Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18271 del 06/09/2011

Cassazione civile sez. II, 06/09/2011, (ud. 13/07/2011, dep. 06/09/2011), n.18271

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA VALPOLICELLA 12, presso lo studio dell’avvocato PROVINI

ANDREA, rappresentato e difeso dall’avvocato RUSSO FERNANDO;

– ricorrente –

contro

S.V., B.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 14/2005 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 21/01/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 3.10.97 B.A. citò al giudizio del Tribunale di Potenza C.R. e S.V., esponendo di avere con i medesimi stipulato, in data 19.6.95, un contratto di appalto relativo ad opere di edilizia agricola finanziate dalla Regione Basilicata, integrativo di quello originario del 6.5.94 intervenuto con il solo S., che non era stato in grado di adempierlo, in virtù del quale il C. si era impegnato a fornire materiali e attrezzature al predetto,con previsione di una penale di L. 10.000.000 per il caso di inadempimento, e l’istante a corrispondergli, quale corrispettivo per tale fornitura la somma di L. 90.000.000, cedendogli pro soluto con atto del 27.5.96 il credito per l’ottenuto finanziamento. Soggiungeva l’attore che anche il C. si era reso inadempiente, per cui aveva comunicato ad entrambi i convenuti, con lettera del 26.5.96, la propria volontà di risolvere il contratto, diffidando il suddetto dall’incassare il credito Su tali premesse, chiese dichiararsi la risoluzione del contratto per inadempimento di entrambi i convenuti, con condanna al pagamento della penale, al risarcimento dei danni e, quanto al C., alla restituzione di L. 90 milioni incassati dalla Regione.

Si costituiva il solo C., chiedendo il rigetto delle suddette domande ed, in via riconvenzionale, il saldo del corrispettivo ed il risarcimento dei danni.

Con sentenza del 28.1-9.2.00, nella contumacia del S., l’adito tribunale respinse le reciproche domande.

Ma a seguito dell’appello del B., resistito dal C. contumace il S. la Corte di Potenza, dopo aver disposto ed espletato il libero interrogatorio delle parti, con sentenza del 30.12.04, depositata il 21.1.05, in accoglimento del gravame pronunziò la risoluzione del contratto per inadempimento dei convenuti e condannò il C. alla restituzione della somma di Euro 46.481,12 ed alla penale di Euro 5.164,57, con gli interessi legali dalla domanda, oltre al rimborso all’attore delle spese del doppio grado di giudizio, dichiarando compensate quelle tra il suddetto ed il S..

La corte lucana, premesso che era risultata documentalmente provata la sussistenza della fonte dell’obbligazione dedotta in giudizio, costituita dal contratto di appalto, e che ai convenuti sarebbe spettato provare, a fronte dell’avversa domanda di risoluzione, il proprio adempimento, osservava che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, tale prova non era stata fornita e, per di più, sussistevano elementi comprovanti il contrario.

In particolare, mentre vi era stata, in sede di libero interrogatorio, ammissione da parte del C. di aver incassato l’importo del finanziamento, il medesimo non aveva provato di aver fornito i materiali e le attrezzature, al cui acquisto avrebbe dovuto secondo contratto provvedere “immediatamente”, al S., il quale a sua volta avrebbe dovuto eseguire i lavori entro il 5.7.95. Nè a tal fine poteva ritenersi sufficiente la circostanza che nella delibera regionale del 30.12.96 vi fosse riferimento alla “regolare avvenuta esecuzione delle iniziative a suo tempo approvate”, trattandosi di un elemento presuntivo scarsamente significativo, superato da precise risultanze documentali. Queste erano costituite dalle diffide inviate dal B., tra cui l’ultima del 24.4.96, richiamante le precedenti ed intimante al S. di portare a termine i lavori ed al C. di consegnare i materiali e le attrezzature a tal fine occorrenti, seguita dalla lettera del successivo 20/5, con la quale era stata significata la risoluzione del contratto, cui si erano aggiunti una consulenza stragiudiziale giurata e, successivamente in grado di appello (ma ammissibilmente ex art. 345 c.p.c., trattandosi di prove precostituite) un verbale di consistenza (sottoscritto anche dal S.), rispettivamente attestanti la mancata esecuzione di lavori per oltre L. 40.000.000 lire e l’omessa installazione di attrezzature per L. 62.500.000, nonchè una fattura, per l’installazione e posa in opera di attrezzature per l’importo di L. 66.768.000, rilasciata all’attore da una terza ditta al riguardo incaricata.

Avverso la suddetta sentenza il C. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati B. e S..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 c.c. e segg., artt. 1372 e 1453 cod. civ., censurando le asserite “sviste interpretative ed applicative delle norme codicistiche di riferimento ” in cui i giudici di appello sarebbero incorsi, segnatamente: a) non cogliendo la particolarità della complessa vicenda, caratterizzata da distinte fattispecie contrattuali, costituite dal contratto di appalto del 1994 con cui il B. aveva affidato al S. l’esecuzione dei lavori assistiti da finanziamento regionale, dal contratto, integrativo del primo, intervenuto tra i suddetti ed il C., con il quale quest’ultimo si impegnava a trasferire al secondo i materiali e le attrezzature, ottenendo dal primo quale controprestazione la cessione pro soluto del credito relativo al finanziamento, e dal contestuale atto di cessione di tale credito verso la Regione Basilicata; b) non tenendo conto dell’autonomia negoziale della cessione suddetta e della sua natura di negozio giuridico “a causa variabile”, nè che la stessa, in quanto negozio ad effetti reali, aveva determinato all’atto del consenso il trasferimento della titolarità del credito dal cedente al cessionario; c) commettendo, così, il conseguente errore di aver condannato il C., per effetto della risoluzione del contratto d’appalto tra il B. ed il S., per inadempimento del secondo, alla restituzione al primo della somma corrispondente al credito ceduto pro soluto, senza anche pronunziare la risoluzione della cessione, in mancanza della quale detto credito, stante l’autonomia del negozio e l’estraneità del cessionario a quello di appalto, era rimasto nella “sfera giuridica del cessionario”; d) non considerando che l’assunzione del rischio di insolvenza della debitrice ceduta (la Regione Basilicata) da parte del cessionario C., cui aveva fatto “da contraltare la presa in carico da parte del cedente B. del rischio di insolvenza del cessionario in termini di inadempimento del contratto di compravendita delle attrezzature (in favore del committente S.), rispetto al quale contratto di compravendita degrada …a mero esecutore materiale del corrispettivo (sub specie d i cessione del credito) …”, avrebbe potuto comportare la condanna del C. soltanto al pagamento della penale, di L. 10 milioni, prevista nel contratto integrativo “per il caso in cui l’operazione negoziale complessiva non avrebbe avuto buon esito” e non anche alla restituzione dei 90 milioni del credito ceduto, che avrebbe dovuto passare “attraverso la risoluzione non già dell’appalto bensì della cessione”, costituente quest’ultima il “corrispettivo di una compravendita, peraltro neppure oggetto di risoluzione, rispetto a cui …” il C. non era “parte nè in senso formale nè in senso sostanziale, ma puro e semplice esecutore materiale del pagamento”. Le censure non meritano accoglimento.

La Corte d’Appello, sulla base di una implicita, ma evidente, considerazione unitaria della complessa fattispecie negoziale, che il ricorrente tenta di frazionare in una pluralità di rapporti distinti, senza tenere conto del palese nesso di interdipendenza funzionale che li avvince, è pervenuta alla pronunzia risolutoria sul rilievo, rimasto inconfutato, che sia il S., sia il C., non avevano adempiuto (o comunque non avevano assolto al relativo onere probatorio su di loro incombente) ai rispettivi impegni assunti nei confronti del B.. La coesistenza nello stesso contratto sia di un rapporto appalto, sia di una compravendita, nell’ambito della quale la cessione del credito assolveva ad una funzione solutoria anticipata, e la circostanza che la fornitura dei materiali e delle attrezzature, in virtù del secondo, fosse finalizzata alla esecuzione del primo, sono state correttamente considerati elementi tali da conferire al committente attore la facoltà di chiedere la risoluzione non solo dell’appalto, ma anche della compravendita, nei confronti di entrambe le controparti.

Che queste ultime fossero ciascuna obbligataci confronti dell’attore, all’adempimento sia dell’una, sia dell’altra delle connesse prestazioni, lungi dal risultare escluso, resta invece confermato dal tenore del contratto (che il ricorrente ha integralmente trascritto nella narrativa del ricorso), in particolare dalle clausole contenute nell’art. 4 (nella parte prevedente la facoltà del committente di chiedere, in caso di inadempienza del S., l’ultimazione delle opere da parte del C.) e nell’art. 6 ( contenente la previsione di una penale a favore del B., ed a carico del C., per il caso di mancata “fornitura immediata” dei materiali e delle attrezzature).

Tale essendo la complessa fattispecie negoziale dedottala pronunzia risolutoria, pur letteralmente menzionante il solo contratto “di appalto”, e tuttavia completata dalla dizione “stipulata tra le parti il 19 giugno 1995” e dalla precisazione che la risoluzione veniva pronunziata “per colpa degli appellati” indistintamente, non del solo S., deve intendersi omnicomprensiva; sicchè priva di fondamento risulta la censura, secondo cui, in mancanza della “risoluzione preventiva del contratto di compravendita”, la condanna del C. alla restituzione del prezzo, costituito dall’importo del credito cedutogli, sarebbe rimasta priva di giustificazione. Tale condanna, non diversamente da quella (non censurata) del pagamento della penale (necessariamente implicante l’accertamento dell’inadempienza del suddetto convenuto all’obbligazione derivante dalla compravendita), trova invece corretta giustificazione nel venir meno della causale del pagamento de quo, per effetto della contestuale pronunzia risolutoria che, investendo tutti i rapporti instaurati con l’unico contrattola travolto anche quello di compravendita, rendendo indebito il pagamento.

Conclusivamente il ricorso, in assenza di alcuna violazione o falsa applicazione delle citate disposizioni codicistiche in tema di cedibilità dei crediti, di efficaca del contratto e risoluzione dello stesso, non può che essere respinto. Nulla sulle spese, in assenza di controparti resistenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2011

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