Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18295 del 25/07/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/07/2017, (ud. 06/04/2017, dep.25/07/2017),  n. 18295

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20904-2015 proposto da:

A.F., C.F. (OMISSIS), C.G. C.F.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SAN TOMMASO

D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO CIRILLO, che

li rappresenta e difende unitamente all’Avvocato RAFFAELE FERRARA,

giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

MSD ITALIA S.R.L., C.F. (OMISSIS), già MERCK SHARP & DOHME

ITALIA S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo

studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FRANCO RAIMONDO BOCCIA, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 934/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/02/2015 R.G.N. 367/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2017 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso;

udito l’Avvocato SANTORO BARBARA per delega verbale Avvocato MARESCA

ARTURO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 934/2015, depositata il 9 febbraio 2015, la Corte di appello di Roma rigettava il gravame di A.F. e C.G. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che ne aveva respinto la domanda volta a far dichiarare nei confronti della datrice di lavoro Merck Sharp & Dohme S.p.A., previo accertamento dell’invalidità delle transazioni sottoscritte in sede sindacale, la continuità giuridica del rapporto di lavoro, con obbligo della società di pagare le retribuzioni maturate dalla risoluzione alla riammissione in servizio, o, in subordine, volta ad ottenere il risarcimento del danno per violazione delle norme di correttezza e buona fede.

La Corte osservava a sostegno della propria decisione, da un lato, che l’intervenuto accordo tra gli appellanti e la società, avendo ad oggetto la cessazione del rapporto, e cioè un diritto nella piena disponibilità del lavoratore, non rientrava nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c., così da rendere irrilevanti i vizi del procedimento di formazione della conciliazione sindacale; dall’altro, che il ricorso in appello non conteneva specifiche censure alle argomentazioni del giudice di primo grado, con le quali era stata esclusa la sussistenza dei vizi della volontà e delle altre violazioni allegate.

Hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza i lavoratori con unico motivo; la società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con unico articolato motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di numerose norme (artt. 1325,1337,1344,1345,1406,1439 e 2113 c.c.; artt. 112,115,116,410,411,412 e 420 c.p.c.), i ricorrenti censurano la sentenza di appello per avere la Corte erroneamente ritenuto assorbente il dato formale della inoppugnabilità dei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale, trascurando di esaminare in modo adeguato (e, prima ancora, di accertare compiutamente, mediante l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio) gli elementi di fatto e le circostanze, descritti negli atti introduttivi dei gradi di merito, che avevano determinato la loro volontà di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro: elementi e circostanze che dimostravano la falsa rappresentazione della realtà indotta dalla datrice di lavoro, con la prospettiva, poi rivelatasi del tutto insussistente, di una nuova occupazione presso altra società alle precedenti condizioni contrattuali, e, in definitiva, il doloso raggiro dalla stessa posto in essere ai loro danni.

Il motivo è inammissibile.

Esso, infatti, non contiene alcuna censura nei confronti della seconda (e autonoma) ragione decisoria posta a fondamento della pronuncia e cioè il ritenuto difetto, nel ricorso in appello, di specifici rilievi nei confronti delle “argomentazioni del Tribunale con le quali sono state esplicitate le ragioni che escludono la sussistenza dei vizi della volontà e delle altre violazioni allegate, che, conseguentemente, conservano piena e perdurante validità e rilevanza decisionale” (cfr. sentenza, p. 14).

In particolare, la Corte territoriale ha osservato come nella fattispecie gli appellanti, in contrasto con gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità formatasi sull’art. 434 c.p.c. nella versione ratione temporis vigente (e cioè in quella anteriore alla riforma del 2012), non avessero “specificamente preso in considerazione, nè adeguatamente confutato i sopra rimarcati passaggi argomentativi salienti della motivazione del primo Giudice, avendo esposto considerazioni che non investono in alcun modo l’iter argomentativo surriportato, come tali inidonee ad incrinarne il fondamento logico-giuridico”; così che – ha conclusivamente osservato la Corte di appello – perde rilievo “anche l’accertamento fattuale relativo alle altre allegazioni esposte nel ricorso” (cfr. ancora sentenza, pp. 14-15).

Come più volte precisato da questa Corte, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo e risolvendosi tale nullità, nel caso del ricorso per cassazione, nella sanzione di inammissibilità espressamente comminata dall’art. 366 c.p.c. (cfr., fra le altre, Cass. n. 359/2005).

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

 

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2017

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