Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18281 del 25/07/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/07/2017, (ud. 18/01/2017, dep.25/07/2017),  n. 18281

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24474-2014 proposto da:

Z.G., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO ZISA, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

B.M.T., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato CLAUDIO CANZONIERI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 513/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 29/05/2014 r.g.n. 104/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato FRANCESCO MONNO per delega verbale Avvocato

FRANCESCO ZISA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine

rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Catania, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, che aveva del tutto respinto la domanda del lavoratore istante, B.M.T., accoglieva per quanto di ragione il gravame da costui interposto, condannando per l’effetto l’appellato – datore di lavoro, Z.G., al pagamento di complessivi 25.560,96 Euro, oltre accessori, compensando in parte le spese di lite, per il resto liquidate a carico del convenuto, ma interamente ponendo a carico di quest’ultimo quelle della espletata c.t.u. contabile, il tutto come da sentenza n. 513 in data 15 / 29 maggio 2014.

Infatti, secondo i giudici dell’appello, la gravata pronuncia non era condivisibile, nei limiti di quanto devoluto dall’appellante, laddove aveva ritenuto provata la corresponsione della retribuzione secondo le somme indicate nelle buste paga in atti. Infatti, ex art. 2697 c.c., comma 2, spettava al datore fornire piena prova di quanto corrisposto a titolo di retribuzione, prova che non poteva dirsi fornita con le buste paga prodotte da parte datoriale, le cui sottoscrizioni erano state espressamente disconosciute dal lavoratore alla prima udienza, senza peraltro alcuna richiesta di verificazione da parte datoriale; d’altro canto, tali firme nemmeno integravano gli estremi di quietanze liberatorie; spettavano, inoltre, nei limiti tuttavia delle giornate di lavoro dichiarate da parte datoriale e dell’orario considerato provato dalla sentenza appellata, il trattamento di fine rapporto e lo straordinario. Dunque, per gli anni dal 1996 del 2003, di cui alle buste paga prodotte dal resistente, spettavano differenze retributive, relativamente alle pretese, indicate come percepite con il ricorso introduttivo del giudizio e quelle giornaliere indicate nelle buste paga in atti, più conseguenti t.f.r. e straordinario, in ragione di complessivi 21.626,46 Euro.

Per gli anni dal 1993 al 1995, in mancanza delle buste paga e non risultando le tabelle retributive del settore agricolo per la Provincia di Ragusa – non prodotte da parte ricorrente, ma acquisibili di ufficio – doveva procedersi alla liquidazione equitativa delle differenze spettanti per retribuzione, straordinario e t.f.r., così per un totale di 3934,50 Euro, da sommarsi al suddetto importo di 21.626,46.

Avverso la sentenza della Corte catanese ha proposto tempestivo ricorso per cassazione Z.G. affidato a tre motivi, cui ha resistito il lavoratore B.M.T. mediante controricorso.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1^ motivo il ricorrente ha dedotto violazione dell’art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., richiamando le diverse argomentazioni della sentenza di 10 grado, assumendo che non si era tenuto conto delle deposizioni dei testi indicati, nonchè dell’interrogatorio formale reso dall’attore.

Con il 2^ motivo, lo Z. ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., n. 4, art. 2955 c.c., n. 2 e art. 2956 c.c., n. 1 (prescrizione di cui però nulla si dice circa dove, come e quando eccepita);

Infine, con 3 motivo il ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione degli artt. 414,421 e 437 c.p.c., relativamente al contratto provinciale lavoratori agricoli, che sarebbe stato irritualmente acquisito di ufficio dal collegio giudicante.

Le anzidette censure sono in buona parte inammissibili ed in ogni caso infondate.

Quanto al primo profilo, invero, il ricorso appare insufficientemente formulato, segnatamente in relazione a quanto richiesto a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 (esposizione sommaria dei fatti della causa, nel senso che la sintesi deve ad ogni modo compiutamente indicare lo svolgimento del processo, soprattutto in ordine alle allegazioni ed alle eccezioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio, nella memoria difensiva di parte convenuta e nell’atto di appello) e 6 (specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, di modo che deve specialmente riprodurre sufficientemente il contenuto degli atti e dei documenti sui quali si basa la propria impugnazione, indicando altresì con precisione la loro collocazione temporale e la specifica sede in cui risultino reperibili e consultabili).

Tutto ciò è assai carente nel ricorso de quo, in particolare con riferimento alla dedotta prescrizione, che come è noto va eccepita dalla parte interessata (art. 2938 c.c. Non rilevabilità d’ufficio – Il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta), per giunta tempestivamente, quindi nei termini e secondo le forme di cui all’art. 416 c.p.c. (senza dire poi, nel merito, la portata delle pronunce della Corte Costituzionale circa la decorrenza, solo dalla cessazione del rapporto e non in costanza di esso ove manchi la stabilità reale del medesimo – v. le sentenze 10 giugno 1966, n. 63, 12 dicembre 1972 n. 174, inerenti proprio agli artt. 2948,2955 e 2956 c.c.).

Nella specie, inoltre, la pur motivata sentenza di appello non accenna minimamente alla prescrizione tra le questioni dibattute non corso del giudizio, nè in primo e nemmeno in secondo grado, di guisa che il secondo motivo deve considerarsi assolutamente inammissibile.

Parimenti va detto in relazione alla prima censura, laddove le doglianze inammissibilmente pretendono in questa sede di legittimità la rivalutazione in senso positivo di quanto opinato dal giudice di primo grado, laddove ciò che conta è quanto accertato, apprezzato e valutato dalla Corte di merito, che ha pronunciato invece la sentenza di merito qui impugnatata che è la sola, quindi, processualmente rilevante ai fini del ricorso (v. del resto il testuale riferimento di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 in tema di sentenze impugnabili e motivi di ricorso: “Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione…”).

Invero, la sentenza di appello per il suo carattere sostitutivo ed assorbente, rimuove quella di primo grado, prendendone il posto (cfr. Cass. 3 civ. n. 5829 del 13/03/2007, che quindi ha ritenuto l’inutilità del provvedimento dato con la pronuncia di merito in secondo grado sull’istanza di sospensione della provvisoria esecutività. In senso conforme Cass. n. 5786 del 1984. V. pure Cass. lav. n. 6911 del 13/05/2002, secondo cui l’appello ha carattere sostitutivo e pertanto la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto della decisione di primo grado; tuttavia, nell’ipotesi in cui la sentenza d’appello sia a sua volta cessata con rinvio, non si ha una reviviscenza della sentenza di primo grado, posto che la sentenza del giudice di rinvio non si sostituisce ad altra precedente pronuncia, riformandola o modificandola, ma statuisce direttamente sulle domande delle parti.

In senso analogo Cass. lav. n. 16934 – 08/07/2013, secondo cui la riforma in appello della gravata pronuncia determina il venir meno del titolo esecutivo, provvisoriamente, atteso che l’appello ha carattere sostitutivo e pertanto la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto della precedente. Similmente v. Cass. 3 civ. n. 2955 del 7/2/2013: l’appello costituisce un mezzo di impugnazione che, attuando il principio del doppio grado di giudizio, si conclude con una sentenza destinata a sostituirsi a quella di primo grado – purchè investa il merito del rapporto controverso – ad ogni effetto e, dunque, anche a quelli esecutivi, sicchè la cassazione della sentenza di secondo grado non fa rivivere l’efficacia di quella di primo grado, indipendentemente dal fatto che la stessa fosse stata confermata o riformata in appello.

Cass. 3 civ. n. 13249 – 11/06/2014: la sentenza di riforma resa in grado d’appello si sostituisce sin dalla pubblicazione alla pronuncia riformata, privando quest’ultima della idoneità a legittimare l’instaurazione o la prosecuzione della procedura esecutiva senza che sia necessario attenderne il suo passaggio in giudicato, come conferma la modifica apportata all’art. 336 c.p.c., comma 2, che ha eliminato il collegamento necessario tra l’effetto rescindente della sentenza di riforma e il suo passaggio in giudicato.

Cfr. ancora Cass. 1 civ. n. 19708 del 2/10/2015, circa il carattere sostitutivo della sentenza di secondo grado, che, quindi, è destinata ad assorbire interamente l’efficacia di quella di primo grado.

Inoltre, come rilevato da Cass. 3 civ. n. 10124 del 30/04/2009, l’art. 336 c.p.c. – nel testo novellato della L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 48 – disponendo che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, con la pubblicazione della sentenza di riforma, vengano meno immediatamente sia l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione della somma pagata e di ripristino della situazione precedente. Conformi: Cass. nn. 12011 del 2002, 11491 e 26171 del 2006).

Sgombrato, quindi, il campo dalle inconferenti argomentazioni relative alle diverse argomentazioni circa la prova, mediante richiamo a quanto ritenuto in proposito dal giudice di primo grado, e fermo restando il già rilevato difetto di autosufficienza ex cit. art. 366, relativamente alle pur generiche argomentazioni contenute nel primo motivo (soprattutto per quanto concerne il non meglio indicato interrogatorio formale, che sarebbe stato reso dall’attore) e le risultanze testimoniali, quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c., anche sul punto le censure del ricorrente appaiono infondate.

Infatti, una volta accertata la prestazione di lavoro subordinato, spetta alla parte datoriale fornire idonea prova liberatoria in suo favore ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2 (cfr. Cass. sez. un. civ. n. 13533 del 30/10/2001: in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte – negoziale o legale – del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento. Nell’affermare il principio di diritto, le SS.UU., peraltro, hanno ulteriormente precisato che esso trova un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento.

Conformi, tra le molte altre, Cass. lav. n. 15249 – 11/10/2003, id. n. 2387 del 09/02/2004).

Per giunta, come anticipato all’inizio, le firme riportate sulle buste paga sono state ritualmente e tempestivamente disconosciute dal lavoratore interessato, ed a fronte di ciò non risulta avanzata alcuna istanza di verificazione ex art. 216 c.p.c., di modo che le stesse non hanno alcun valore probatorio. Per altro verso, la Corte di merito ne ha negato valore liberatorio, disconoscendone quindi la natura di quietanza di pagamento (v. anche la sentenza – citata con altre nella pronuncia qui impugnata – di Cass. lav. n. 6267 del 24/06/1998, secondo cui la sottoscrizione “per ricevuta” opposta dal lavoratore alla busta paga non implica, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, e pertanto la suddetta espressione non è tale da potersi interpretare alla stregua del solo riscontro letterale, imponendo invece il ricorso anche agli ulteriori criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 c.c. e ss. In senso analogo Cass. lav. n. 1150 del 4/2/1994, secondo cui l’obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dalla L. 5 gennaio 1953, n. 4, art. 1 di consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata, l’onere dimostrativo di tale non corrispondenza può incombere sul lavoratore soltanto in caso di provata regolarità della documentazione liberatoria e del rilascio di quietanze da parte del dipendente, spettando in caso diverso al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti. Conforme id. n. 7310 del 29/05/2001.

Cfr. altresì Cass. 1 civ. n. 17413 – 01/09/2015, secondo cui, in tema di accertamento del passivo fallimentare, le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di quest’ultimo, hanno piena efficacia probatoria del credito insinuato alla stregua del loro contenuto, obbligatorio e penalmente sanzionato, nè la sottoscrizione “per ricevuta” apposta dal lavoratore implica, in modo univoco, l’intervenuto pagamento delle somme indicate nei menzionati prospetti).

Infondato, infine, appare pure l’ultimo motivo di ricorso, laddove si assume l’illegittima acquisizione di ufficio del contratto provinciale dei lavoratori agricoli, non prodotti dal ricorrente.

Infatti, premesso che, come si legge a pag. due (primo capoverso) della sentenza di appello, lo stesso resistente – convenuto aveva eccepito, tra l’altro, il pagamento di retribuzioni, come da buste paga in atti, conformi alle previsioni del contratto provinciale, la doglianza comunque non merita pregio.

Ed invero, nelle cause soggette al rito del lavoro l’acquisizione del testo dei contratti o accordi collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso l’esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art. 437, comma 2, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne risulti contestata l’applicabilità al rapporto (Cass. lav. n. 15653 – 01/07/2010. V. altresì Cass. lav. n. 18261 del 12/08/2009, secondo cui nel rito del lavoro, il contratto collettivo di diritto comune – anche anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 – in quanto assumibile quale regola di giudizio, si distingue dai semplici fatti di causa e può essere richiesto, senza preclusione e discrezionalmente, d’ufficio dal giudice alle associazioni sindacali, ai sensi dell’art. 425 c.p.c., comma 4, restando onere della parte che lamenti il mancato esercizio di detto potere indicare, con il ricorso per cassazione, il momento ed il modo con cui ne abbia sollecitato l’esercizio.

In senso analogo, Cass. lav. n. 1246 del 20/01/2011, secondo cui nelle cause soggette al rito del lavoro, l’acquisizione del testo dei contratti o accordi collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso l’esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art. 437, secondo comma, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne risulti contestata l’applicabilità al rapporto; in ogni caso, pur non essendo automatico l’accoglimento di tali istanze, spetta al giudice, ove formulate, valutarne l’ammissibilità, sulla base di tutti gli elementi versati in atti, esplicitando le ragioni che ne fondino il rigetto.

Pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna alle relative spese del soccombente, tenuto altresì come per legge al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

 

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro tremila/00 per compensi professionali ed in duecento/00 Euro per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con attribuzione all’avv. Claudio Canzonieri, procuratore antistatario costituitosi per il controricorrente. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2017

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