Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18276 del 25/07/2017


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Cassazione civile, sez. II, 25/07/2017, (ud. 03/05/2017, dep.25/07/2017),  n. 18276

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5263-2014 proposto da:

D.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CESI 72, presso lo studio dell’avvocato PAOLO DE ANGELIS,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE CIARAMELLA giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAZIONALE, 91

C/O BANCA D’ITALIA, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI LUPI che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ADRIANA FRISULLO in

virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

19/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Giuseppe Ciaramella per il ricorrente e l’Avvocato

Adriana Frisullo per la controricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di accertamenti ispettivi eseguiti dalla Banca d’Italia, nel periodo compreso tra il 29 settembre ed il 19 novembre del 2008, nei confronti della Banca di Credito Cooperativo di Aversa (di seguito BCC), venivano riscontrate numerose irregolarità a carico degli organi sociali della banca che successivamente era anche stata posta in liquidazione coatta amministrativa per l’esistenza di perdite patrimoniali di eccezionale gravità).

In particolare al D.D., quale Presidente e componente del Collegio Sindacale, erano contestate le seguenti violazioni, come riportate numericamente negli atti della Banca d’Italia:

3) inosservanza delle disposizioni sul patrimonio minimo da parte dei membri del Collegio sindacale (art. 53, comma 1, lett. a), comma 2 TUB, Tit. 1, cap. 1, parte 4, Nuove Disp. Vig. Prudenz. Banche, Tit. 1, cap. 1, Istruzioni Vigilanza Banche);

5) Carenze nei controlli da parte del Collegio sindacale (art. 53, comma 1, lett. b) D.Lgs. n. 385 del 1993, Tit. 4, cap. 11);

6) Omesse comunicazioni all’Organo di Vigilanza da parte del Collegio sindacale (D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 52, commi 1 e 4 Tit. 4, cap. 11);

9) Omessa segnalazione dei Sindaci all’Organo di Vigilanza circa le posizioni ad andamento anomalo e previsioni di perdite (D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 51 Tit. 6, cap. 1).

Per l’effetto con provvedimento n. 786 del 10 novembre 2009, il Direttorio della Banca d’Italia su conforme proposta della Commissione Consultiva interna irrogava al D. la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 30.000,00 di cui Euro 10.000,00 per l’irregolarità sub 3), di Euro 10.000,00 per l’irregolarità sub 5) e di Euro 10.000,00 cumulativamente per le irregolarità sub 6) e 9).

Con ricorso notificato in data 12 gennaio 2010 il D. proponeva opposizione avverso tale provvedimento chiedendone l’annullamento e la Corte d’Appello di Roma con decreto del 19 luglio 2013 la rigettava, condannando l’opponente anche al rimborso delle spese di lite.

In primo luogo escludeva che nella fattispecie potesse trovare applicazione la previsione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 52, commi 1 e 4 con la conseguente vis actractiva in favore del giudice penale quanto all’irrogazione della sanzione amministrativa.

A tal fine evidenziava che il procedimento penale e sanzionatorio amministrativo avevano funzioni ed obiettivi del tutto diversi, essendo ontologicamente differenti anche sul piano dell’elemento soggettivo dell’illecito, sicchè gli illeciti contestati all’opponente concorrevano sia dal punto di vista formale che sostanziale con le ipotesi di reato fallimentare per le quali il D. era stato rinviato a giudizio.

In tal senso la sentenza assolutoria adottata in sede penale, pur negli scarni riferimenti motivazionali richiamati dall’opponente, non assumeva alcuna incidenza nel giudizio, posto che l’ipotizzata bancarotta fraudolenta per distrazione e falso in bilancio (L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1) aveva natura e portata diversa rispetto agli illeciti amministrativi contestati che concernevano l’inosservanza delle disposizioni sul patrimonio minimo, le carenze nell’organizzazione e nei controlli interni, le omesse comunicazioni e segnalazioni all’Organo di Vigilanza di posizioni ad andamento anomalo e di previsioni di perdite).

Ancora, era disattesa l’eccezione di nullità del procedimento sanzionatorio per la violazione del termine perentorio per la sua conclusione, osservandosi che nel computo del dies a quo per la definizione del procedimento stesso, occorreva tenere conto della data finale del 16/3/2009 quale risultante dalla concessione di un’ulteriore proroga per la presentazione di controdeduzioni ad opera degli altri amministratori incolpati in posizione concorrente con quella dell’opponente.

Tenuto conto di tale data, il termine di 240 giorni previsto dalle norme veniva a scadere l’11 novembre 2009, laddove il provvedimento impugnato era stato adottato il 10 novembre 2009, e quindi tempestivamente.

In ogni caso andava ricordato che il termine de quo, come affermato in giurisprudenza non ha natura perentoria, essendo sufficiente che il procedimento sanzionatorio si concluda nel termine di prescrizione quinquennale di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 28.

Infine, dopo avere disatteso anche il motivo concernente la nullità del provvedimento per difetto di motivazione (ritenendosi a tal fine sufficiente il rinvio per relationem alle motivazioni della Proposta della Commissione, che aveva svolto un’ampia ed articolata disamina dei fatti), riteneva che fossero infondate anche le censure nel merito.

A tal fine osservava che gli accertamenti ispettivi, dotati di una presunzione di legittimità, in quanto provenienti da pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, avevano permesso di accertare come il patrimonio netto si fosse ridotto in maniera abnorme, senza che i componenti del collegio sindacale se ne fossero avveduti, malgrado i numerosi indici rivelatori della situazione anomala.

Ancora, si riteneva che effettivamente, in un contesto caratterizzato da notevoli anomalie operative e gravi violazioni di legge, il collegio sindacale non aveva svolto il ruolo attivo che la legge gli assegna nell’ambito dei meccanismi di controllo sulla società.

In particolare mancavano delle concrete iniziative di vigilanza e di presidio interno per garantire l’efficienza dei controlli aziendali, emergendo altresì che la Banca d’Italia aveva formulato ripetuti e pressanti richiami al CDA della BCC per contestare le varie irregolarità che emergevano, senza che però il Collegio sindacale ed il suo Presidente si fossero minimamente attivati.

Mancava in particolare un’adeguata attività di verifica circa il rispetto della normativa antiriciclaggio, non essendosi avvalsi dell’apposita struttura aziendale sottoposta alla loro vigilanza, il cui compito era appunto quello di segnalare le operazioni sospette, favorendo in tal modo il perpetrarsi di operazioni di sportello che avevano visto la movimentazione di una quantità significativa di denaro contante.

Infine, erano ritenute prive di fondamento anche le contestazioni in merito alle violazioni di cui ai nn. 6) e 9) sopra riportate, in quanto il Collegio dei sindaci aveva omesso di segnalare periodicamente la sussistenza di partite anomale, venendo meno quindi all’obbligo di offrire all’Autorità di Vigilanza tutte le comunicazioni periodiche previste dalla legge circa dati ed informazioni rilevanti per la vita aziendale.

Per l’effetto, ravvisata anche la congruità della sanzione dal punto di vista quantitativo, rigettava in toto l’opposizione.

Per la cassazione di tale provvedimento ha proposto ricorso D.D. sulla base di tre motivi, illustrati anche da memorie.

La Banca d’Italia ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 28 nonchè degli artt. 1 e ss. del Regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008, come integrato dal relativo allegato.

Si deduce che la Corte distrettuale ha rigettato il motivo di opposizione con il quale si sosteneva la nullità del provvedimento sanzionatorio in quanto adottato oltre il termine di 240 giorni previsto dal citato Regolamento, osservandosi, oltre al fatto che lo stesso termine doveva in ogni caso reputarsi rispettato in ragione delle proroghe del termine per la presentazione delle controdeduzioni da parte degli altri incolpati (questione sulla quale verte il secondo motivo di ricorso), altresì che il termine de quo è non perentorio, essendo a tal fine sufficiente unicamente il rispetto del termine di prescrizione quinquennale di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 28.

Il motivo è infondato, ritenendo il Collegio di dover dare continuità a quanto affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione con la sentenza n. 20935/2009, che con specifico riferimento al termine previsto per la definizione del procedimento sanzionatorio della Consob, ma con argomentazioni che si attagliano in toto anche alle ipotesi sanzionatorie di competenza della Banca d’Italia, ha ritenuto che il termine de quo non abbia carattere perentorio.

In tal senso lo stesso ricorrente è consapevole dell’esistenza di tale orientamento, che reputa tuttavia di dover contestare mediante la riproposizione di argomenti già vagliati da parte delle Sezioni Unite di questa Corte, richiamando a supporto della propria tesi due precedenti del Consiglio di Stato, intervenuti nel periodo anteriore all’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 94 del 2014, che ha dichiarato illegittime le previsioni del codice del processo amministrativo che avevano devoluto al giudice amministrativo le controversie in materia di sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, allorquando il giudice amministrativo, sebbene sulla scorta di norme poi dichiarate illegittime, è stato chiamato ad occuparsi delle controversie de quibus.

Tuttavia, anche le argomentazioni del giudice amministrativo si risolvono esclusivamente in una diversa interpretazione dei medesimi elementi normativi già sottoposti all’esame delle Sezioni Unite, ed in particolare nella ravvisata natura non vincolata del provvedimento sanzionatorio.

Trattasi però di considerazioni che non appaiono in grado di inficiare la correttezza delle conclusioni a suo tempo raggiunte dalle Sezioni Unite, e che impongono quindi di confermare il principio della non perentorietà del termine in esame, con il conseguente rigetto del motivo.

Inoltre non deve dimenticarsi che in relazione ad altri ricorsi proposti da altri diversi esponenti dell’istituto di credito in oggetto, questa Corte ha avuto modo di valutare e ritenere infondata analoga doglianza (cfr. Cass. n. 17689/2016; Cass. n. 17688/2016), rilevando che il regolamento della “Banca d’Italia” in data 25.6.2008, pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 159 del 9.7.2008, applicabile ratione temporis al caso di specie e recante, siccome si evince dalla relativa intestazione, “l’individuazione dei termini e delle unità organizzative responsabili dei procedimenti amministrativi di competenza della Banca d’Italia relativi all’esercizio delle funzioni di vigilanza in materia bancaria e finanziaria”, è stato emanato, siccome analogamente si evince dall’intestazione, “ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 241, artt. 2 e 4″.

Deve poi ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 28 così come interpretato dal diritto vivente, posta dal ricorrente nelle memorie, laddove non si reputa avere carattere perentorio il termine di 240 giorni, per il preteso contrasto con gli artt. 3,24,97 e 111 Cost., apparendo al Collegio che la previsione del termine prescrizionale ponga comunque un limite ragionevole all’esposizione del preteso responsabile alla pretesa sanzionatoria della P.A.

2. Il secondo motivo di ricorso denunzia poi la violazione e falsa applicazione sotto un diverso aspetto della L. n. 689 del 1981, art. 28 e la violazione, sempre sotto un diverso profilo, degli artt. 1 e ss. del Regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008, come integrato dal relativo allegato.

Infatti, una volta assodata la natura perentoria del termine di 240 giorni per la definizione del procedimento sanzionatorio, si rileva che in realtà il termine ultimo per la presentazione di controdeduzioni, come prorogato dalla stessa Banca d’Italia, veniva a scadere non già il 16 marzo 2009, come opinato dalla Corte d’Appello, ma il 28 febbraio 2009.

Il motivo, in disparte evidenti profili di inammissibilità, in quanto mira nel complesso anche ad investire la corretta ricostruzione dei fatti così come operata dal giudice di merito, in ordine alle precisa individuazione del termine prorogato per la presentazione delle controdeduzioni (termine in relazione al quale va poi calcolato il decorso degli ulteriori 240 giorni per la definizione del procedimento), è comunque assorbito per effetto del rigetto del primo motivo, posto che lo stesso ricorrente, chiaramente condiziona la rilevanza della censura alla previa qualificazione del termine de quo come perentorio.

3. Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 24.

Si osserva che nella fattispecie sussisteva la vis actractiva in capo al giudice penale anche per l’adozione delle sanzioni amministrative oggetto di causa, attesa l’evidente connessione esistente tra il giudizio penale ed il procedimento amministrativo.

Si osserva che i fatti oggetto del procedimento sanzionatorio erano gli stessi esaminati dal giudice penale al fine di riscontrare la responsabilità del D. per i reati di bancarotta fraudolenta contestatigli.

Il giudice penale nella sentenza di assoluzione ha poi minuziosamente esaminato le varie condotte addebitate al ricorrente, escludendone la rilevanza penale, dovendosi quindi ritenere che l’accertamento delle violazioni ai doveri di legge da parte del Collegio sindacale ha costituito l’antecedente logico dell’accertamento circa la mancanza di responsabilità penale del D..

Ad avviso del ricorrente, quindi, attesa l’applicabilità alla fattispecie della L. n. 689 del 1981, art. 24 la competenza ad applicare la sanzione amministrativa oggetto di causa spettava unicamente al giudice penale, sicchè era carente ab origine qualsivoglia attribuzione di potestà sanzionatoria in capo alla PA, con l’ulteriore conseguenza, alla luce della giurisprudenza di legittimità, che il giudice dell’opposizione, in presenza di una carenza di potere in capo all’autorità amministrativa, deve limitarsi a revocare l’ordinanza opposta per incompetenza originaria dell’autorità emittente.

Anche tale motivo è infondato.

Ed, invero, oltre a rilevarsi la carenza di specificità del motivo ex art. 366 c.p.p., comma 1, n. 6 nella parte in cui la difesa del ricorrente richiama solo stralci della sentenza di assoluzione emessa dal giudice penale, omettendo di riprodurne il contenuto integrale (carenza questa già segnalata dalla Corte distrettuale nel provvedimento gravato), la tesi sostenuta si fonda su di una lettura estensiva della portata di cui all’art. 24 citato che però risulta chiaramente contrastata dalla giurisprudenza di questa Corte.

In tal senso giova richiamare quanto affermato in passato in numerose occasioni e cioè che (cfr. Cass. n. 5242/2008) la connessione oggettiva di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 24 richiesta per radicare la competenza del giudice penale nell’accertamento della responsabilità per l’illecito amministrativo, non consiste nella mera identità, totale o parziale, della condotta integrante le fattispecie amministrativa e penale, occorrendo, invece, che l'”esistenza” del reato dipenda dall’accertamento della violazione amministrativa (conf. Cass. n. 23925/2006; Cass. n. 22632/2006; Cass. n. 8530/2006 che ha precisato che l’art. 24 in esame non è applicabile nella diversa ipotesi in cui l’accertamento di un illecito amministrativo dipenda dall’accertamento di un reato).

Laddove quindi risulti carente la condizione rappresentata dal fatto che l’accertamento dell’illecito amministrativo costituisca l’antecedente logico necessario per l’esistenza del reato, la pendenza del procedimento penale non fa venir meno la competenza della PA all’irrogazione della sanzione amministrativa (così ex multis Cass. n. 2630/2005).

Nel caso di specie, condivisibilmente il provvedimento impugnato ha ritenuto di escludere la ricorrenza di una fattispecie riconducibile all’ambito applicativo dell’art. 24, facendo richiamo alla diversità ontologica dell’illecito amministrativo rispetto a quello penale, ancorchè gli stessi possano fondarsi sull’identità totale o parziale delle condotte ascritte al responsabile, sottolineando le differenze ontologiche tra le due ipotesi, sia per quanto attiene all’elemento soggettivo, ma soprattutto in ragione delle funzioni ed obiettivi a presidio dei quali sono diversamente poste le due ipotesi di sanzioni (penale ed amministrativa).

La tesi del ricorrente si appunta esclusivamente sulla identità, quanto meno parziale, dei fatti da accertare in vista dell’irrogazione della sanzione penale e di quella amministrativa, elemento questo che però non appare essenziale per il riconoscimento della competenza attrattiva in favore del giudice penale, occorrendo avere riguardo invece alla diversità dell’oggetto giuridico a tutela del quale sono poste le rispettive sanzioni (in tal senso si veda Cass. n. 28381/2011, secondo cui, anche laddove una condotta sia prevista come illecito amministrativo e come illecito penale, ove, come peraltro appare pacifico nel caso in esame, sussista la possibilità del cumulo tra sanzione amministrativa e penale, l’identità della condotta materiale integrante le due fattispecie esclude che l’esistenza del reato dipenda dall’accertamento della violazione amministrativa e, quindi, che sussista la connessione obiettiva per pregiudizialità di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 24dalla quale deriva la competenza del giudice penale nell’accertamento della responsabilità per l’illecito amministrativo; si veda altresì Cass. n. 28379/2011 che ribadisce, anche ai fini dell’applicazione dell’art. 24 in esame, la necessità di accertare la diversa obiettività giuridica degli interessi protetti dalla norma penale e da quella sanzionatoria amministrativa).

Ne deriva che il motivo è infondato e deve quindi essere rigettato.

4. Al rigetto del ricorso consegue altresì la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano come da dispositivo.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2017

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