Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18273 del 25/07/2017


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Cassazione civile, sez. II, 25/07/2017, (ud. 03/05/2017, dep.25/07/2017),  n. 18273

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14752/2014 proposto da:

S.S., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

DELLE ACCADEMIE 47, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE NERIO

CARUGNO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIANMARCO TAVOLACCI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, c.f.

(OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, domiciliato ex lege

in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende o e legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 782/2013 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 18/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2017 dal Consigliere Dott. LUIGI GIOVANNI LOMBARDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LUCIO CAPASSO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIUSEPPE NERIO CARUGNO, difensore del ricorrente,

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato DANIELA GIACOBBE, difensore del controricorrente,

che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – S.S. propose opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione con la quale il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali gli intimò il pagamento della sanzione amministrativa di Euro 474.297,67, irrogatagli a seguito della dichiarata decadenza dagli aiuti comunitari previsti per l’agricoltura e da lui indebitamente percepiti per gli anni 1996-2002 in relazione al terreno forestale sito nel comune di (OMISSIS), foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS), esteso ettari 131 circa, da lui precedentemente alienato con atto del 23.11.1994.

2. – A conclusione dei giudizi di merito, la Corte di Appello di Cagliari confermò la sentenza del locale Tribunale con la quale fu rigettata l’opposizione proposta dallo S..

3. – Per la cassazione della sentenza di appello ricorre S.S. sulla base di nove motivi.

Resiste con controricorso il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato.

L’ispettorato Centrale Repressione Frodi, ritualmente intimato, non ha svolto attività difensiva.

S.S. e il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dal Procuratore Generale, per la mancata esposizione sommaria dei fatti della causa prescritta dall’art. 366 c.p.c., n. 3, sostituita – dal ricorrente – dall’assemblaggio, mediante ricopiatura, degli atti dei giudizi di merito.

L’eccezione è fondata.

Com’è noto, l’art. 366 c.p.c., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di “forma-contenuto” dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio “modello legale” del ricorso per cassazione, la cui violazione è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso.

Con particolare riferimento al requisito della “esposizione sommaria dei fatti della causa” di cui l’art. 366 c.p.c., n. 3, va osservato che tale requisito è posto, nell’ambito del modello legale del ricorso, non tanto nell’interesse della controparte, quanto in funzione del sindacato che la Corte di cassazione è chiamata ad esercitare e, quindi, della verifica della fondatezza delle censure proposte. L’esposizione sommaria deve avere ad oggetto sia i fatti sostanziali sia i fatti processuali necessari alla comprensione dei motivi di ricorso.

Esiste pertanto un rapporto di complementarità tra il requisito della “esposizione sommaria dei fatti della causa” di cui n. 3 dell’art. 366 c.p.c., e quello – che lo segue nel modello legale del ricorso – della “esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione” (art. 366 c.p.c., n. 4), essendo l’esposizione sommaria dei fatti funzionale a rendere intellegibili, da parte della Corte, i motivi di ricorso e le censure mosse alla sentenza impugnata.

In altri termini, secondo il “modello legale” apprestato dall’art. 366 c.p.c., la Corte di cassazione, prima di esaminare i motivi, dev’essere posta in grado, attraverso una riassuntiva esposizione dei fatti, di percepire sia il rapporto giuridico sostanziale originario da cui è scaturita la controversia, sia lo sviluppo della vicenda processuale nei vari gradi di giudizio di merito, in modo da poter procedere poi allo scrutinio dei motivi di ricorso munita delle conoscenze necessarie per valutare se essi siano deducibili e pertinenti; valutazione – questa – che è possibile solo se chi esamina i motivi sia stato previamente posto a conoscenza della vicenda sostanziale e processuale in modo complessivo e sommario, mediante una “sintesi” dei fatti che si fondi sulla selezione dei dati rilevanti e sullo scarto di quelli inutili.

Perciò, il difensore che redige il ricorso per cassazione – che, per legge, dev’essere un professionista munito di quella particolare specializzazione attestata dalla sua iscrizione nell’albo speciale dei patrocinanti in Cassazione – deve procedere ad elaborare autonomamente “una sintesi della vicenda fattuale e processuale”, selezionando i dati di fatto sostanziali e processuali rilevanti (domande, eccezioni, statuizioni delle sentenze di merito, motivi di gravame, questioni riproposte in appello, etc.) in funzione dei motivi di ricorso che intende formulare, in modo da consentire alla Corte di procedere poi allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, che le consenta di cogliere agevolmente il significato delle censure, la loro ammissibilità e la loro pertinenza rispetto alle rationes decidendi della sentenza impugnata.

L’esposizione sommaria dei fatti della causa, per essere funzionale alla comprensione dei motivi, dev’essere “sintetica”, come si evince dal richiamo al suo carattere “sommario”, già preteso dal codificatore del 1940.

La “sintesi” degli atti processuali costituisce oggi un vero e proprio “valore”, che va assumendo importanza crescente nell’ordinamento italiano. Basti pensare a quanto previsto dall’art. 3, n. 2, del codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104), con riferimento all’obbligo di redigere gli atti “in maniera chiara e sintetica”; basti pensare al ruolo sempre maggiore assegnato – con riguardo ai provvedimenti del giudice – all’ordinanza decisoria, motivata in modo “succinto” e “conciso” (art. 134 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c.), rispetto alla sentenza; basti pensare, infine, al protocollo d’intesa tra la Corte di cassazione e il Consiglio Nazionale Forense sottoscritto il 17.2.2015 (non applicabile tuttavia al presente ricorso ratione temporis), laddove si è convenuto che l’esposizione sommaria dei fatti debba essere contenuta nel limite massimo di cinque pagine.

Se – come si è detto – l’esposizione sommaria dei fatti è complementare e funzionale alla comprensione dei motivi, spetta al difensore che formula i motivi il compito di elaborare l’esposizione sommaria dei fatti in funzione dei motivi.

Perciò, il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa non può ritenersi osservato tramite la mera e passiva riproduzione della sentenza impugnata, allorchè quest’ultima non contenga la descrizione dello svolgimento del processo, nè una chiara esposizione dei fatti sostanziali e processuali (cfr., Cass., Sez. 6 – 3, n. 21137 del 16/09/2013); a maggior ragione ora che il nuovo testo dell’art. 132 c.p.c., n. 4 (come modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 17) non prescrive più che la sentenza debba contenere “la concisa esposizione dello svolgimento del processo”, limitandosi a prescrivere che essa contenga “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

Quel che è certo è che l’onere di esporre i fatti della causa in modo sommario e sintetico non può ritenersi assolto quando il ricorrente si limita a ricopiare nel ricorso, integralmente e per intero, gli atti dei giudizi di merito (cfr. Cass., Sez. 1, n. 21750 del 27/10/2016, secondo cui l’esposizione “sommaria” dei fatti di causa deve contenere il necessario e non il superfluo, sicchè è inammissibile il ricorso con il quale il ricorrente, senza una sintesi riassuntiva finale, si limiti a trascrivere il testo integrale di tutti gli atti di causa, rendendo particolarmente complessa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo lo scopo della disposizione, la cui finalità è agevolare la comprensione della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, in immediato coordinamento con i motivi di censura).

In proposito, va osservato che un’esposizione dei fatti assemblata, frutto della mera ricopiatura degli atti processuali e priva di qualsiasi sintesi e messa a fuoco della vicenda processuale da parte del difensore, equivale a sottoporre alla Corte l’intero fascicolo processuale o parte di esso e tradisce la ratio della prescrizione legislativa di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3.

In tal modo, infatti, non solo si scarica sulla Corte un’opera di selezione dei dati rilevanti della vicenda sostanziale e processuale che non le compete, ma si priva la Corte medesima di quella chiave di lettura dei fatti che solo il ricorrente è in grado di fornire in relazione ai motivi di ricorso formulati, col rischio di esporre i motivi alla declaratoria di inammissibilità anche per difetto di specificità (cfr., Cass., Sez. 6 – 1, n. 22185 del 30/10/2015, secondo cui è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione confezionato mediante l’assemblaggio di parti eterogenee del materiale di causa quando ciò renda incomprensibile il mezzo processuale, perchè privo di una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, addossando in tal modo alla S.C. il compito, ad essa non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti ai fini del decidere; e Cass., Sez. 5, n. 18363 del 18/09/2015, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la tecnica di redazione mediante integrale riproduzione di una serie di documenti si traduce in un’esposizione dei fatti non sommaria, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, e comporta un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza, sicchè è sanzionabile con l’inammissibilità, a meno che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dall’atto processuale, la cui autosufficienza, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi).

Sul punto, si sono pronunciate anche le Sezioni Unite di questa Corte, statuendo che la prescrizione contenuta nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, nè accenni all’oggetto della pretesa, ma si limiti ad allegare, mediante “spillatura” al ricorso, l’intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura (Cass., Sez. U, n. 16628 del 17/07/2009). Invero, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. (Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso articolato con la tecnica dell’assemblaggio, mediante riproduzione integrale in caratteri minuscoli di una serie di atti processuali: sentenza di primo grado, comparsa di risposta in appello, comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell’interruzione, sentenza d’appello ove mancava del tutto il momento di sintesi funzionale, mentre l’illustrazione dei motivi non consentiva di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi). (Cass., Sez. U, n. 5698 del 11/04/2012).

Orbene, nel caso di specie, il ricorrente, in luogo di una esposizione sommaria e sintetica dei fatti, si è limitato a ricopiare integralmente, nella prima parte del ricorso, una serie di atti processuali (opposizione all’ordinanza-ingiunzione, memoria di costituzione del resistente, note autorizzate della parte ricorrente, memorie conclusive del ricorrente, atto di citazione in appello, comparsa di costituzione della parte appellata, comparsa conclusionale dell’appellante, memoria di replica dell’appellata, sentenza di appello), omettendo qualsiasi sintesi della vicenda per cui è causa; l’assemblaggio dei detti atti ha occupato da p. 1 a p. 70 del ricorso, nel quale poi – con evidente sproporzione – solo ulteriori 22 pagine sono dedicate alla illustrazione dei nove motivi.

In tali condizioni (e considerato che l’esposizione dei fatti di causa non è desumibile neppure dall’illustrazione dei motivi), alla stregua delle ragioni e dei principi di diritto dianzi evidenziati deve ritenersi che il ricorrente non ha assolto l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3; dal che l’inammissibilità del ricorso.

2. – Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

3. – Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto dopo il 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

 

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 (settemila) per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2017

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