Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1832 del 25/01/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 25/01/2017, (ud. 17/11/2016, dep.25/01/2017),  n. 1832

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 15047 – 2015 R.G. proposto da:

A.N., – c.f. (OMISSIS) – + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, elettivamente

domicilia.

– controricorrente –

Avverso il decreto dei 14.10.2013/4.12.2014 della corte d’appello di

Roma;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 17

novembre 2016 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Bruno Fantin per i ricorrenti.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex lege n. 89 del 2001 alla corte d’appello di Roma depositato in data 8.6.2010 i ricorrenti si dolevano per l’eccessiva durata della procedura fallimentare della s.p.a. “Calzaturificio San Mango”, al cui passivo avevano domandato l’ammissione “relativamente alla indennità di trattamento di fine rapporto, retribuzione e cassa integrazione guadagni” (così ricorso, pag. 5).

Deducevano in particolare che il fallimento era stato dichiarato dal tribunale di Avellino con sentenza dei 25/31.10.1996; che un primo progetto di ripartizione parziale era stato approvato dal g.d. con decreto del 10.1.2008; che alla data di deposito del ricorso ex lege n. 89 del 2001 non era stato ancora depositato il progetto di ripartizione finale.

Chiedevano che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrisponder loro a ristoro dei danni subiti per l’irragionevole durata del fallimento “presupposto” un equo indennizzo, indicato, per ciascuno di essi, in misura pari ad Euro 20.000,00.

Resisteva il Ministero; instava per il rigetto dell’avversa domanda.

Deduceva in particolare che i ricorrenti erano “stati integralmente soddisfatti nell’arco di cinque mesi dalla esecutività dello stato passivo” (così ricorso, pag. 8) e comunque che la procedura fallimentare “presupposta” si connotava per l’elevata complessità.

Con decreto dei 14.10.2013/4.12.2014 la corte d’appello di Roma rigettava La domanda e condannava i ricorrenti alle spese del procedimento.

Dava atto la corte che dalla relazione informativa del curatore in data 30.9.2013 si desumeva che i crediti dei ricorrenti, costituiti da trattamento di fine rapporto e differenze salariali, erano stati integralmente soddisfatti nell’arco di 5 mesi dalla declaratoria di esecutività dello stato passivo dal “Fondo di Garanzia” dell’I.N.P.S., che si era surrogato ai ricorrenti con susseguente loro estromissione dalla massa, siccome emergeva dal piano di riparto parziale in data 11.12.2007.

Dava atto altresì che il fallimento “presupposto” era da reputar particolarmente complesso per l’entità del passivo, recte dell’attivo da liquidare, per l’elevato numero dei creditori iscritti e per il contenzioso introdotto dalla curatela in sede amministrativa e ordinaria.

Avverso tale decreto i ricorrenti hanno proposto ricorso sulla scorta di quattro motivi; hanno chiesto che questa Corte ne disponga la cassazione e decida nel merito con condanna del Ministero alle spese e del primo giudizio e del giudizio di legittimità con distrazione in favore dei difensori anticipatari.

Il Ministero della Giustizia ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., degli artt. 6, par. 1, 13, 19 e 53 C.E.D.U., degli artt. 24 e 111 Cost.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del procedimento e del decreto.

Deducono che la corte di merito si è limitata a dar valenza alla relazione del curatore in data 30.9.2013 e non ha verificato che, alla stregua delle risultanze dei piani di riparto, delle dichiarazioni dell’I.N.P.S. e della dichiarazione del curatore in data 11.12.2007, i loro crediti viceversa non sono stati integralmente soddisfatti.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6, par. 1, artt. 13, 19 e 53 C.E.D.U., degli artt. 24 e 111 Cost., della L. n. 1034 del 1971, art. 23, del R.D. 17 agosto 1907, artt. 51 e 53, dell’art. 110 l.fall..

Deducono che la corte distrettuale ha dato “prevalenza al parametro costituito da una asserzione di parte resistente trascurando del tutto di verificarne la veridicità e di valutare sia il comportamento di parte ricorrente sia della curatela del fallimento” (così ricorso, pag. 16) ed ha trascurato l'”assoluta mancanza di complessità del giudizio” (così ricorso, pag. 17).

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6, par. 1, 13, artt. 19 e 53 C.E.D.U., degli artt. 24 e 111 Cost.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Deducono che la corte territoriale avrebbe dovuto applicare il principio per cui “in mancanza di circostanze particolari (…) la durata eccessiva di un processo di qualunque natura è sempre fonte di un danno non patrimoniale” (così ricorso, pag. 22).

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deducono che nel decreto impugnato “non vi è alcuna giustificazione (…) sul punto della ritenuta decisività (…) del comportamento dei ricorrenti (…) ai fini dell’an della pretesa riparatrice e non, invece, alla sola quantificazione del danno” (così ricorso, pag. 24); che al contempo la corte di Roma non ha per nulla considerato “gli altri due parametri cui ancorare il giudizio di ragionevole durata del processo, ossia la complessità della causa e il comportamento dell’autorità giudiziaria o di qualunque altra chiamata a concorre alla decisione (così ricorso, pagg. 24 – 25); che la corte ha fatto propria un’eccezione in senso stretto (…) dedotta dal Ministero resistente, relativa ad uno solo dei criteri di valutazione del diritto all’equa riparazione” (così ricorso, pag. 25).

I motivi di ricorso sono strettamente connessi.

Se ne giustifica perciò la simultanea disamina.

I motivi tutti in ogni caso sono destituiti di fondamento.

Si rappresenta innanzitutto che, in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (al riguardo cfr. Cass. 20.1.2006, n. 1113″ secondo cui il ricorso per cassazione – in forza del principio di cosiddetta “autosufficienza” – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito), ben avrebbero dovuto i ricorrenti, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro dei loro assunti, riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso il testo delle risultanze dei piani di riparto, delle dichiarazioni dell’I.N.P.S. e della dichiarazione del curatore in data 11.12.2007 e non limitarsi, specificamente con riferimento a tal ultima dichiarazione, a riprodurne (a pag. 11 del ricorso) un singolo stralcio, che, per giunta, in alcun modo reca puntuale individuazione dei “restanti crediti ammessi al passivo (che) restano, allo stato, insoddisfatti”.

Si rappresenta altresì che, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, secondo cui la corte distrettuale ha violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, “avendo sollevato eccezioni in senso stretto rimesse alle parti ed interferendo con il potere dispositivo delle medesime” (così ricorso, pag. 14), la medesima corte per nulla è incorsa nella violazione denunciata.

Più esattamente, allorquando ha reputato fondate le eccezioni del Ministero resistente, in particolare l’eccezione di difetto di legittimazione dei ricorrenti “per essere stati integralmente soddisfatti nell’arco di 5 mesi dalla esecutività dello stato passivo” (così decreto impugnato pag. 6), la corte ha sostanzialmente, in sede di delibazione del merito della controversia, disconosciuto la concreta sussistenza del diritto al ristoro del paterna d’animo asseritamente sofferto in dipendenza della dedotta irragionevole protrazione del tempo di effettiva realizzazione delle pretese creditorie insinuate al passivo del fallimento “presupposto”.

Si rappresenta inoltre che con gli addotti motivi i ricorrenti sostanzialmente censurano il giudizio “di fatto”, in forma duplice articolato (“sotto un primo profilo (…) sotto diverso profilo”: così decreto impugnato, pag. 6), alla cui stregua la corte territoriale ha disconosciuto la legittimazione dei ricorrenti, rette la concreta sussistenza dell’azionato diritto (“(…) piuttosto che verificare nella interezza la documentazione prodotta da parte ricorrente e comprovante (…)”: così ricorso, pag. 11; “non ha valutato la durata del giudizio presupposto concretamente, ma solo astrattamente”: così ricorso, pag. 17; il ragionamento della corte “è palesemente carente dal punto di vista logico motivazionale in quanto nulla afferma in ordine alla complessità della causa”: così ricorso, pag. 18; la corte “ha omesso di tenere nella dovuta considerazione l’inerzia dell’Autorità Giudiziaria”: così ricorso, pag. 21. Si condivide dunque l’assunto del Ministero controricorrente secondo cui “sembra che surrettiziamente controparte chieda un riesame nel merito”: così controricorso, pag. 16).

Del resto questo Giudice del diritto spiega che, in tema di diritto ad un’equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di “ragionevole durata” non ha carattere assoluto, ma relativo, e non si presta ad una determinazione in termini assoluti, ma è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide; e che difatti la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, dispone che la ragionevole durata del processo deve essere verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri da esso stabiliti, ed impone quindi di avere riguardo alla specificità del caso che il giudice è chiamato a valutare, nonchè ai principi elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dai quali è ben possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata da argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue (cfr. Cass. 21.4.2006, n. 9411).

In questi termini si evidenzia che la censurata statuizione è – siccome del 14.10.2013/4.12.2014 – soggetta alle novità introdotte con il D.Lgs. n. 83 del 2012, convertito nella L. n. 134 del 2012, ed applicabili alle sentenze pubblicate (in generale ai provvedimenti pubblicati) dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione.

Conseguentemente il vizio motivazionale che i mezzi di impugnazione de quibus agitur veicolano, rileva nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (“per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”).

E quindi riveste valenza l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte di legittimità (il riferimento è a Cass. sez. un. 7.4.2014, n. 8053).

Ovvero l’insegnamento secondo cui, da un canto, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (disposta dal D.Lgs. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134) deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; e secondo cui, propriamente, tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Ovvero l’insegnamento secondo cui, dall’altro, il riformulato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Su tale scorta si rappresenta quanto segue.

Per un verso, che è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla luce dell’indicazione nomofilattica a sezioni unite testè menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni – dapprima riferite – cui la corte di Roma ha ancorato il suo dictum.

In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito, pur individuando nel contenuto della sentenza gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento, non procede ad una loro approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – la corte d’appello ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il percorso argomentativo seguito (“sotto un primo profilo (…). Sotto un profilo diverso (…)”.. così decreto impugnato, pag. 6) con motivazione in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congrua e coerente sul piano logico – formale (nel dar contezza della complessità del fallimento “presupposto” la corte romana ha fatto riferimento alla relazione del curatore in data 30.9.2013, ove è menzione dell’esito del giudizio intrapreso dalla curatela fallimentare nei confronti del “Consorzio Area di Sviluppo Industriale” e del Ministero dello Sviluppo, giudizio definito in primo grado a favore della curatela attrice con sentenza n. 8656/2011).

Per altro verso, che la corte d’appello ha sicuramente disaminato il fatto storico caratterizzante la res litigiosa (ovvero l’asserito sofferto paterna d’animo correlato alla pretesa irragionevole durata del giudizio “presupposto”).

D’altronde, nella fattispecie il ricorrente censura l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie (la corte d’appello ha escluso “il lamentato danno non patrimoniale sulla base di una mera petizione di principio, non sopportata da alcun concreto riscontro”: così ricorso, pag. 22).

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

E parimenti nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. (ord.) 6.7.2015, n. 13928).

Si rappresenta ulteriormente che questa Corte spiega che l’efficacia probatoria del contenuto della relazione redatta dal curatore fallimentare va diversamente valutata a seconda della natura delle risultanze da essa emergenti; mentre, infatti, la relazione, in quanto formata da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fa piena prova fino a querela di falso degli atti e dei fatti che egli attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza, il contenuto delle dichiarazioni rese dai terzi rimane liberamente valutabile in ordine alla sua veridicità (cfr. Cass. 2.9.1998, n. 8704).

In quest’ottica è da ritenere che la “dichiarazione resa dalla curatela (…) in data 30 settembre 2013 dal curatore, relativamente al soddisfo integrale dei crediti” (così ricorso pag. 18), fa piena prova fino a querela di falso.

Sicchè l’assunto dei ricorrenti, secondo cui la corte di Roma “non ha verificato (…) che quanto dichiarato in data 30 settembre 2013 dal curatore, relativamente al soddisfo integrale dei crediti (…), è asserzione falsà. (così ricorso, pag. 18), avrebbe dovuto trovare espressione nella proposizione di querela di falso.

Si rappresenta da ultimo che i crediti per i quali ciascun ricorrente ha domandato l’ammissione al passivo, “riguardano le indennità per il trattamento di fine rapporto, le retribuzioni non percepite e la cassa integrazione guadagni non accordata” (così ricorso, pag. 6).

In questi limiti, ed al di là del riferimento del tutto generico, non specificato e per nulla “autosufficiente” a “retribuzioni non percepite” (si condivide dunque la prefigurazione di “genericità del ricorso introduttivo (…) dalla quale ben difficilmente si riuscirebbe ad evincere la entità originaria della posta in gioco”: così controricorso, pag. 17), voce di credito, ben vero, riguardante solo taluni dei ricorrenti (cfr. controricorso, pag. 20, ove è testualmente riprodotto stralcio della relazione informativa del curatore in data 3.9.2013), è indubitabile nella fattispecie che il “Fondo di Garanzia” gestito dall’I.N.P.S. ha provveduto al pagamento in ossequio alle prescrizioni della L. n. 297 del 1982 e del D.Lgs. n. 80 del 1992 “nel giro di cinque mesi dalla esecutorietà dello stato passivo”.

In dipendenza del rigetto del ricorso i ricorrenti in solido vanno condannati a rimborsare al Ministero della Giustizia le spese del presente giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo (si tenga conto che, in sede di condanna del soccombente al rimborso delle spese del giudizio a favore di un’Amministrazione dello Stato – nei confronti del quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario – riguardo alle spese vive la condanna deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito: cfr. Cass. 18.4.2000. n. 5028; Cass. 22.4.2002, n. 5859).

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013) (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al Ministero della Giustizia le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2017

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