Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18318 del 09/07/2019

Cassazione civile sez. III, 09/07/2019, (ud. 12/12/2018, dep. 09/07/2019), n.18318

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7707-2017 proposto da:

G.E., sia in proprio sia quale amministratore e legale

rappresentante di MULINO c.c. E.G. S.N.C., domiciliata

ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dagli avvocati ALBERTO PATTARO, LUCIANA

PATTARO;

– ricorrenti –

contro

GENERALI ITALIA SPA incorporante di ALLEANZATORO ASSICURAZIONI SPA,

in persona dei procuratori speciali Dott.ri COLAIANNI PIERFRANCESCO

e BIZIO LORENZO, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. COLOMBO

440, presso lo studio dell’avvocato FRANCO TASSONI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 230/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 04/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/12/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1 E.G., in proprio e quale legale rappresentante della società Mulino E.G. S.n.c., ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza n. 230/16, del 4 febbraio 2016, della Corte di Appello di Venezia che – rigettando il gravame da esso esperito contro la sentenza n. 1321/07, del 2 maggio 2007, del Tribunale di Verona – ha confermato il rigetto della domanda proposta dall’odierno ricorrente volta all’accertamento dell’obbligo contrattuale, a carico della Toro Assicurazioni S.p.a. (oggi Generali Italia S.p.a.), di indennizzarlo dei danni subiti in seguito ad incendio occorso il 10 ottobre 2003, nonchè alla condanna di detta società a versargli, a titolo di indennizzo, l’importo complessivo di Euro 464.811,21, oltre spese di demolizione, di sgombero, di perizia, senza decurtazione o riduzione proporzionale di alcun genere, più interessi, rivalutazione e maggior danno.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver stipulato, in data 31 dicembre 2000, con la predetta società Toro, un contratto di assicurazione delle strutture del proprio mulino per il caso di incendio, contratto rinnovato fino al 31 dicembre 2003, per un valore complessivamente assicurato, in linea capitale, di Euro 559.535,75.

Verificatosi il 10 dicembre 2003 l’incendio dei beni assicurati, che ne determinò la distruzione, l’odierno ricorrente, stimato il danno subito in Euro 464.811,21, ebbe a rivolgersi alla società Toro per il pagamento dell’indennizzo. Quest’ultima, per parte propria, con verbale di anticipo di indennizzo del 20 settembre 2004 (inviato dal proprio perito), riconosceva l’importo minimo indennizzabile di Euro 200.000,00, impegnandosi a corrispondere un anticipo, in misura del 50%, stimando, peraltro, successivamente, il danno liquidabile in complessivi Euro 267.095,00.

Non essendo stata, però, liquidata alcuna somma, l’odierno ricorrente adiva il Tribunale di Verona per vedere accogliere la domanda sopra meglio indicata, chiedendo, sul piano istruttorio, procedersi allo svolgimento di consulenza tecnica d’ufficio, nonchè all’assunzione di informazioni ex art. 213 c.p.c., dall’ISVAP, per accertare sia le tariffe minime e massime vigenti al momento del sinistro, sia quelle che la società Toro Assicurazioni era stata autorizzata ad applicare, sempre alla data del sinistro.

L’esito del giudizio di primo grado consisteva nel rigetto della domanda attorea, sul presupposto dell’avvenuto pagamento, in corso di causa, della somma di Euro 278.465,00, risultante dalla perizia contrattuale di cui all’art. 3 delle condizioni generali di contratto e depositata in corso di causa, della quale, tuttavia, il ricorrente censurava la unilaterale predisposizione e sottoscrizione da parte del terzo perito nominato dalla Corte veneziana, Ing. S..

Proposto gravame avverso la decisione del Tribunale scaligero, lo stesso veniva, tuttavia, rigettato dalla Corte lagunare.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione il G., sulla base di sette motivi.

3.1. Il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza violazione e falsa applicazione, in relazione agli artt. 1322,1362,1363,1370 e 1372 c.c., “delle condizioni generali di contratto”, oltre che violazione dell’art. 112 c.p.c., per essere stato disatteso il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

In particolare, quanto al primo profilo, ovvero quello della violazione delle condizioni generali di contratto, il ricorrente censura il fatto che entrambi i giudici di merito abbiano attribuito rilievo alla perizia contrattuale pur in difetto del requisito della collegialità.

Difatti, sarebbero state disattese sia la previsione (art. 2, comma 2) che impone l’adozione della decisione, sui punti controversi, a maggioranza, sia quelle a mente delle quali (art. 3, commi 2 e 4) i risultati delle operazioni peritali vanno raccolti in apposito verbale, con allegate stime dettagliate di ciascun perito e quindi anche del dissenziente, nonchè, infine, quelle che impongono che il dissenso sia sempre attestato dagli altri periti nel verbale definitivo della perizia; in questo modo, dunque, sarebbe stata violata pure la prescrizione contrattuale secondo cui la stima e la liquidazione dei danni deve essere conforme alle disposizioni del contratto (art. 3, comma 1, lett. e).

Nel caso di specie, infatti, sarebbe mancata qualunque discussione collegiale della perizia, atteso che il terzo perito nominato dall’autorità giudiziaria, il predetto Ing. S., si limitò a mettere a disposizione – con missiva del 17 ottobre 2005 – le proprie conclusioni al perito di parte oggi ricorrente.

3.2. Il secondo motivo – pure proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza, invece, sempre in relazione agli artt. 1322,1362,1363,1370 e 1372 c.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 3 delle condizioni generali di contratto (in particolare, laddove stabilisce che i risultati delle valutazioni del collegio peritale siano vincolanti per le parti, con conseguente rinuncia delle stesse a qualsiasi impugnativa, facendo però salvo il caso di errore, violenza o violazione dei patti contrattuali), nonchè nullità della sentenza per violazione dell’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 6 e dell’art. 132c.p.c., comma 2, n. 4).

Si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto operante, “tout court”, la rinuncia, da parte del G., alla tutela giurisdizionale sul “quantum debeatur”, disattendendo la suddetta clausola contrattuale, che esclude, invece, l’operatività della rinuncia in caso sia di errore (che il giudice di merito avrebbe potuto accertare ove avesse dato corso alla richiesta CTU), che di violazione delle pattuizioni contrattuali, qui costituita dall’essere stata disattesa la regola della collegialità della perizia.

3.3. Con il terzo motivo è dedotto – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – “omesso esame di fatti decisivi, oggetto di discussione”.

In particolare, essi sarebbero costituiti: a) dal massimale di polizza, oltre che dalle spese di demolizione e di sgombero, nonchè da quelle di perizia, di trasloco e dagli altri oneri aggiuntivi; b) dal perimento totale delle cose assicurate; c) dal valore allo stato d’uso dei fabbricati, pari ad Euro 847.800; d) dal valore allo stato d’uso dei contenuti, pari a Euro 428.030,00; e) dal valore complessivo delle cose assicurate, pari a Euro 1.275.830,00; f) dalla corresponsione dei premi annuali aggiornati pari (o superiori) al premio annuale di Euro 2.184,09, previsto dal contratto di assicurazione.

3.4. Il quarto motivo – formulato, congiuntamente, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), – ipotizza violazione e falsa applicazione dell’art. 213 c.p.c., in riferimento al rigetto dell’istanza di assunzione di informazioni dall’ISVAP, le cui risultanze avrebbero permesso di individuare le tariffe minime e massime dell’assicurazione contro gli incendi, nonchè di quelle autorizzate in favore della società Toro, e dunque di determinare il corretto ed effettivo rapporto con il valore reale dei beni assicurati, escludendo, così, la falsa applicazione, operata invece dalla sentenza impugnata, dell’art. 1907 c.c., nonchè la nullità della sentenza a norma dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) e dell’art. 24Cost., comma 2 e art. 111Cost., comma 6.

3.5. Il quinto motivo – al pari del precedente formulato, congiuntamente, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), – ipotizza violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) e dell’art. 24Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 6, nonchè dell’art. 1907 c.c. in riferimento alla adeguata proporzionalità dei premi di polizza (Euro 2.184,09 annui, uguali o superiori al 0,16% quale percentuale massima dell’assicurazione contro gli incendi) effettivamente pagati al valore reale dei beni assicurati (complessivamente di Euro 1.275.830,09), oltre che violazione dell’art. 112 c.p.c., per essere stato disatteso il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, dato, anch’esso, che si sarebbe potuto accertare dando corso alla richiesta di informazioni all’ISVAP ed allo svolgimento di una CTU.

3.6. Con il sesto motivo è dedotto – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame di documenti, costituiti dalle condizioni generali di contratto e dalla relazione peritale, segnatamente laddove dagli stessi risulta la qualità di imprenditore commerciale dell’odierno ricorrente, rilevante ai fini della decisione sulla domanda, dallo stesso proposta, di riconoscimento di interessi, rivalutazione e maggior danno.

Sostanzialmente il ricorrente si duole del fatto che la sua qualità di imprenditore commerciale non sia stata riconosciuta dalla Corte d’Appello, non avendo la stessa provveduto in ordine alla richiesta di riconoscimento, sulla somma ad esso spettante a titolo di indennizzo, degli accessori di legge.

3.7. Il settimo motivo ripropone la stessa censura di cui al motivo immediatamente precedente, prospettando questa volta – a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) e dell’art. 111 Cost., ovvero dell’art. 1224 c.c., commi 1 e 2 e art. 1284c.c. nonchè degli artt. 2082 e 2083 c.c., oltre che, infine, dell’art. 112 c.p.c., per essere stato disatteso il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

4. Ha resistito la società Generali Italia, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In particolare, la controricorrente sottolinea come il ricorso difetti di autosufficienza, nonchè di specificità, esaurendosi i singoli motivi, per lo più, nella mera enunciazione delle norme di legge che si assumono essere state violate. Quanto ai singoli motivi, viene eccepita la novità della censura con cui il ricorrente contesta la sussistenza, nel caso di specie, di una perizia contrattuale, giacchè in contrasto con le difese dallo stesso precedentemente svolte, rilevandosi, quanto al supposto omesso esame di fatti decisivi, come tale vizio non sia configurabile in relazione a elementi istruttori, e come sia, in ogni caso preclusa, la sua configurazione a norma dell’art. 348-ter c.p.c., u.c..

In relazione, invece, alla pretesa violazione dell’art. 213 c.p.c. si sottolinea la discrezionalità di cui gode il giudice nel pronunciarsi sulla richiesta di acquisire informazioni nei confronti della pubblica amministrazione.

Quanto, infine, alla mancata corresponsione di interessi e rivalutazione, si assume che nel caso di liquidazione del danno ad opera di arbitri, ponendosi il credito indennitario come un credito di valuta, lo stesso sarebbe soggetto al principio nominalistico.

5. La controricorrente ha presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Vanno esaminate, “in limine”, le preliminari eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla controricorrente.

6.1. In particolare, con riferimento alle censure formulate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non fondata è l’eccezione proposta ai sensi dell’art. 348-ter, u.c., medesimo codice di rito civile, non essendo tale norma applicabile, “ratione temporis”, al presente giudizio.

Infatti, essendo stato il gravame, esperito dall’odierno ricorrente contro la decisione del giudice di prime cure, indirizzato avverso sentenza resa il 2 maggio 2007 – l’atto di appello risulta, per definizione, proposto con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all’11 settembre 2012.

Orbene, siffatta circostanza esclude – come detto – “ratione temporis” l’operatività dell’art. 348-ter c.p.c., u.c., (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 63381701; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonchè Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01).

6.2. D’altra parte, neppure difettano – salvo quanto si dirà in relazione al primo e secondo motivo di ricorso – i requisiti dell’autosufficienza e della specificità dell’impugnazione, come ipotizzato, invece, dalla controricorrente.

Difatti, quanto alla specificità dell’impugnazione, deve rilevarsi che il ricorso mira, nella sostanza, a contrastare l’affermazione della Corte territoriale secondo cui ogni questione sul “quantum” dell’indennizzo sarebbe preclusa sulla base delle statuizioni contenute nella perizia contrattuale, ipotizzandone il G. la nullità per violazione del principio di collegialità (primo e secondo motivo), ovvero assumendo che essa sarebbe frutto di “errore vizio” (secondo motivo), e ritenendo, pertanto, che il giudice di appello – una volta riconosciuti tali vizi – non avrebbe dovuto nè disattendere una serie di elementi già in atti, nè rifiutarsi di assumere iniziative istruttorie per integrarli, di modo da quantificare, con esattezza, il corretto importo dell’indennizzo (motivi terzo, quarto e quinto). Gli ultimi due motivi (sesto e settimo) concernono, invece, la necessità che sulla somma determinata dalla perizia fossero conteggiati rivalutazione ed interessi.

7. Ciò detto, tuttavia, il ricorso è comunque inammissibile, sebbene per ragioni in parte diverse da quelle dedotte dalla controricorrente.

7.1. Inammissibili sono, innanzitutto, i motivi primo e secondo, suscettibili di esame congiunto, giacchè attraverso di essi il ricorrente si duole, in sostanza, del mancato rilievo dell’invalidità della perizia per violazione del principio di collegialità e, comunque, “per errore vizio” che la inficerebbe.

7.1.1. Sul punto, occorre muovere dalla constatazione che, in caso di perizia contrattuale, “la decisione dei periti è impugnabile” secondo la giurisprudenza di questa Corte – “soltanto attraverso le tipiche azioni di annullamento e di risoluzione per inadempimento dei contratti”, con la conseguenza “che eventuali errori “in procedendo” o “in iudicando”, comprensivi della violazione dei principi della collegialità e del contraddittorio, rilevano soltanto se siano sfociati in cause di invalidità (incapacità o vizi del consenso) o di risoluzione della perizia stessa” (così, Cass. Sez. 3, sent. 16 marzo 2005, n. 5678, Rv. 581640-01; cfr. anche, con riferimento, in particolare, alla necessità di far valere solo con azione di annullamento il vizio di “errore determinante”, Cass. Sez. 6-3, ord. 28 luglio 2017, n. 18906, Rv. 645073-01).

In particolare, il primo dei due arresti qui citati – nel rammentare, preliminarmente, che la perizia contrattuale ricorre “quando le parti conferiscono ad uno o più terzi, scelti per la loro particolare competenza tecnica, il compito non di risolvere una controversia giuridica, bensì di formulare un apprezzamento tecnico che si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro volontà” – ebbe a scrutinare censure affini a quelle che formano oggetto dei motivi di ricorso in esame. Difatti, anche in quel caso, la parte ricorrente – sul presupposto che le parti avessero “voluto che nell’espletamento della perizia contrattuale (…) fossero osservati i principi della collegialità e del contraddittorio” – deduceva che, “contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, i verbali delle operazioni peritali, lungi dal dimostrare l’osservanza dei menzionati principi”, ne rivelassero, invece, “la violazione”. Inoltre, pure in quel caso, veniva contestato che la Corte di merito non avesse “pronunciato, accogliendola, sull’eccezione di invalidità della perizia contrattuale per errore essenziale derivante dalla mancanza di corrispondenza tra l’attività svolta dal terzo perito e l’attività richiesta dalle parti con apposita clausola contrattuale”, rammentandosi “che l’errore essenziale che determina l’invalidità della perizia ricorre quando gli arbitri hanno una falsa rappresentazione della realtà, non prendono visione di elementi della controversia, suppongono l’inesistenza di altri elementi”. Orbene, a fronte di simili doglianze, questa Corte ritenne che “la decisione dei periti” fosse “impugnabile solo attraverso le tipiche azioni di annullamento e di risoluzione per inadempimento previste per i contratti” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 5678 del 2005, cit.).

Resta, dunque, inteso che nella “assicurazione contro i danni, la clausola di polizza che devolve a terzi l’accertamento o il rilievo, tramite “perizia contrattuale”, di dati tecnici (nella specie la misura dell’indennizzo) non impedisce alle parti di agire in giudizio per la soluzione di controversie implicanti questioni giuridiche inerenti l’esistenza, la validità o l’efficacia del contratto” (Cass. Sez. 3, sent. 16 febbraio 2016, n. 2996, Rv. 638926-01), occorrendo, tuttavia, che un’iniziativa di tal natura sia stata, però, assunta.

7.1.2. Orbene, tanto premesso, dalla lettura del ricorso oggi in esame emerge soltanto che la perizia contrattuale sopravvenne nel corso del giudizio, non essendo, però, dato sapere se l’odierna ricorrente si sia fatta carico – attraverso una tempestiva “emendatio” della domanda originaria – di assumere (e di riproporre in appello) una simile iniziativa “impugnatoria”, giacchè nulla viene detto, al riguardo, attraverso un puntuale riferimento alle conclusioni assunte in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado (pag. 5 del ricorso), o ai motivi di gravame (pag. 6).

Ne consegue, pertanto, che i primi due motivi del presente ricorso sono inammissibili, e ciò – più ancora che alla stregua del principio secondo cui la parte che denunci “un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale”, come avvenuto nella specie, “non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi” (Cass. Sez. Lav., sent. 15 novembre 2013, n. 25728, Rv. 628585-01) – ma per un (più radicale) difetto di autosufficienza circa la descrizione della natura dell’iniziativa assunta nel giudizio di merito, e dunque a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), norma la cui osservanza esige che il ricorso per cassazione faccia emergere con chiarezza “le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi” (tra le molte, Cass. Sez. 6-3, ord. 28 maggio 2018, n. 13312, Rv. 648924-01).

7.2. La declaratoria di inammissibilità dei primi due motivi di ricorso condiziona l’esito dello scrutinio dei motivi terzo, quarto e quinto, nel senso – nuovamente – della loro inammissibilità.

7.2.1. Invero, una volta esclusa la possibilità di sindacare la validità della perizia, per le ragioni appena indicate, appare corretta l’affermazione della Corte veneziana, laddove ha ipotizzato esservi stata – con la sottoscrizione della clausola che devolveva ai periti la determinazione dell’indennizzo assicurativo – una rinuncia alla giurisdizione in relazione alle controversie sul “quantum” dell’indennizzo.

Tale conclusione, infatti, appare conforme al principio secondo cui “la perizia contrattuale ha natura di mandato collettivo, nel senso che le parti devolvono ad un terzo, che scelgono per la sua particolare competenza, la formulazione di una valutazione che si impegnano anticipatamente ad accettare e far propria, il cui esito esse possono impugnare solo con gli strumenti atti ad aggredire una pattuizione contrattuale: l’azione di annullamento, da un lato, se vi è errore determinante, l’azione di risoluzione, se vi è inadempimento, in caso l’assicuratore non si conformi al “dictum” del perito” (così, da ultimo, in motivazione Cass. Sez. 6-3, ord. n. 18906 del 2017, cit.).

Ogni questione, dunque, attinente a presunti errori dei periti veicolata al di fuori di un’azione di annullamento della perizia – deve ritenersi inammissibile, omettendo tali censure di confrontarsi con la “ratio decidendi” appena indicata (rinuncia alla giurisdizione sull’entità dell’indennizzo), ed essendo, per tale ragione, inammissibili.

Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

Il tutto, peraltro, non senza segnalare – per quanto specificamente attiene ai motivi quarto e quinto, laddove pretendono di censurare la scelta del giudice di merito di non dare corso agli adempimenti istruttori ex artt. 191 e 213 c.p.c. – che l’esercizio “del potere, di cui all’art. 213 c.p.c., di richiedere d’ufficio alla P.A. le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo, costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità” (Cass. Sez. 2, sent. 15 febbraio 2011, n. 3720, Rv. 616512-01), ed inoltre che, “qualora, come nella specie, l’esistenza e l’entità del danno siano determinate in sede di perizia contrattuale, i risultati della perizia, che le parti si sono impegnate ad accettare come diretta espressione della loro volontà, vincolano il giudice, non consentendogli di disporre CTU sul punto e di tenerne conto, se l’abbia ugualmente disposta” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 5678 del 2005, cit.).

7.3. Inammissibili, infine, sono anche i motivi sesto e settimo.

7.3.1. Sul punto occorre premettere che secondo questa Corte, in tema di assicurazione conto i danni, “l’obbligo dell’assicuratore di pagare l’indennizzo, assolvendo una funzione reintegratoria della perdita subita del patrimonio dell’assicurato, ha natura di debito di valore, con la conseguenza che esso deve essere necessariamente rivalutato con riferimento al periodo intercorso tra il sinistro e la liquidazione, pur se non vi sia inadempimento o ritardo colpevole dell’assicuratore, rilevando la condotta del debitore solo dal momento in cui, con la liquidazione, il debito indennitario diventa obbligazione di valuta, e tanto ai fini del riconoscimento, da tale momento, a titolo di risarcimento, degli interessi moratori o del maggior danno e art. 1224 c.c.” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 7 maggio 2009, n. 10488, Rv. 608089-01, relativa, tra l’altro, ad indennizzo dovuto per incendio delle cose assicurate, in senso conforme, Cass. Sez. 3, sent. 28 luglio 2015, n. 15868, Rv. 636369-01). Inoltre, si è pure precisato che “proprio in ragione della qualificazione del debito indennitario come di valore”, la circostanza che il contratto preveda “una perizia contrattuale per la determinazione convenzionale del debito, di per sè non vale ad escludere” che tale essa debba determinare il danno derivante “considerando il relativo debito come di valore e, quindi, che, nello stabilire la somma dovuta per equivalente”, debba “farlo tenendo conto della svalutazione monetaria frattanto intervenuta, mentre, per escludere il potenziale rilievo della possibilità di un reimpiego immediato di essa e, quindi, di un risarcimento del relativo danno in difetto di copertura da parte della rivalutazione monetaria, sarebbe necessaria (…) la previsione contrattuale di una dilazione del pagamento dell’indennizzo (pur rivalutato) fino al momento della liquidazione peritale, in modo da rendere irrilevante, ma perchè escluso dal danno garantito, il differenziale da mancata utilizzazione della somma dovuta per l’indennizzo rispetto alla rivalutazione monetaria” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 febbraio 2008, n. 3268, Rv. 601709-01).

7.3.2. Nondimeno, la questione che viene all’esame di questa Corte è quella che attiene all’omessa pronuncia sul motivo di gravame con cui si censurava il mancato riconoscimento di rivalutazione ed interessi sulla somma dovuta a titolo di indennizzo, domanda proposta in primo grado (cfr. pag. 2 del ricorso) e reiterata, appunto, in appello (cfr. pag. 15 del ricorso e pag. 2 della sentenza della Corte territoriale).

Il punto è, pertanto, se la questione sia stata correttamente veicolata innanzi a questa Corte, visto che il sesto motivo è proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “sub specie” di omesso esame del fatto costituito dalla qualifica di imprenditore del ricorrente, mentre il settimo ipotizza, innanzitutto, violazione dell’art. 1224 c.c., commi 1 e 2 e art. 1284 c.c., nonchè degli artt. 2082 e 2083 c.c., oltre che dell’art. 112 c.p.c., per essere stato disatteso il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Tali censure, tuttavia, non recano riferimento alcuno – come è confermato dal mancato richiamo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – alla “nullità” della sentenza impugnata.

Pertanto, l’inammissibilità del motivo (sesto) discende dal rilievo che la “omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile” (da ultimo, Cass. Sez.6-3, ord. 16 marzo 2017, n. 6835, Rv. 643679-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 6-1, ord. 12 ottobre 2017, n. 23930, Rv. 646046-01).

Nè, d’altra parte, in senso favorevole all’accoglimento del motivo (settimo) si potrebbe valorizzare il riferimento alla violazione dell’art. 112 c.p.c., giacchè, a prescindere dal rilievo che tale censura non è correlata alla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), dirimente è la constatazione che alla possibilità di “riqualificare” la stessa come deduzione di un “error in procedendo” osta, nella specie, la mancanza della condizione a ciò necessaria, ovvero che “il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione”, dovendo, pertanto, dichiararsi lo stesso inammissibile, allorchè esso – come nella specie – “sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge” (Cass. Sez. Un., sent. 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268-01; in senso analogo, da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 7 maggio 2018, n. 10862, Rv. 648018-01).

8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente e liquidate come da dispositivo.

9. A carico del ricorrente, stante l’inammissibilità della proposta impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna G.E. a rifondere alla società Generali le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.800,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico di parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2019

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