Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18271 del 25/07/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. II, 25/07/2017, (ud. 02/03/2017, dep.25/07/2017),  n. 18271

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20809-2012 proposto da:

CONTROFORMA SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA XX SETTEMBRE, 98/G, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

TRILLO’, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

LORENZO ROSSI;

– ricorrente –

contro

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 2,

presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GRAZIANO DAL MOLIN;

– controricorrente e ric. incidentale –

contro

CONTROFORMA SRL IN LIQUIDAZIONE elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA XX SETTEMBRE, 98/G, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

TRILLO’, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

LORENZO ROSSI;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 82/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 17/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato TRILLO’ Antonio difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento delle difese in atti;

udito l’Avvocato DEL MOLIN Graziano difensore del resistente che ha

chiesto di riportarsi agli scritti in atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale per quanto di ragione con particolare riferimento ai

primi due motivi e per il rigetto del ricorso incidentale.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

1. C.C. propose appello avverso la sentenza numero 9121/2007 del Tribunale di Milano, con la quale, in parziale accoglimento dell’opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore della s.r.l. Controforma, condannò l’opponente a corrispondere all’opposta l’ammontare di Euro 197.101,66, corrispettivo delle opere di ristrutturazione di un fabbricato.

L’appellata, a sua volta, chiese la reiezione del gravame, nonchè l’accoglimento dell’appello dalla medesima avanzato in via incidentale.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 17 gennaio 2012, confermando nel resto la statuizione di primo grado, dispose l’integrale compensazione delle spese anche di primo grado.

Conviene, tenuto conto del perimetro decisorio di legittimità, in relazione alla molteplicità delle critiche che oggi vengono mosse in questa sede, riprendere in estrema sintesi i punti decisori della sentenza d’appello.

In primo luogo la Corte locale liquida come non congruenti con le argomentazioni esposte nella sentenza appellata le osservazioni dell’appellante, il quale aveva fatto rilevare che i lavori di ristrutturazione avevano riguardato sia le parti comuni, del quale erano comproprietari, oltre all’appellante, D.M., amministratore unico della società appellata, nonchè nipote del C. R.A.M., madre del D. e sorellastra del C., sia quelle di proprietà esclusiva dei predetti C., R. e D. e che erano stati pattuiti due preventivi, recanti importi assai inferiori al preteso. Di poi, le osservazioni mosse alla CTU, che secondo l’appellante non aveva considerato che tutta una serie di opere andava ritenuta ricompresa nei preventivi, erano state giudicate generiche. Quanto poi alla prospettazione del danno patito da perdita di chance d’agevolazione fiscale, la Corte meneghina assumeva l’infondatezza dell’asserto, ritenendo che il Tribunale, entrato nel merito della prospettazione, l’avesse respinta con motivazione condivisibile. Quanto, infine, alla doglianza secondo la quale il Tribunale non aveva tenuto conto della ripartizione in quota millesimale del costo dei lavori, osservava la Corte territoriale che il C. non aveva tempestivamente indicato quale fosse, in ipotesi, la parte dell’immobile di sua esclusiva proprietà e quali quelle comuni e quale, la ripartizione millesimale interna di queste ultime.

L’appello incidentale veniva disatteso sulla base degli argomenti di cui appresso: andava condivisa l’opinione del giudice di primo grado, il quale aveva disatteso la richiesta di liquidazione dei costi relativi a parcelle di professionisti, in quanto non era stata fornita prova adeguata a riguardo della congruità degli importi richiesti, mancando il parere del consiglio dell’ordine di appartenenza e non essendo stato raggiunto un accordo tra le parti; correttamente non era stato riconosciuto maggior danno, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, in quanto la Controforma non aveva diritto ad esso incremento per il solo fatto di rivestire la qualifica di imprenditore; la pretesa di vedersi liquidata l’IVA, infine, per il Giudice di secondo grado era stata correttamente rigettata, in quanto la predetta imposta “non rappresenta un costo per la Controforma, potendo quest’ultima, come società, detrarre l’imposta da quella dovuta all’Erario per le operazioni da essa effettuate”.

Avverso la sentenza d’appello propone ricorso per cassazione la Controforma, illustrando quattro motivi di doglianza.

Resiste con controricorso il C., il quale, a sua volta, avanza ricorso incidentale, corredato da cinque motivi di doglianza e ulteriormente illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1224 c.c., comma 2, in quanto la Corte territoriale, nonostante che la Controforma avesse domandato, e riproposto con l’appello incidentale, la condanna della controparte a ristorarla della perdita della rivalutazione monetaria della somma dovuta, aveva disatteso la richiesta, assumendo trattarsi di un ammontare non dovuto, non essendo bastevole a dimostrare l’esistenza del pregiudizio la qualifica di imprenditore, occorrendo la prova specifica del maggior danno patito ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2. Una tale prospettazione, conclude la ricorrente, deve stimarsi erronea, in quanto contrastante con l’uniforme interpretazione di legittimità, avviata dalle Sezioni Unite con la sentenza numero 19499 del 2008.

La doglianza è infondata.

L’evocata sentenza (S.U. n. 19499, 16/7/2008, Rv. 604419), alla quale hanno fatto seguito numerose altre statuizioni di legittimità, condivisamente afferma che nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva.

Tuttavia, il danno da svalutazione monetaria non è “in re ipsa” ma deve essere provato dal creditore, quantomeno deducendo e dimostrando che il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato di durata annuale è stato superiore, nelle more, agli interessi legali (in tal senso Sez. 5, n. 11943, 10/6/2016, Rv. 640142). Nel caso di specie la evenienza condizionante il fondamento della pretesa neppure consta essere stata specificamente e concretamente addotta.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 1,3,4,8 e 19.

La Corte locale aveva così motivato il rigetto della domanda afferente all’IVA gravante sulle prestazioni: “deve altresì essere respinta la domanda di Controforma di condanna del C. al pagamento dell’IVA sulle somme liquidate dal Tribunale: l’IVA infatti rappresenta un costo per la Controforma potendo quest’ultima, come società, detrarre l’imposta da quella dovuta all’Erario per le operazioni da essa effettuate (il pagamento in favore della Controforma da parte del soccombente dell’IVA finirebbe invero per tradursi in un indebito arricchimento, poichè la Controforma si vedrebbe corrispondere l’IVA una prima volta dal soccombente e una seconda volta dall’Erario in sede di recupero attraverso la detrazione)”. La esposta motivazione, chiarisce la ricorrente, rivela la radicale erronea ricostruzione dei meccanismi tributari posti alla base del D.P.R. n. 633 del 1972. Il soggetto che cede beni o presta servizi nell’ambito di un’attività di impresa è tenuto a gravare il prezzo od il compenso dell’aliquota IVA stabilita dalla legge, da porsi a carico dell’acquirente o del fruitore e periodicamente, come prevede il citato art. 19, portata in detrazione le somme dal medesimo corrisposte, a titolo d’IVA, ai propri fornitori o prestatori servizio, dovrà versare all’Erario il residuo. Ciò posto non è dubbio, precisa la Controforma, che avendo la medesima emesso fatture nei confronti della controparte e perciò avendo dovuto conteggiare in favore dell’Erario l’IVA specificata in esse, alla medesima non poteva negarsi diritto di pretendere dal committente il versamento di quanto dovuto a titolo di IVA.

Con il successivo motivo, sempre in relazione al medesimo punto, la Controforma lamenta vizio motivazionale su un fatto controverso e decisivo, stante che “la motivazione appare contraddittoria in quanto se da un lato la sentenza riconosce che la società Controforma deve incassare l’IVA per le operazioni effettuate per poi versarla allo Stato in adempimento agli obblighi di legge di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, dall’altro assume che per il caso di specie l’IVA non costituirebbe un costo in quanto si tratterebbe di un importo da portare in detrazione dall’Iva dovuta all’erario”.

Entrambi i motivi, osmotici fra loro, sono palesemente fondati.

La Corte di Milano, ricostruendo in forma bizzarra ed oscura il sistema dell’imposta sul valore aggiunto, ha radicalmente violato le norme evocate.

Per ragioni di necessaria sintesi è bastevole ricordare che con la predetta imposta, introdotta con la riforma del ‘72, si è inteso tassare, con una imposta che, in definitiva si scarica sul consumatore finale, il valore aggiunto, cioè l’arricchimento di qualitàí caratteristiche, funzionalità di un bene (che, passando, da una fase lavorativa all’altra, attraverso una pluralità di imprese si arricchisce di valore, anche contribuendo a dar vita ad un oggetto nuovo e complesso); arricchimento che può anche derivare dalla prestazioni di servizi. Il soggetto IVA, obbligato a tenere le registrazione previste dalla legge, funge da sostituto d’imposta: sottopone ad IVA la cessione di beni o la prestazione di servizi rese a terzi e compensa, cioè porta in detrazione, l’imposta che, a sua volta, egli ha dovuto corrispondere per aver acquistato beni o goduto di servizi, essendo tenuto a versare all’Erario la differenza (ovviamente, nel caso in cui l’IVA pagata sopravanzi quella fatta pagare il soggetto sarà creditore dell’Erario).

In conclusione non è dubbio che la ricorrente abbia diritto al riconoscimento dell’IVA sui compensi effettivamente spettanti, nel mentre il meccanismo della detrazione, sopra in estrema sintesi spiegato, non interferisce affatto con un tale diritto. Peraltro, è appena il caso di soggiungere, che l’emissione della fattura, salvo talune eccezioni prevedute dalla legge tributaria, prescinde dal momento dell’effettivo pagamento da parte dell’acquirente o del fruitore del servizio, con la conseguenza che, pur in presenza di inadempimento da parte di quest’ultimo il soggetto IVA è tenuto a riconoscere in favore dell’Erario la posta dell’Iva, pur non avendola ancora di fatto riscossa.

3. Con il quarto motivo la ricorrente allega vizio motivazionale in punto di liquidazione delle spese legali.

La Corte milanese aveva statuito “la parziale soccombenza giustifica la integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio. La sentenza impugnata che invece ha condannato il C. a pagare a favore della Controforma i 2/3 delle spese del procedimento va dunque riformata sul punto”. La esposta motivazione viene giudicata contraddittoria dalla ricorrente “in quanto estende all’esito del giudizio di primo grado gli effetti di una reciproca soccombenza limitata al secondo grado di giudizio”, La quale prosegue affermando che “il giudizio di secondo grado nulla ha mutato del giudizio di primo grado, ma, dando atto della reciproca soccombenza delle parti nel secondo grado, con un salto logico contraddittorio e quindi incomprensibile, ha travolto anche la liquidazione del giudizio di primo grado di cui ha dichiarato la compensazione delle spese sebbene controparte fosse stata condannata al pagamento di ben Euro 197.101,66”.

Stante l’epilogo, che impone annullarsi con rinvio la statuizione, la esposta censura resta assorbita.

4. Con il primo motivo del ricorso incidentale C.C. lamenta omessa motivazione su un fatto decisivo e controverso.

Con l’atto d’appello è stato fatto osservare che i lavori di ristrutturazione avevano riguardato un immobile del quale erano comproprietari, oltre al C., D.M., amministratore unico della società ricorrente e nipote del C., R.A.M., madre del D. e sorellastra del C. e perciò non era dato comprendere perchè fosse stato condannato al pagamento dell’intero il solo C.. Una tale allegazione, peraltro, trovava riscontro in plurimi emergenze processuali (la DIA, risultata poi irregolare, era stata presentata dal solo D., il CTU aveva evidenziato irregolarità e vizi; il regolamento condominiale indicava la rispettiva quota millesimale di ciascun proprietario). La Corte territoriale aveva liquidato la censura con la immotivata affermazione secondo la quale i fatti rappresentati con l’appello non erano congruenti. Trattandosi di motivazione apparente, il ricorrente chiede la cassazione sul punto della decisione.

La censura è fondata.

Pur non potendosi negare al giudice di secondo grado la facoltà di consapevolmente condividere le scelte discrezionali operate da quello di primo grado, è da escludere che lo stesso possa liberarsi della doglianza attraverso una risposta che ha solo la parvenza del ragionamento motivazionale, che si riduce, come nel caso in esame, ad una insondabile asserzione.

La sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata “per relationem” ove il giudice d’appello, facendo proprie le – argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Sez. 1, n. 14786, 19/07/2016, Rv. 640759).

Qui, stante il tenore della risposta fornita dal giudice d’appello, non si è in grado di comprendere se lo stesso si sia correttamente rappresentato il senso della doglianza e se abbia la stessa messa in raffronto alla risposta motivazionale di primo grado, non evidenziando profili che consiglino revisione del primo giudizio. Ancor più evidente appare il vuoto motivazionale ove lo si raffronti con l’articolata e specifica censura mossa dalla parte, alla quale sarebbe stato necessario rispondere, pur se in sintesi, in forma specifica e comprensibile.

5. Con il secondo motivo incidentale il C. denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., per non essere stata accolta istanza di rinnovazione della CTU, nonostante che nel secondo motivo d’appello fosse stata contestata la presenza di voci non incluse nel preventivo e di altre addebitate al solo appellante.

La norma processuale richiamata appare evocata a sproposito: la decisione di procedere alla rinnovazione della CTU costituisce espressione del potere di discrezionale apprezzamento del giudice di secondo grado e l’aver optato per la soluzione negativa non implica affatto denegazione di giustizia su una parte della domanda, la quale, ovviamente, altro non è che la pretesa sostanziale fatta valere.

Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., ed è rilevante ai fini di cui all’art. 360, n. 4 stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Sez. U, n. 15982, 18/12/2001, Rv. 551222 – 01; Sez. 3, n. 3357, 11/02/2009, Rv. 606517 – 01).

6. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale prospetta la violazione degli artt. 1659 e 2697 c.c., nonchè vizio motivazionale su un fatto controverso e decisivo.

Assume il ricorso che nessuna somma ulteriore rispetto a quanto pattuito nei preventivi avrebbe potuto essere corrisposta alla società appaltatrice, a mente dell’art. 1659 c.c. il quale al terzo comma prevede che, pur in presenza di modificazioni autorizzate, ove il prezzo sia stato determinato globalmente, come nel caso, null’altro è dovuto all’impresa.

La censura va disattesa in quanto non autosufficiente: questa Corte, infatti, potendo accedere solo agli atti consentiti (la sentenza gravata e gli atti di parte confezionati per il giudizio di legittimità) non è in alcun modo in grado di vagliare la prospettazione, implicante la conoscenza di plurimi atti di merito.

7. Con il quarto motivo si denunzia la violazione dell’art. 2043 c.c., nonchè della L. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 7, comma 1; della L. n. 488 del 1999, art. 6, comma 15, lett. D, nonchè vizio motivazionale su un punto controverso e decisivo.

Secondo l’assunto impugnatorio la Corte milanese aveva errato nel negare il diritto al risarcimento del danno in favore del C., per non avere potuto godere delle agevolazioni fiscali previste in materia d’IVA (aliquota ridotta al 10%) e per non avere potuto usufruire della detrazione fiscale del 36% sull’imposta sui redditi delle persone fisiche, dovendosi addebitare a colpa della Controforma la mancanza delle necessarie autorizzazioni comunali. La decisione della Corte di merito sul punto era da ritenere frettolosa e non penetrante, a fronte della inappagante motivazione di primo grado.

La doglianza va disattesa.

La sentenza d’appello (pag. 3) ha rigettato la prospettazione in primo luogo disattendendo lo specifico del motivo d’appello, secondo il quale il Giudice di primo grado non era entrato nel merito, affermando che, al contrario, la sentenza di primo grado aveva rigettato la pretesa dopo averla compiutamente esaminata e, in secondo luogo, qualificando generico il motivo.

Il motivo di ricorso, riproponendo la primigenia doglianza, omette di prendere in considerazione, contrapponendovi ragionamento alternativo, la ratio decidendi della sentenza d’appello e, pertanto, non può che qualificarsi difettivo del requisito della specificità.

8. Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1117 c.c., nonchè vizio motivazionale in punto di valutazione delle risultanze della CTU; nonchè, infine, ultrapetizione.

Il C. si duole del fatto che, pur avendo, sin dall’inizio (citazione in opposizione) contestato l’utilizzo di una tabella millesimale mai accettata dai comproprietari e pur avendo indicato le tabelle valide da applicarsi (doc. 4 fasc. primo grado) era stato a lui addebitata una quota pari 701,4/1000, invece che di 525/1000 come stabilito dalle tabelle. Inoltre, nonostante che la stessa controparte avesse chiesto che gli si addebitasse lo speso per i lavori nella misura di 701,4/1000, era stato condannato a pagare l’intero, con la conseguenza che la decisione aveva statuito in ultrapetizione.

Infine, pur trattandosi di debito parziario (S.U. n. 9148, 8/4/2008, Rv. 602479), l’intero era stato inopinatamente richiesto al solo C..

La doglianza è fondata.

Risulta decisiva la circostanza che la controparte, aveva chiesto la corresponsione solo della quota millesimale di 701,4/1000 (pur contestata, come si è visto dal ricorrente) e, pertanto, non avrebbe potuto pronunziarsi condanna per l’intero in violazione dell’art. 112 c.p.c..

Inoltre, non appare logico e conforme all’art. 1117 c.c., porre a carico della parte l’onere di specificamente segnalare al CTU le parti comuni e quelle esclusive di un edificio condominiale, siccome si afferma in sentenza. Invero, trattasi di individuazioni discendenti dalla legge, apprezzabili dal CTU, per specifica competenza. Peraltro, laddove la sentenza abbia inteso addebitare al ricorrente un colpevole deficit informativo, plausibilmente ipotizzabile in presenza di peculiarità concrete, avrebbe dovuto farne specifica indicazione, non potendosi condividere l’asserto apodittico, sommario e frettoloso, secondo il quale “era onere del C. indicare tempestivamente, in sede di CTU, ovvero in sede di discussione dell’elaborato peritale, quali fossero in ipotesi le parti dell’immobile di sua esclusiva proprietà e quelle comuni e quale fosse la ripartizione “millesimale” interna di queste ultime”.

9. In ragione di quanto esposto la sentenza deve essere cassata con rinvio. Il Giudice del rinvio regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

rigetta, del ricorso principale, il primo motivo, accoglie il secondo ed il terzo e dichiara assorbito il quarto; rigetta, del ricorso incidentale, il secondo, il terzo ed il quarto motivo, accoglie il primo e il quinto motivo. Cassa e rinvia alla Corte d’appello di Milano, altra sezione, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA