggio e per quale ragione la motivazione sia omessa, sotto quale profilo insufficiente e, perche’, ancora contraddittoria.

14.2.2. Giusta quanto assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza piu’ che consolidata di questa Corte regolatrice, che in questa sede non puo’ che ulteriormente ribadirsi – il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciatale con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente e-sartie di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.

Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformita’ dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perche’ spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilita’ e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova.

L’art. 360 c.p.c., n. 5 – infatti – contrariamente a quanto suppongono gli attuali ricorrenti non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensi’ solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui e’ riservato l’apprezzamento dei fatti.

Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si puo’ giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico,, non gia’ quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (in tale senso, ad esempio, tra le tantissime, Cass. 27 ottobre 2006, n. 23087).

Non controverso quanto precede e’ agevole osservare che nella specie i ricorrenti si limitano a opporre alla interpretazione delle molteplici risultanze istruttorie data dai giudici del merito la loro, personale, soggettiva, lettura di quelle stesse risultanze invocando, in sintesi, di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione, un giudizio di merito di terzo grado.

15. Con il sesto motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata denunziando “violazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5.

Si osserva, infatti, che erroneamente i giudici del merito hanno ritenuto di prescindere nella valutazione dei fatti dall’affermazione condurre in proprio resa da T.F. e sottoscritta, in calce la versale di immissione in possesso del 5 novembre 1999.

16. Il motivo e’ inammissibile, per carenza di interesse.

Come evidenziato sopra la domanda attrice e’ stata accolta sul rilievo – assorbente – che il rapporto inter partes e’ cessato alla data in cui e’ venuto a morte T.S., gia’ mezzadro del fondo in discussione.

Pacifico quanto sopra e’ evidente che sono totalmente irrilevanti, al fine del decidere, e di pervenire -eventualmente – a una soluzione della controversia diversa da quella fatta propria dalla sentenza impugnata, le dichiarazioni rese dalle parti successivamente alla data della morte dell’originario mezzadro.

In altri termini, dovendosi nella specie accertare se a seguito della morte del proprio genitore gli odierni ricorrenti avessero, o meno, titolo a conservare il godimento del fondo per cui e’ controversia, e’ evidente che e’ totalmente irrilevante accertare quale fosse la soggettiva convinzione di detti attori (o, come si assume, di uno di essi, T.F.) circa il presunto titolo che legittimava il loro permanere sul fondo, in epoca successiva alla data in cui il rapporto era cessato.

17. Censurando gli appellanti la sentenza del primo giudice per avere la stessa, rigettato la domanda diretta a ottenere la indennita’ di legge per i miglioramenti apportati al fondo – avendo i T. impiantato colture e apportato ampliamenti alla casa rurale – i giudici di secondo grado hanno disatteso una tale pronunzia evidenziando:

– il motivo trascura di considerare, quanto alle colture, che il tribunale ne ha escluso in radice ogni indennizzabilita’ attesa la circostanza, incontestata nel motivo, che le stesse erano gia’ state estirpate per esplicita ammissione degli stessi T. (desumibile dai capitoli 3 e 4 della prova per testi dedotta con la loro comparsa di risposta di primo grado);

gli appellanti neanche deducono, ne’ tantomeno provano di avere apportato queste come altre asserite migliorie previo il necessario preventivo consenso dei concedenti, carenza che costituisce ulteriore e radicale motivo di esclusione del richiesto indennizzo, per migliorie, ove mai queste fossero state apportate e fossero ancora esistenti.

18. I ricorrenti censurano nella parte de qua la sentenza impugnata con il settimo – e ultimo – motivo con il quale denunziano “violazione dell’art. 2152 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e 5. Indennita’ dei miglioramenti”.

Si osserva, infatti, – da una parte, che trattandosi di mezzadria non era necessaria alcun consenso dei concedenti che nella specie, peraltro, deve ritenersi tacito, avendo costoro deciso di non curare e amministrare; il terreno;

– dall’altra, che non tutti i miglioramenti sono stati estirpati, avendo essi concludenti impiantato un oliveto e un pescheto e realizzato un fabbricato.

19. Il motivo e’ manifestamente infondato.

Innovando la precedente disciplina della materia la L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 11 e segg. hanno previsto che l’affittuario ha diritto ad ottenere una indennita’ per i miglioramenti apportati al fondo (o alla casa colonica, stessa L. n. 11 del 1971, art. 16) solo nella eventualita’ che esista, alternativamente:

– o il previo accordo con la parte concedente (accordo necessariamente espresso e preventivo e che non puo’, di conseguenza desumersi dal mero disinteresse del concedente per le modifiche apportate dall’affittuario al fondo invito domino, cfr., tra le tantissime, Cass. 26 febbraio 2008, n. 5026);

– la previa (cioe’ anteriore alla esecuzione dei miglioramenti) autorizzazione dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura, a norma della citata L. n. 11 del 1971, art. 11 prima, e della L. n. 203 del 1982, art. 16 poi (ad esempio, tra le tantissime, Cass. 18 marzo 2008, n. 7278).

Certo quanto sopra si osserva – ancora – che la L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 18, comma 1 prevede espressamente che “ai contratti di affitto a colonia parziaria o mezzadria si applicano le disposizioni che regolano l’affitto a coltivatore diretto”.

E’ di palmare evidenza – pertanto – che correttamente i giudici del merito hanno negato il diritto degli odierni ricorrenti ad ottenere la indennita’ di legge, per i miglioramenti apportati al fondo (ove, per ipotesi, esistenti al momento della domanda giudiziale) e alla casa colonica, certo essendo che nel caso concreto – pacificamente – non ricorre ne’ una ipotesi, ne’ l’altra di quelle sopra indicate.

Anche a prescindere da quanto precede – comunque -si osserva che l’art. 2152 c.c. prevede, espressamente:

– il concedente che intende compiere miglioramenti sul podere deve avvalersi del lavoro dei componenti della famiglia colonica che siano forniti della necessaria capacita’ lavorativa e questi sono tenuti a prestarlo dietro compenso comma 1;

– la misura del compenso se non e’ stabilita .. dalla convenzione o dagli usi e’ determinata dal giudice, sentite, ove occorra, le associazioni professionali e tenuto conto dell’eventuale incremento del reddito realizzato dal mezzadro comma 2.

E’ palese, pertanto, che in tanto sussiste il diritto del mezzadro a un compenso per l’opera prestata per l’esecuzione di miglioramenti in quanto questi siano stati voluti e commissionati dal concedente.

Cio’ in perfetta adesione con quella che era la struttura della mezzadria, nella quale – come noto – da un lato, la direzione dell’impresa (e, quindi, la scelta di eseguire eventuali miglioramenti) spetta al concedente il quale deve osservare le norme della buona tecnica agraria (art. 2145 c.c., comma 2), dall’altro il mezzadro e’ obbligato a prestare, secondo le direttive le concedente e la necessita’ della coltivazione il lavoro proprio e quello della famiglia colonica (art. 2147 c.c., comma 1).

Quanto precede trova conferma, altresi’ della L. 15 settembre 1964, n. 756, art. 6, commi 1 e 2 da cui totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti e in forza del quale, in particolare:

– il mezzadro collabora con il concedente nella direzione dell’impresa. A tal fine le parti concordano tutte le decisioni di rilevante interesse, secondo le esigenze della buona tecnica agraria.

– in caso di disaccordo e’ data facolta’ a ciascuna delle parti di chiedere il parere al capo dell’ispettorato provinciale dell’agricoltura.

Certo quanto precede e’ palese che anche alla luce della legislazione anteriore alla L. n. 11 del 1971 era, comunque, onere del mezzadro T.S., prima di eseguire innovazioni sul fondo (come ad esempio impiantare oliveti e pescheti o, ancora, apportare miglioramenti alla casa rurale) convenire queste con i concedenti, sollecitando, in caso di disaccordo,l’intervento dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura.

Certo per contro – come pacifico – che nella specie gli interventi asseritamente migliorativi sono stati posti in essere di sua iniziativa dal mezzadro, e’ palese che non esiste alcun diritto a pretendere il reclamato indennizzo.

20. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso, in conclusione, deve essere rigettato, con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 1.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Cosi’ deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile della Corte di cassazione, il 7 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2010

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