Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18338 del 07/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 07/09/2011, (ud. 12/07/2011, dep. 07/09/2011), n.18338

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS) in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

Studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa dall’avv.

GRANOZZI Gaetano, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA

SERGIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI

CLAUDIO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

B.S., G.G., M.A.,

elettivamente domiciliate in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo

studio dell’avv. GALLEANO SERGIO, rappresentate e difese

dall’avvocato SANSONE SALVATORE, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 547/2009 della CORTE D’APPELLO di PALERMO del

9.4.09, depositata il 21/05/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/07/2011 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO IANNIELLO;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. GAETA

Pietro.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

La causa è stata chiamata alla odierna adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380-bis c.p.c.:

“Con ricorso notificato in data 20-21 maggio 2010, la s.p.a. Poste Italiane chiede, con quattro motivi, la cassazione della sentenza depositata il 21 maggio 2009, con la quale la Corte d’appello di Palermo, in riforma della decisione di primo grado, ha accertato la nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 e successive integrazioni “per esigenze eccezionali…” – al contratto di lavoro intercorso con B.S. dal 7 ottobre 2000, con G.G. dal 26 giugno 2000, con Angela Mannelli dal 3 giugno 2000 e con R.M. dal 4 novembre 2000 ed ha condannato la società a riammettere in servizio le lavoratrici e a pagare loro le retribuzioni dall’atto dell’offerta della prestazione lavorativa col ricorso introduttivo.

Coi motivi viene dedotta:

a – la violazione degli artt. 1372 c.c., comma 1, degli artt. 1175, 1375, 2697 c.c., per avere la corte erroneamente escluso che il rapporto di lavoro fra le parti si fosse comunque estinto per tacito mutuo consenso;

b – la violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 8 del C.C.N.L. 26.11.1994 nonchè degli accordi sindacali 25.9.97, 16.1.98, 27.4.98, 2.7.98, 24.5.99 e 18.1.2001 in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg., in ragione del fatto che i giudici dell’appello avevano erroneamente negato che l’attribuzione con la legge del 1987 del potere alle O.O.SS. di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro concretasse una delega in bianco, che le OO.SS. avevano nel caso di specie esercitato individuando la situazione concreta legittimante il ricorso al contratto a termine, senza prevedere un limite temporale finale, diverso dalla vigenza del contratto collettivo, relativamente alla utilizzazione di tale causale;

c – il vizio di motivazione in ordine alla fonte di individuazione della volontà delle parti collettive di fissare alla data del 30.4.1998 il termine finale di efficacia dell’accordo nazionale 25.9.97.

d – in via subordinata, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094 c.c. e dell’art. 2099 c.c.; in proposito, richiamando la sentenza delle sezioni unite n. 14381/02, la società sostiene che la situazione di mora accipiendi, necessaria per la decorrenza del danno da risarcire nel caso di mancata ripresa del rapporto a seguito della scadenza del relativo termine a posteriori dichiarato nullo, non è intergrata dalla domanda di annullamento del preteso licenziamento illegittimo e tantomeno dalla istanza pregiudiziale di tentativo obbligatorio di conciliazione pregiudiziale.

Le lavoratrici, regolarmente intimate, hanno resistito alle domande con due rituali controricorsi, uno della R. e l’altro delle restanti lavoratrici.

Il procedimento, in quanto promosso con ricorso avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e antecedentemente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, è regolato dall’art. 360 c.p.c., e segg. con le modifiche e integrazioni apportate dal D.Lgs. citato.

Il ricorso è manifestamente infondato e va pertanto trattato in camera di consiglio per essere respinto.

Quanto al primo motivo, va infatti ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all’art. 1372 c.c., comma 1, il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ades., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526).

In proposito, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403).

E’ poi consolidato l’orientamento secondo cui il relativo giudizio, sulla configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se congruamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).

Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale, dichiarando che la mera inerzia delle lavoratrici non poteva essere interpretata da sola come fatto estintivo del rapporto, ha fatto corretta applicazione di tali principi al caso in esame, facendo riferimento proprio a valutazioni di tipicità sociale con riguardo alla semplice inerzia delle resistenti nella situazione descritta, in cui il datore di lavoro non aveva dedotto alcuna circostanza significativa dell’assunto (e tenuto evidentemente conto delle circostanze notorie rappresentate dal tempo necessario a valutare l’eventuale illegittimità del termine e quindi rivolgersi al sindacato e/o all’avvocato, dalla necessità per quest’ultimo di impostare la causa e provvedere al tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. nonchè della altrettanto notoria circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore “precario” normalmente fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine – soprattutto nei riguardi di una società, come le Poste, che di tale tipologia contrattuale faceva al tempo ampio uso – e al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria).

Una tale valutazione, proprio perchè ragionevolmente ancorata a parametri di tipicità sociale, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

Con riferimento al secondo e al terzo motivo di ricorso, che conviene trattare congiuntamente, va qui ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Nel caso in esame, come ricordato dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato legittimo il termine apposto ai contratti di lavoro stipulati fino al 30 aprile 1998 per la causale in parola ed illegittimi quelli successivi, nell’arco temporale di vigenza del citato accordo nazionale del settembre 1997, rilevando che tali limiti erano stati introdotti dai medesimi contraenti collettivi.

Da tale consolidato orientamento non vi è ragione di discostarsi, anche in ragione dell’esercizio della fondamentale funzione nomofilattica attribuita dal legislatore a questa Corte.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine ai contratti di lavoro esaminati appare pertanto corretta.

Infine il quarto motivo è inammissibile.

Contestando la violazione da parte della Corte territoriale delle norme del codice civile indicate, la ricorrente deduce che, nel caso in esame, l’atto indicato come di costituzione del creditore della prestazione nella situazione di mora credendi (ricorso introduttivo del giudizio) non sarebbe tale da implicare di per sè l’offerta della prestazione lavorativa da parte delle lavoratrici.

Senonchè la Corte territoriale ha accertato che l’atto introduttivo del giudizio ex art. 414 c.p.c. conteneva nel caso in esame tale offerta e la ricorrente non censura specificatamente tale affermazione e non riproduce, a confutazione il contenuto, in violazione della regola della autosufficienza del ricorso per cassazione.

La censura in esame è pertanto generica e non pertinente rispetto alla concreta fattispecie esaminata, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito e tale mancato specifico riferimento alla situazione di fatto accertata in giudizio determina l’inammissibilità del relativo motivo.

In difetto di ammissibili motivi relativamente alle conseguenze economiche della conversione del contratto a tempo determinato, non può essere infine comunque applicato lo ius supervenìem in materia, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547)”.

E’ seguita la rituale comunicazione al P.G. e la notifica alle parti della suddetta relazione, unitamente all’avviso della data della presente udienza in camera di consiglio.

Il Collegio condivide il contenuto della relazione, respingendo pertanto il ricorso, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio, secondo la liquidazione fattane in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna P.I. s.p.a. a pagare a B. e gli altri due litisconsorti le spese di questo giudizio, liquidate complessivamente in Euro 30,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per onorari e a R., per il medesimo titolo, Euro 30 per esborsi ed Euro 1.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 12 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2011

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