Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18311 del 19/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 19/09/2016, (ud. 19/05/2016, dep. 19/09/2016), n.18311

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1134-2014 proposto da:

TECNOLEGNO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE E IN CONCORDATO PREVENTIVO, C.F.

(OMISSIS), già TECNOLEGNO S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO

VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO

SCOGNAMIGLIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ROMEO BIANCHIN, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.E., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

P.ZA CRIVELLI 50, presso lo studio dell’avvocato SELENE SABELLICO,

che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 322/2013 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 19/08/2013 R.G.N. 48/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/05/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato SANGERMANO FRANCESCO per delega Avvocato

SCOGNAMIGLIO CLAUDIO;

udito l’Avvocato SERMARINI BARBARA per delega orale Avvocato

SABELLICO SELENE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza resa pubblica il (OMISSIS) confermava la pronuncia del Tribunale di Pordenone con cui era stata accolta la domanda proposta da R.E. nei confronti della Tecnolegno s.p.a. (oggi Tecnolegno s.r.l. in liquidazione), intesa a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data (OMISSIS) per giustificato motivo oggettivo, oltre al risarcimento del danno ed alla corresponsione della indennità sostitutiva della reintegra.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale osservava, per quanto in questa sede rileva, che l’esigenza di provvedere alla riorganizzazione dell’attività con affidamento delle mansioni di responsabile approvvigionamenti in origine ascritte al R., ad altro dipendente, posta dalla azienda a fondamento del provvedimento espulsivo irrogato, non risultava sostenuta da adeguato supporto probatorio. Dalla documentazione ritualmente acquisita in giudizio (relazione sul bilancio al (OMISSIS)), e dalle stesse ammissioni rese da parte appellante, era infatti emerso che nel (OMISSIS) l’attività d’impresa era stata qualificata da indici di elevata produttività, tanto da indurre ad una ristrutturazione dello stabilimento di cospicuo valore (pari a tre milioni di Euro).

Riteneva, quindi, che la allegata situazione di crisi, effettivamente palesata solo agli inizi dell’anno (OMISSIS), non sussistesse all’epoca del licenziamento e non potesse giustificare il provvedimento espulsivo irrogato. La Corte argomentava, inoltre, in ordine alla mancanza di ogni prova circa la soppressione del posto di lavoro in precedenza occupato dal R., così come sulla impossibilità di una proficua sua ricollocazione nell’ambito della struttura organizzativa aziendale anche tenuto conto delle indicazioni fornite dal medesimo lavoratore.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la Tecnolegno s.r.l. in liquidazione con cinque motivi corredati da memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste con controricorso il R..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità del procedimento per violazione dell’art. 437 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Deduce che l’istanza di ammissione alla procedura di concordato preventivo del (OMISSIS) – prodotta dal R. in grado di appello onde sostenere l’assunto che la crisi aziendale si sarebbe manifestata solo dall'(OMISSIS) – era da ritenersi inammissibile giacche, in relazione ai tempi della sua formazione, doveva essere prodotta già nel corso del giudizio di primo grado.

Il motivo è privo di pregio. Si impone innanzitutto l’evidenza del difetto di autosufficienza che connota detta prima censura, carente quanto alla riproduzione del tenore del documento che si assume irritualmente prodotto.

Sotto altro versante va rimarcato come la nullità di un atto di acquisizioni probatorie non incida sulla sentenza che da esso prescinda e non comporta, in ogni caso, la nullità (derivata) della stessa, atteso che i rapporti tra atto istruttorio nullo e sentenza non possono definirsi in termini di eventuale nullità derivata di quest’ultima, quanto, piuttosto, di giustificatezza o meno delle statuizioni in fatto della sentenza, la quale, in quanto fondata sulla prova nulla (che quindi non può essere utilizzata) o sulla esclusione di una prova con provvedimento nullo, è priva di (valida) motivazione, non già nulla a sua volta. L’atto istruttorio, puramente eventuale, non fa parte dell’indefettibile serie procedimentale che conduce alla sentenza ed il cui vizio determina la nullità, ma incide soltanto sul merito delle valutazioni (in fatto) compiute dal giudice, sindacabili in sede di legittimità esclusivamente nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (vedi Cass. 3/9/2014 n.18587, Cass. 28/7/2006 n. 17247).

Sempre sulla medesima linea interpretativa, questa Corte ha poi chiarito che nel rito del lavoro, incombe sulla parte che alleghi l’irrituale produzione documentale, in contrasto con il divieto di produzione tardiva nel processo delle c.d. prove costituite, l’onere di specificare l’incidenza dell’irregolare acquisizione sulla decisione adottata, al fine di porre la Corte di legittimità in condizione di valutare la dedotta erroneità della motivazione e la sua riferibilità ad un punto decisivo della controversia (vedi Cass. 22/7/2009 117101).

Nello specifico, detto profilo non appare immediatamente desumibile dal contenuto dell’atto, stante il difetto di specificità della censura sotto il profilo richiamato, nè appare chiaramente enunciato dalla ricorrente, la quale ha dedotto esclusivamente che la motivazione della pronuncia non poteva basarsi, neanche parzialmente, su tale dato documentale.

Peraltro, è la articolata struttura argomentativa di cui la sentenza è innervata, che induce ad escludere la decisività della questione in questa sede delibata. La Corte distrettuale ha infatti fondato il decisum in ordine alla insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento su di una pluralità di elementi già richiamati nello storico di lite, quali la relazione sul bilancio al (OMISSIS) da cui si evinceva che la società aveva un “portafoglio ordini tanto significativo da non poter osservare i termini di consegna”, la stabilità dei valori medi mensili degli addetti, la natura meramente soggettiva delle ragioni sottese al provvedimento espulsivo, la mancata dimostrazione dell’impossibilità di un repechage del lavoratore. Si palesa, pertanto, l’evidenza che i giudici dell’impugnazione hanno utilizzato i dati desumibili dal ricorso per concordato preventivo, quale mera argomentazione di sostegno, integrando le ulteriori ragioni innanzi richiamate, il fondamento della reiezione del gravame interposto dalla società.

Per le superiori argomentazioni, il motivo è, quindi, da ritenersi privo di fondamento.

Con il secondo mezzo di impugnazione si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, ex art. 350 c.p.c., n. 3.

Si stigmatizza la sentenza impugnata per aver ritenuto quale presupposto indispensabile per la legittimità del licenziamento, la circostanza che la scelta organizzativa con soppressione di uno specifico posto necessiti sempre di una situazione di crisi in corso, e per aver negato comunque che detta soppressione avesse avuto luogo, giacchè le stesse mansioni ascritte al R., erano state redistribuite fra gli altri lavoratori. Si sostiene, per contro, che, ai fini del giustificato motivo oggettivo non sia necessaria la verifica di una “immanente situazione di crisi”, ma l’esistenza di una ragione economica seria e non pretestuosa.

La censura va disattesa.

La Corte distrettuale ha ritenuto insussistente detto motivo – individuato dalla società nell’esigenza di riorganizzare l’attività con affidamento del ruolo in precedenza ascritto al R. ad altro dipendente – in estrema sintesi, sulla scorta di una pluralità di argomentazioni riconducibili sia alla insussistenza di una situazione economica sfavorevole, tale da incidere sull’andamento della produttività aziendale; sia all’intento, confermato in sede testimoniale, di espellere il personale in precedenza assunto dai precedenti vertici aziendali (indicati nella persona del Nadalutti); sia dalla omessa dimostrazione da parte datoriale, dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore in posizione di lavoro analoga a quella che si assumeva soppressa.

Si tratta di un incedere argomentativo del tutto corretto sul versante giuridico, ove si considerino i consolidati approdi ai quali è pervenuta questa Corte di legittimità sulla delibata questione.

E’ stato, infatti, affermato (vedi Cass. 20/8/2003 n. 12261) che il giustificato motivo oggettivo, di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 deve essere valutato sulla base degli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti (vedi fra le tante, Cass. 2/10/2006 n.21282, cui acide Cass. 22/8/2007 n.17887, Cass. 13/8/2008 n.21579),’con la precisazione che “nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi” (v. fra le altre Cass. 17/5/2003 n.7750, Cass. 20/8/2003 n. 12270, Cass. 13/11/2001 n. 14093, Cass. 29/3/1999 n.3030, Cass. 8/11/1998 n. 11646, nonchè Cass. S.U. 11/4/1994 n. 3353).

Vero è che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si verifica ogni volta che si presenta la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro a causa di scelte attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa con conseguente e inevitabile licenziamento dei lavoratori che ricoprano detti posti e che non possano essere impiegati altrimenti (ex plurimis, in motivazione, Cass. cit. S.U. n. 3353/1994).

Non può, però tralasciarsi di considerare che nella previsione di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3, seconda parte, l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda deve essere ispirato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario.

Può dunque affermarsi che compete al giudice – il quale non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale la parte detonale ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto (cfr. ex plurimis, Cass. 14/5/2012 n. 7474, Cass. 11/7/2011 n. 15157).

Corollario di quanto sinora detto è che, seppure i criteri di gestione dell’impresa restano riservati al datore di lavoro, in quanto espressione di principi che rinvengono tutela di rango costituzionale, compete pur sempre al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore.

Nell’ottica descritta, la pronuncia impugnata si presenta conforme a diritto laddove, all’esito dello scrutinio dell’articolato materiale probatorio, ha escluso la effettiva sussistenza del motivo addotto a fondamento del recesso sulla scorta di plurime concorrenti ragioni, in precedenza indicate, che – è bene ribadire – diversamente da quanto argomentato da parte ricorrente, non riposano esclusivamente sulla insussistenza di una situazione immanente di crisi della attività produttiva, ma anche sulla ricorrenza di ulteriori ragioni attinenti a profili non oggettivi (“l’intento del N…. riferito al teste G., di fare uscire dall’azienda il personale assunto dal Na., fra i quali vi erano proprio G. e il ricorrente”), sulla assunzione di nuovo personale nel corso del (OMISSIS), sulla omessa prospettazione da parte datoriale della impossibilità di diversa collocazione nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale.

Dette statuizioni si sottraggono, in quanto coerenti sotto il profilo logico e per quanto sinora detto, corrette sotto il versante giuridico, alle formulate censure, che vanno pertanto respinte.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, art. 41 Cost. nonchè omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti. Si critica l’argomentare del giudice dell’impugnazione per avere solo parzialmente analizzato la relazione di bilancio (OMISSIS), svalutando ogni diversa risultanza istruttoria, anche di natura testimoniale, ed esprimendo un giudizio di opportunità economica che non competeva alla Corte.

Con il quarto motivo è denunciata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ex art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè nonchè omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti e concernenti l’effettiva soppressione del posto di lavoro occupato dal R. (ex art. 360 c.p.c., n. 5).

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi, siccome connessi, sono privi di pregio.

Al di là di ogni pur assorbente considerazione in ordine al difetto di specificità del terzo motivo, che non riproduce testualmente, per il principio della autosufficienza che governa il ricorso per cassazione, il tenore dei documenti di cui si lamenta l’omessa considerazione (bilancio (OMISSIS), mod. d.m.10), le censure presentano profili di inammissibilità laddove tendono a pervenire ad un rinnovato apprezzamento del compendio istruttorio non consentito nella presente sede di legittimità ove lo scrutinio degli strumenti probatori acquisiti, così come nella specie, sia stato condotto secondo criteri di completezza e coerenza, per quanto sinora detto.

Premesso che, con riferimento al principio del libero convincimento del giudice consacrato dall’art. 116 c.p.c., comma 1, in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre (vedi ex plurimis, Cass. 10/6/2014 n.13054), non può sottacersi che, nello specifico, la doglianza esula dall’ambito del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè attiene alla ricostruzione dei fatti, che, per le sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2), qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c.).

In proposito, hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22 settembre 2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7 aprile 2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativa è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per tassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Orbene, applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai canoni enunciati, sollecita un’inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminate dalla Corte territoriale, auspicandone un’interpretazione a sè più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità.

Lo specifico iter motivazionale seguito dai giudici dell’impugnazione, per le ragioni testè esposte, non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità sottraendosi, in quanto congruo e completo, alla censura all’esame.

Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 nonchè omessa valutazione circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti relativi al mancato assolvimento dell’onere probatorio del repechage.

Ci si duole essenzialmente che la Corte territoriale abbia tralasciato di considerare – ai fini dello scrutinio relativo all’assolvimento di detto onere – talune dichiarazioni testimoniali indicative nel senso di una successiva esternalizzazione delle mansioni in origine affidate alla dipendente M., la cui posizione lavorativa era stata indicata dal R. come compatibile con il proprio ruolo rivestito nell’assetto organizzativo aziendale.

La censura è infondata.

Con risalente orientamento, cui si intende dare continuità, questa Corte ha avuto modo di affermare il principio in base al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri), la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come “extrema ratio” (v. Cass. 14/6/1999 n. 5893, Cass. 5/12/2000 n. 15451, Cass. 20/5/2009 n. 11720).

Si tratta di un’ulteriore ricaduta del generale principio cui in precedenza si è fatto richiamo, secondo cui il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, L. n. 604 del 1966, ex art. 3, è determinato dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, cosicchè, ai fini della legittimità dello stesso, sul datore di lavoro incombe la prova sia della concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo, sia della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito (cfr., ex plurimis, in motivazione, Cass. 13/8/2008 n. 21579).

Nello specifico, per considerazioni innanzi esposte, deve ritenersi che la pronuncia impugnata si collochi nel solco del ricordato orientamento di legittimità, laddove ha ritenuto, in primis, non assolto l’onere probatorio attinente alla ricorrenza del giustificato motivo di licenziamento, sulla base di considerazioni del tutto congrue e conformi a diritto, quindi già di per sè assorbenti di ogni ulteriore considerazione in tema di repechage.

Gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale si palesano, peraltro, coerenti con i ditta giurisprudenziali innanzi richiamati, pur ove è stato ritenuto, all’esito di una complessiva disamina del quadro probatorio delineato in prime cure, non assolto da parte societaria l’onere della prova circa l’impossibilità del repechage, anche con riferimento al dato delle dimissioni rassegnate dalla dipendente M., “addetta a mansioni impiegatizie non molto diverse da quelle dell’attore (vedi pagg. 8-9 della sentenza impugnata)”.

Non può, infatti, considerarsi significativa ai fini del decidere, la argomentazione addotta dalla ricorrente in ordine alla esternalizzazione dell’incarico in precedenza conferito alla M. ed alla conseguente soppressione del posto dalla stessa occupato, in un’ottica di contenimento dei costi aziendali, giacche, da un canto, non è dimostrato che detta esternalizzazione si fosse tradotta in una situazione effettivamente più favorevole per la società sotto il profilo enunciato; dall’altro, non risulta che la società avesse comunque dato prova di una diversa possibilità di collocazione del lavoratore, in coerenza con il patrimonio professionale di cui era portatore (ed anche, eventualmente, in relazione a mansioni inferiori cfr. Cass. 8/3/2016 n. 4509), nel pur ampio tessuto organizzativo della struttura aziendale.

In definitiva, sotto tutti i profili delineati, il ricorso va rigettato.

Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell’ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2016

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