Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18329 del 09/07/2019

Cassazione civile sez. III, 09/07/2019, (ud. 15/03/2019, dep. 09/07/2019), n.18329

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29842-2017 proposto da:

C.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

MICHELE D’OCCHIO;

– ricorrente –

contro

CA.LU., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

ANGELO PICA;

B.P., domiciliata ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANGELO PICA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2890/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 23/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/03/2019 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. – C.G. – affittuario del terreno agricolo, sito in (OMISSIS), di proprietà di Ca.An. e, al tempo stesso, procuratore generale di quest’ultimo, come tale nominato con atto del 20 ottobre 1995 – convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Benevento, B.P. e Ca.Lu., in qualità di procuratore generale di Ca.An., al fine di: a) sentir dichiarare l’inefficacia della revoca della procura comunicatagli in data 22 gennaio 2001 e quindi degli atti negoziali compiuti dal successivo procuratore, Ca.Lu.; b) ottenere la condanna di Ca.An., per mezzo del suo procuratore, al risarcimento dei danni per le spese sostenute e per i miglioramenti effettuati sul fondo; c) sentir dichiarare il suo diritto di prelazione sul predetto fondo – alienato alla B. per una quota proprietaria di 1/2 – con conseguente riscatto in suo favore.

Nel contraddittorio con i convenuti ed all’esito dell’istruttoria, l’adito Tribunale di Benevento, con sentenza n. 259/2010, rigettò le domande attoree.

2.- Avverso tale decisione proponeva impugnazione C.G., che veniva rigettata dalla Corte di appello di Napoli con sentenza resa pubblica il 23 giugno 2017.

2.1.- La Corte territoriale, anzitutto, riteneva che Ca.Lu., in quanto evocato in grado in appello in proprio e non quale procuratore generale di Ca.An. – come invece correttamente citato originariamente in giudizio, in quanto le domande di inefficacia delle revoca della procura e degli successivamente posti in essere dal nuovo procuratore “vedevano quale legittimato passivo il mandante Ca.An. e quindi il suo procuratore Ca.Lu.” -, non era legittimato “con riferimento al gravame proposto avverso le suddette domande”.

Ne conseguiva che “la decisione del primo giudice in tema di inefficacia della revoca del mandato” (ossia di rigetto delle domande attoree) “era da ritenersi passata in giudicato” non essendo stato proposto appello tempestivamente avverso la stessa e non ricorrendo un’ipotesi di integrazione del contraddittorio”, di cui all’art. 331 c.p.c., essendo domanda “del tutto autonoma” e, dunque, “scindibile” rispetto “a quella relativa al riscatto agrario”.

Il giudice di appello, “solo per completezza”, argomentava anche sull’infondatezza delle anzidette domande.

2.2. – Quanto, poi, alla domanda di riscatto formulata dal C., la Corte territoriale rilevava, in primo luogo, che il giudice di primo grado, nell’aver rigettato con ordinanza del 2 febbraio 2005 le richieste istruttorie dell’attore (segnatamente, ammissione di prova testimoniale) in quanto non compiutamente articolate e comunque tardive, non era incorso in alcuna erronea applicazione delle norme processuali relative all’ammissibilità della prova.

In ogni caso, “l’unico capo di prova articolato” dall’attore (“volto a dimostrare che aveva provveduto negli ultimi anni, tra l’altro, al miglioramento del fondo, bonificando parte di esso e reimpiantando numerose piante di ulivo”), seppure fosse stato ritenuto tempestivamente dedotto, era “generico e in quanto tale inammissibile”, giacchè “non avrebbe permesso nè di accertare che la suddetta attività si protraeva da quattro anni, nè che era stabile, ben potendo i lavori di bonifica ed i miglioramenti avere natura episodica”.

Nel merito, il giudice di appello riteneva, quindi, che il C. non avesse dato prova della sussistenza dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto di riscatto L. n. 590 del 1965, ex art. 8 ossia di essere in concreto e stabilmente (almeno da quattro anni) coltivatore diretto e che i propri familiari si dedicassero all’attività agricola, non fornendo elementi decisivi sia la sentenza n. 305/2005 del Tribunale di Benevento che accertava unicamente l’esistenza di un contratto di affitto in capo al C. stesso (con reiezione della domanda della B. di rilascio del fondo perchè asseritamente occupato sine titulo), sia la sentenza penale n. 627/2003 dello stesso Tribunale, che assolveva il C. dai reati di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. c) e del D.Lgs. n. 490 del 1990, art. 163 per non essere le opere di movimentazione effettuate destinate all’edificazione, ma alla sostituzione di terreno inquinato con terreno vegetale e senza alterazione dello stato dei luoghi, ciò che, comunque, non comportava “che il C. svolgesse con continuità l’attività di coltivatore diretto”, trattandosi, comunque, di fatti accertati il 21 febbraio 2001 e, quindi, dopo la vendita del terreno alla B..

3.- Per la Cassazione della sentenza della Corte d’appello di Napoli ricorre C.G. affidando le sorti dell’impugnazione a quattro motivi, illustrati da memoria.

Resistono con distinti controricorsi Ca.Lu., in qualità del procuratore generale di Ca.An., e B.P..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. – Preliminarmente, la memoria del ricorrente, in quanto spedita a mezzo posta e pervenuta in cancelleria in data 11 marzo 2019, è inammissibile (tanto che nulla in essa proposto possa essere preso in considerazione), non potendo trovare applicazione la disciplina dell’art. 134 disp. att. c.p.c. in quanto prevista esclusivamente per il ricorso ed in controricorso (Cass. n. 7704/2016, Cass. n. 8835/2018).

2.- Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità del procedimento e della sentenza per la violazione degli artt. 331,112 e 277 c.p.c., per aver erroneamente la Corte territoriale dichiarato la carenza di legittimazione passiva di Ca.Lu. citato in proprio, con conseguente passaggio in giudicato della parte della sentenza che rigettava la domanda relativa all’inefficacia della revoca della procura nonchè degli atti successivi compiuti dal nuovo procuratore, in quanto, avendo esso C., nel proprio atto di appello, richiamato tutti i precedenti scritti “in guisa da integrare il gravame”, avrebbe citato in giudizio l’appellante, nella medesima posizione del primo grado e dunque in qualità di procuratore generale di Ca.An..

La Corte di appello, inoltre, avrebbe errato nel considerare la domanda relativa all’inefficacia della revoca e del conseguente contratto di vendita quali autonome e pertanto escluso la configurabilità di un’ipotesi di integrazione del contraddittorio, in quanto, al contrario, essendo l’alienante – non estromesso – parte necessaria, la causa in sede di impugnazione doveva essere considerata inscindibile.

Il giudice di secondo grado avrebbe dovuto rilevare, poi, il difetto di contraddittorio già sussistente in primo grado in riferimento alla domanda di annullamento della vendita, poichè risultava dagli atti che Ca.An. aveva alienato solo la quota ideale di 1/4 del fondo.

Il giudice di appello, infine, avrebbe omesso, in violazione dell’art. 112 c.p.c., di pronunciarsi sul motivo di gravame che denunciava l’omissione di pronuncia del primo giudice sulle domande relative alla revoca della procura e all’inefficacia degli atti compiuti dal successivo procuratore (atto di compravendita), essendosi limitato a decidere “solo per completezza”, avendo ritenuto assorbente la questione relativa al difetto di legittimazione dell’appellato.

1.1. – Il motivo è inammissibile in tutta la sua articolazione.

Quanto al primo profilo di censura, va anzitutto rilevato che la mancata indicazione nell’epigrafe dell’atto di appello della qualità nella quale l’appellato è chiamato in giudizio non importa, di per sè, l’inammissibilità o la nullità dell’appello quando la predetta qualità risulti con certezza dal contesto dello stesso atto di appello, anche eventualmente integrato con gli atti pregressi, giacchè deve ritenersi valido l’atto di appello che consenta, alla stregua della valutazione del suo contenuto complessivo, di desumere univocamente il requisito riguardante la qualità in ordine alla quale l’appellato deve considerarsi evocato in giudizio (Cass. n. 23870/2006).

A tal fine il ricorrente è tenuto a specificare, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c.), quale sia il contenuto complessivo dell’atto di appello, provvedendo anche ad una sintesi di esso, ma chiaramente intelligibile, così da consentire, poi, a questa Corte, giudice del “fatto processuale” in ragione della natura del vizio dedotto, l’esame diretto degli atti (Cass., S.U., n. 8077/2012).

Un siffatto onere non è stato assolto dal ricorrente, il quale ha accennato (p. 7 del ricorso) unicamente alla circostanza che nell’atto di appello “venivano richiamati tutti i precedenti scritti in guisa da integrare il gravame”, ma – oltre a non chiarirsi in che cosa abbia consistito detto richiamo (come tale, di per sè, insufficiente allo scopo, ove non inserito in un contesto argomentativo idoneo a rendere riconoscibile l’effettiva qualità della parte) – è stato omesso, in via dirimente, ogni e qualsiasi riferimento al complessivo contenuto di tale atto.

Quanto, poi, alla doglianza che fa leva sulla mancata integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., occorre rilevare che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto, anzitutto, la domanda attorea di inefficacia della revoca della procura “scindibile” rispetto a quella di riscatto agrario, in cui la legittimazione passiva si concentra sul solo acquirente iniziale del bene o un suo successivo avente causa, non essendo litisconsorte necessario il venditore (Cass., S.U., n. 5895/1997, Cass. n. 18644/2011).

Del resto, rispetto alla domanda di inefficacia della revoca della procura, di per sè, considerata non si sarebbe posta, proprio secondo la prospettazione che alimenta la censura del ricorrente, una questione di litisconsorzio necessario, bensì di “giusta parte” da evocare in giudizio, giacchè l’unica parte contrapposta al C. sarebbe stata quella del nuovo procuratore generale ( Ca.Lu., in siffatta qualità), non chiamato in giudizio.

Di qui, pertanto, il ritenuto passaggio in giudicato della decisione di rigetto del primo giudice sull’anzidetta domanda di inefficacia delle revoca della procura per tardività dell’appello, quale specifica statuizione che non è stata fatta oggetto di alcuna impugnazione in questa sede. Ciò comporta, altresì, che detto giudicato, ormai cristallizzatosi, rende inammissibile ogni ulteriore censura sulla decisione concernente la ulteriore connessa domanda di inefficacia degli atti compiuti dal nuovo procuratore, che il C. – come è dato evincere dalla sentenza di appello (pp. 3 e 6), senza che, peraltro, il ricorrente (in violazione dell’art. 366 c.p.c.) abbia dato contezza, anche per sintesi, dei contenuti dell’atto di citazione di primo grado e della sentenza del Tribunale – ha proposto in base alla prospettazione secondo cui il vizio dedotto sarebbe derivato proprio dalla presupposta inefficacia della revoca della procura ad esso conferita, che, se dichiarata, avrebbe travolto anche gli atti compiuti dal successivo procuratore. E’, difatti, evidente che una siffatta prospettazione è divenuta priva di consistenza in forza dell’anzidetto presupposto accertamento, che è divenuto cosa giudicata.

Inoltre, l’eccezione di difetto del contraddittorio per violazione del litisconsorzio necessario può essere sollevata per la prima volta anche in sede di legittimità, ma a condizione che l’esistenza del litisconsorzio risulti dagli atti e dai documenti del giudizio di merito e la parte che la deduca ottemperi all’onere di indicare nominativamente le persone che devono partecipare al giudizio, di provare la loro esistenza e i presupposti di fatto e di diritto che giustifichino l’integrazione del contraddittorio (Cass. n. 23634/2018). Tale onere è rimasto inevaso da parte del ricorrente, che si è limitato a dedurre (a p. 8 del ricorso, sebbene in precedenza – p. 2 del ricorso – avesse individuato in Ca.An. il proprietario del fondo rustico) che detto Ca.An. era comproprietario del terreno agricolo, senza individuare chi fossero gli altri comproprietari.

Infine, anche l’ulteriore censura di violazione dell’art. 112 c.p.c. si palesa inammissibile, poichè, alla stregua di quanto già evidenziato, l’aver la Corte territoriale ritenuto sussistente un giudicato sul rigetto della domanda di inefficacia della revoca del mandato è statuizione che involge, implicitamente, ma in modo inequivoco, anche una pronuncia sulla domanda di inefficacia degli atti compiuti dal successivo procuratore e, segnatamente, la compravendita del fondo rustico.

2.- Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1723 c.c., per aver erroneamente il giudice di appello ritenuto (sia pure con decisione resa “solo per completezza”) non applicabile, al caso di specie, l’irrevocabilità della procura ai sensi dell’art. 1723 c.c..

2.1. – Il motivo è inammissibile, in quanto l’esito assorbente dello scrutinio sulle censure poste con il primo motivo (sfavorevole al ricorrente) rende, comunque, priva di interesse l’impugnazione su statuizione già di per sè ultronea, in quanto resa ad abundantiam.

3.- Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità del procedimento e della sentenza per violazione degli artt. 244 e 153 c.p.c. (ex art. 184 bis), nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990, per aver il giudice di appello erroneamente ritenuto l’intempestività dell’indicazione della lista testi, quando era ormai decorso il termine concesso ai sensi dell’art. 184 c.p.c., in quanto, sebbene la prova testimoniale sia stata integrata nel termine stabilito per la prova contraria, è stata comunque depositata prima dell’ammissione della prova e dunque tempestiva in virtù dell’art. 184 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

Inoltre, la Corte territoriale di merito avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile la richiesta di rimessione dei termini ex art. 184 bis c.p.c. in quanto tardiva, essendo una tale valutazione rimessa al giudice dinanzi al quale si era verificato l’impedimento.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

Il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (tra le tante, Cass., S.U., 7931/2013).

Ciò posto, con il motivo in esame non viene affatto attinta da censure la ratio decidendi, autonoma e idonea da sola a sorreggere la sentenza impugnata, relativa alla ritenuta genericità e, quindi, inammissibilità per tale specifico profilo, della prova testimoniale dedotta dal C. (cfr. pp. 11 e 14 della sentenza di appello; sintesi al p. 2.2. del “Ritenuto che”), a prescindere dal diverso profilo di inammissibilità della prova stessa per intempestività.

4.- Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 590 del 1965, art. 8 nonchè dell’art. 2697 c.c., per aver il Giudice di gravame errato nel valutare gli elementi di fatto esposti e, dunque, ritenuto non sussistere, in quanto non provati, i presupposti per esercitare il diritto di prelazione.

4.1. Il motivo è inammissibile, giacchè con esso, lungi dall’essere censurati degli errores in iudicando, vengono veicolate critiche investenti la quaestio facti e il relativo apprezzamento esclusivamente riservato al giudice del merito in forza della valutazione delle risultanze probatorie, senza che neppure sia dedotto un vizio riconducibile al paradigma (e applicabile ratione temporis) art. 360 c.p.c., vigente n. 5 (cfr., tra le altre, Cass., S.U., n. 8053/2014), argomentando il ricorrente, per un verso, secondo la logica del previgente vizio di motivazione e, per altro verso, sostituendosi al giudice di merito nell’anzidetto apprezzamento, ossia con prospettazione inammissibile anche in costanza dell’art. 360, vecchio regime citato n. 5.

5. – Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascun controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 15 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2019

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