Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18264 del 08/07/2019

Cassazione civile sez. un., 08/07/2019, (ud. 07/05/2019, dep. 08/07/2019), n.18264

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di Sez. –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2227-2019 proposto da:

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA QUIRINO

MAIORANA 9, presso lo STUDIO LEGALE FAZZARI, rappresentato e difeso

dall’avvocato AURORA NOTARIANNI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato per legge in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– controricorrente –

e contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 196/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 22/11/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/05/2019 dal Consigliere LUCIA TRIA;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale

SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati Aurora Notarianni ed Angelo Vitale per

l’Avvocatura Generale dello Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A seguito di indagini preliminari della Procura della Repubblica di Catania sulle condotte criminose poste in essere dagli appartenenti all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” riguardanti, tra gli altri, anche il Dott. L.G. – dapprima in relazione al suo operato quale Sostituto Procuratore della Repubblica addetto alla DDA di Messina e, successivamente, quale Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia presso la DNA – al L. sono stati contestati plurimi reati, indicati in sei capi di imputazione (poi divenuti sette), relativi ad epoca antecedente e successiva al 14 gennaio 1994.

2. Per tali reati si è svolto un lungo processo, conclusosi solo di recente con la sentenza della Corte di cassazione 22 marzo 2018, n. 27725 che ha respinto i ricorsi degli imputati, tra i quali l’incolpato, rendendo così definitivo il complesso delle statuizioni derivanti dalle sentenze di primo e secondo grado già emesse dal Tribunale di Catania e dalla Corte di appello di Catania, anche a seguito di un precedente annullamento da parte della Corte di cassazione con giudizio di rinvio svoltosi dinanzi alla Corte di appello di Catania la quale, con sentenza del 10 febbraio 2017, aveva riformato l’originaria sentenza di primo grado in relazione alla qualificazione giuridica del primo capo di imputazione, confermando l’esclusione dell’aggravante del “metodo mafioso” per il reato previsto dall’art. 378 c.p. e aveva dichiarato la prescrizione per tutte le ipotesi di reato oggetto di appello diverse sia dal secondo capo di imputazione (per il quale la pronuncia di prescrizione era già definitiva) sia dal sesto capo di imputazione per il quale l’assoluzione era già passata in giudicato.

3. Pertanto con la citata sentenza n. 27725 del 2018 della Corte di cassazione è diventata definitiva la dichiarazione dell’intervenuta prescrizione di tutti i reati contestati, a parte tale ultima assoluzione che già lo era.

4. In sede disciplinare il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, con istanza del 22 marzo 2000, domandò la sospensione del Dott. L. dalle funzioni e dallo stipendio, salvo l’assegno alimentare, rilevando che il 19 marzo 2000 il L. era stato raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere adottata dal GIP presso il Tribunale di Catania il precedente 18 marzo, sicchè nei suoi confronti si applicava obbligatoriamente anche la misura cautelare disciplinare della sospensione prevista dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 31, comma 1, vigente all’epoca.

5. Con ordinanza del 24 marzo 2000, la Sezione disciplinare ha emesso il relativo provvedimento.

6. Il 15 luglio 2000 il medesimo GIP, dopo aver disposto il rinvio a giudizio immediato del L., revocò la misura cautelare in sede penale per cessazione delle relative esigenze cautelari.

Di conseguenza sia il PG presso la Corte di cassazione sia il Ministro della Giustizia chiesero la sostituzione della sospensione dalle funzioni c.d. “di diritto” (nei confronti del magistrato sottoposto a misura cautelare detentiva) con la misura della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio c.d. “provvisoria”, prevista dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 30 vigente all’epoca dei fatti.

7. La Sezione disciplinare applicò detta misura cautelare disciplinare con ordinanza del 3 ottobre 2000.

Tale provvedimento “provvisorio”, per effetto della normativa applicabile ratione temporis, non è mai stato revocato prima del collocamento a riposo dell’incolpato, avvenuto il 19 luglio 2015 per raggiunti limiti di età (come disposto con D.M. 29 luglio 2015).

8. Il procedimento disciplinare ebbe inizio con contestazione del PG della Corte di cassazione del 27 marzo 2000 modificata – in conseguenza degli sviluppi del procedimento penale – con richiesta dello stesso PG del 26 giugno 2001, nella quale si definivano i capi di incolpazione, sostanzialmente facendosi riferimento ai capi di imputazione per i quali si era proceduto a giudizio immediato davanti al Tribunale di Catania.

Il giudizio di merito disciplinare veniva sospeso una prima volta in data 18 gennaio 2002 per la pendenza del processo penale.

A seguito della parziale definizione del processo penale con la sentenza del 21 ottobre 2014 della Corte di appello di Catania e del collocamento a riposo del L. per raggiungimento dei limiti di età a decorrere dal 19 luglio 2015, il PG con istanza del 9 febbraio 2016 rinnovava la propria richiesta di discussione orale del processo disciplinare per “assumere le determinazioni consequenziali alla situazione suindicata”.

9. Dopo la fissazione dell’udienza di discussione, con ordinanza del 13 maggio 2016, la Sezione disciplinare ha nuovamente sospeso il giudizio disciplinare non essendosi ancora verificata la definizione del processo penale.

10. La suddetta ordinanza è stata impugnata dal Dott. L., ma da queste Sezioni Unite, con sentenza 16 dicembre 2016, n. 25971, è stata dichiarata l’inammissibilità del ricorso, non essendo l’ordinanza di sospensione del giudizio de qua ricorribile per cassazione.

11. A seguito della definizione della vicenda penale, con la citata sentenza n. 27725 del 2018 della Corte di cassazione, la Sezione disciplinare ha, a sua volta, definito il processo disciplinare con sentenza del 22 novembre 2018, n. 196 con la quale:

a) ha condannato il L. alla sanzione disciplinare della rimozione, ritenendolo responsabile dei primi sei illeciti disciplinari contestati corrispondenti ai capi di imputazione del giudizio penale e riprodotti, da ultimo, nella contestazione del 9 febbraio 2016 del PG;

b) ha assolto l’incolpato dal settimo capo di incolpazione, corrispondente al settimo capo di imputazione penale, per essere rimasto escluso l’addebito.

12. Preliminarmente la Sezione disciplinare ha affermato la procedibilità dell’azione disciplinare nonostante il collocamento a riposo del magistrato per raggiungimento dei limiti di età, pur mostrandosi consapevole dell’esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale la cessazione dell’appartenenza dell’incolpato all’ordine giudiziario determina la pronuncia di non luogo a procedere per il venir meno del presupposto del potere di accertamento dell’organo disciplinare, ossia l’appartenenza dell’incolpato all’ordine giudiziario al momento della pronuncia stessa.

12.1. Al riguardo la Sezione disciplinare ha sottolineato che, in pronunce recenti, le Sezioni unite hanno precisato che, pur quando viene meno l’appartenenza all’ordine giudiziario del magistrato già sottoposto alla misura cautelare disciplinare della sospensione (da funzioni e stipendio), restano comunque in discussione questioni che, ai fini della loro soluzione, postulano un definitivo accertamento della legittimità o meno della misura medesima.

12.2. Del resto, in linea di principio, la giurisprudenza formatasi in relazione alla causa di non luogo a procedere dovuta alla cessata appartenenza all’ordine giudiziario del magistrato individua, di norma, il motivo per il quale il procedimento disciplinare va concluso con una pronuncia di improcedibilità nella carenza dell’interesse dell’Amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, visto che tale interesse sussiste solo nell’ambito e per le finalità del rapporto di pubblico impiego.

12.3. Tuttavia, nel caso in esame, la Sezione disciplinare ritiene tale orientamento non applicabile poichè ne difetta il presupposto rappresentato dall’assenza di interesse dell’Amministrazione ad una pronuncia sul merito dei fatti contestati al L..

Si osserva al riguardo che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 23, comma 1, nello stabilire le conseguenze del proscioglimento in sede penale – in questo caso per estinzione dei reati per prescrizione ai sensi dell’art. 531 c.p.p., a parte la suddetta assoluzione per il magistrato sottoposto a procedimento penale che sia stato destinatario di un provvedimento di sospensione in via cautelare, dispone che il magistrato sia reintegrato “a tutti gli effetti” nella situazione anteriore, con riferimento quindi sia agli effetti giuridici che a quelli economici, fermo restando l’esito del merito del procedimento disciplinare, secondo quanto previsto dall’art. 23 cit., successivo comma 2.

Ne consegue che – nella presente particolare vicenda – il proscioglimento dell’incolpato per improcedibilità dell’azione disciplinare a causa della cessata appartenenza all’ordine giudiziario determinerebbe l’onere per l’Amministrazione di una ricostruzione complessiva, economica e giuridica, della carriera del L., fatti salvi gli effetti delle condotte eventualmente accertate nell’ambito delle autonome valutazioni della professionalità.

La protrazione, a seguito della misura cautelare applicata, di un trattamento economico ridotto – quindi – comporterebbe la necessaria corresponsione di cospicue differenze economiche, senza che l’Amministrazione possa valutare in alcun caso detti comportamenti del L., poichè l’Amministrazione medesima sarebbe comunque tenuta a corrispondere gli arretrati sulle retribuzioni percepite in misura ridotta, per il disposto di legge in materia di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, oltre agli ulteriori effetti in materia pensionistica del detto incremento retributivo.

12.4. La necessità di procedere a detta ricostruzione economica di carriera sussisterebbe anche qualora il Consiglio superiore della Magistratura non ritenesse di riconoscere all’incolpato le valutazioni di professionalità successive a quella propria del momento della sospensione e, segnatamente, se non riconoscesse la settima valutazione che ha significativi effetti economici (a differenza della sesta per la quale non è previsto un maggior stipendio). Il L., infatti, al momento della sospensione percepiva la retribuzione corrisposta attualmente al magistrato di quinta valutazione di professionalità, salve le riduzioni per la sospensione, quindi potrebbe chiedere la sesta e poi la settima valutazione (salva ogni valutazione di merito del Consiglio) qualora il procedimento si concludesse con una pronuncia di improcedibilità.

Ne deriva che l’interesse dell’Amministrazione alla conclusione del procedimento disciplinare nel merito nella specie sussiste pienamente sia sotto il profilo strettamente economico sia, in senso più ampio, sotto quello della valutazione delle condotte dell’incolpato, essendo stato il relativo giudizio impedito solo dalla sospensione del processo per la pendenza di quello penale e dal concomitante compimento dell’età per il collocamento a riposo da parte dell’incolpato.

Del resto, il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 118 richiamato dal R.D. n. 12 del 1941, art. 276, comma 3, prevede che, qualora nel corso del procedimento disciplinare il rapporto d’impiego cessi anche per dimissioni volontarie o per collocamento a riposo a domanda, il procedimento stesso prosegue agli effetti dell’eventuale trattamento di quiescenza e previdenza.

Si tratta di una disposizione compatibile con l’ordinamento giudiziario vigente ed applicabile al caso in esame, sussistendo anche ai fini previdenziali il pieno interesse dell’Amministrazione e dell’incolpato alla corretta ricostruzione della carriera ai fini previdenziali e del trattamento di fine servizio, poichè l’iter della carriera notoriamente influenza il trattamento di quiescenza.

13. Per le indicate ragioni, la Sezione disciplinare afferma che la questione preliminare, relativa alla procedibilità dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato per il quale il procedimento disciplinare sia stato sospeso per pregiudizialità penale, debba essere risolta in senso affermativo e che quindi, nella specie, le contestazioni debbano essere esaminate nel merito.

13.1. Sotto tale profilo si precisa, in primo luogo, che l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali di dichiarazione dell’estinzione dei reati per prescrizione pur non essendo vincolante in sede disciplinare va, nella specie, necessariamente valorizzato in quanto tutte le sentenze di merito (nella sostanza concordanti tra loro) sono giunte a conclusioni conformi quanto all’accertamento delle condotte contestate all’odierno incolpato, con la sola eccezione di un’assoluzione.

13.2. Il quadro probatorio che ne risulta è pienamente consolidato e tale da non consentire alcun tipo di ipotesi assolutoria mentre le prove di colpevolezza acquisite e riportate nelle dette sentenze ne fanno elementi pienamente utilizzabili in sede disciplinare secondo quanto previsto dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 34 nonchè dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 3 e art. 32-bis.

14. Alla luce delle suddette osservazioni la Sezione disciplinare ritiene di dovere applicare la sanzione della rimozione dall’ordine giudiziario, data la peculiare gravità delle condotte poste in essere dal L. che costituiscono la radicale violazione dei più elementari doveri deontologici del magistrato.

Si sottolinea che la specifica posizione dell’incolpato (in servizio prima presso la DDA e poi presso la DNA) avrebbe richiesto massima e specifica diligenza nell’adempiere ai propri compiti professionali, poichè la trattazione di procedimenti penali in materia di criminalità organizzata mafiosa è, notoriamente, un’attività di particolare delicatezza affidata a magistrati requirenti incardinati in specifiche articolazioni degli uffici territoriali (le Direzioni distrettuali antimafia) e, a livello nazionale, attribuite al coordinamento della Procura nazionale antimafia, presso la quale il L. era stato successivamente trasferito, venendo a svolgere le funzioni di coordinamento nazionale proprio nel distretto dal quale proveniva, ossia quello di Messina.

14.1. Alla suddetta mancanza di diligenza si è accompagnata l’assenza di qualsiasi consapevolezza dell’illiceità del proprio operato, non essendo emersi elementi di alcun tipo che possano contribuire a comprovare una, sia pur tardiva, resipiscenza per le condotte poste in essere ed i loro gravi effetti.

Pertanto, la conseguenza disciplinare non può che essere quella della sanzione massima, “posto che è di assoluta gravità l’aver commesso reati di favoreggiamento, abuso di ufficio, falso e minaccia per commettere un reato in favore di appartenenti ad associazioni mafiose quali “cosa nostra””.

14.2. La Sezione disciplinare, infine, precisa che la rimozione prevista dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 11 costituisce, ai sensi dell’art. 32-bis del medesimo decreto, sanzione più favorevole all’incolpato rispetto alla più grave sanzione massima della destituzione prevista dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 19, comma 1, n. 5 e art. 21, comma 7, poichè quest’ultima poteva comportare la perdita totale o parziale del trattamento di quiescenza. Detta conseguenza della sanzione principale non è più prevista per la rimozione, fatti salvi i suoi effetti sulla progressione ordinaria di carriera e sulla conseguente retribuzione posta a base del detto trattamento di quiescenza.

15. Il ricorso del dottor L.G., illustrato da memoria, chiede l’annullamento della suddetta sentenza per tre articolati motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I – Sintesi delle censure.

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1. Con il primo motivo si denunciano: a) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 20, art. 23, comma 1 e del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, art. 5; b) violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); c) estinzione del procedimento disciplinare quale effetto automatico del collocamento a riposo del magistrato; d) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato o da atto del processo specificamente indicato.

Si rileva che la Sezione disciplinare del CSM si è consapevolmente discostata dal consolidato orientamento delle Sezioni Unite – in base al quale il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età determina l’estinzione del procedimento disciplinare a carico del magistrato ed anche della misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio eventualmente disposta senza rendere note le ragioni di tale decisione.

Giustificazione ancor più necessaria nella specie, visto che il Dott. L. non è mai stato condannato in via definitiva per alcun reato, il suo rapporto di impiego si è estinto con la Delib. CSM che ne ha disposto il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età dal 19 luglio 2015 e la maggior parte dei reati addebitatigli si sono estinti per prescrizione mentre da un reato è stato assolto.

Inoltre, considerato che la durata di circa venti anni della sospensione del procedimento disciplinare a causa della pendenza del processo penale avrebbe potuto essere evitata dal CSM data l’assenza della pregiudizialità penale, si rileva che la Sezione disciplinare avrebbe dovuto farsi carico degli interessi patrimoniali dell’Amministrazione della Giustizia per aver scelto di non utilizzare la prestazione del magistrato – sebbene offerta – per un così lungo periodo di tempo.

Si sottolinea l’improprietà del riferimento al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 23, comma 1, per giustificare la tutela di tali pretesi interessi dell’Amministrazione visto che tale disposizione, nel disciplinare la cessazione degli effetti della sospensione disciplinare per proscioglimento in sede penale non contiene alcun riferimento, neppure indiretto, alla tutela degli interessi patrimoniali dell’Amministrazione.

Ne consegue che manca una base normativa della decisione, senza contare che la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha precisato che gli effetti di una sanzione disciplinare che attengono allo stato giuridico od al trattamento economico del magistrato non sono di pertinenza del Consiglio Superiore della Magistratura (Cass. SU 26 ottobre 2009, n. 22586).

1.2. Con il secondo motivo si denunciano: a) violazione, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 653 c.p.p. e al D.Lgs. n. 109 del 2006 e successive modificazioni, art. 20 che nel giudizio per responsabilità disciplinare attribuiscono efficacia di giudicato alla sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione o di condanna; b) violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); c) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato o da atto del processo specificamente indicato.

Si contesta la statuizione della Sezione disciplinare secondo cui l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali di proscioglimento per prescrizione, pur non essendo vincolante in sede disciplinare, va necessariamente valorizzato in quanto tutte le sentenze di merito (nella sostanza concordanti tra loro) sono giunte a conclusioni conformi quanto all’accertamento delle condotte contestate all’odierno incolpato, con la sola eccezione di un’assoluzione, per l’ultimo capo di imputazione/incolpazione.

Si sostiene che i fatti addebitati in sede disciplinare avrebbero dovuto essere tutti rivisitati, asseverati e valutati ex novo senza che ad unico supporto del Giudice disciplinare potesse essere utilizzato il materiale documentativo di cui alle sentenze penali, tanto più che si tratta di sentenze il cui esito finale è stata la dichiarazione di prescrizione dei reati.

1.3. Con il terzo motivo si denunciano: a) violazione, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c), d), in relazione all’art. 111 Cost., all’art. 6, commi 1 e 3 lett. d), CEDU nonchè al D.Lgs. n. 109 del 2006 e successive modificazioni, artt. 16, 17 e 18 che disciplinano in modo analitico l’attività della Sezione disciplinare del CSM ai fini della sentenza disciplinare e dell’irrogazione della sanzione; b) violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); c) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato o da atto del processo specificamente indicato.

Si rileva che al Dott. L. è stata applicata, tre anni dopo il collocamento a riposo, a massima sanzione prevista senza che sia stato posto in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa e, in particolare, senza che la Sezione disciplinare abbia proceduto ad un autonomo accertamento dei fatti tenendo conto delle prove allegate dall’incolpato al fine di pervenire ad un verdetto di sussistenza degli addebiti “oltre ogni ragionevole dubbio” nel pieno rispetto del D.Lgs. n. 109 del 2006 e delle regole del giusto processo.

II – Esame delle censure.

2. Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

3. In primo luogo deve essere affermata la correttezza della statuizione con la quale la Sezione disciplinare ha affermato la procedibilità, nella presente particolare fattispecie, dell’azione disciplinare nonostante il collocamento a riposo del L. per raggiungimento dei limiti di età, ritenendo non applicabile il consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale, in caso di cessazione dell’appartenenza dell’incolpato all’ordine giudiziario (per qualunque causa) non può essere adottato alcun provvedimento inerente l’azione disciplinare diverso dalla dichiarazione di estinzione del procedimento, in quanto sia per l’ex magistrato ricorrente che per l’Amministrazione di pregressa appartenenza “l’interesse alla prosecuzione del giudizio disciplinare” sussiste “soltanto nell’ambito e per le finalità del rapporto di pubblico impiego” (vedi, per tutte: Cass. SU 12 febbraio 2010, n. 3245; Cass. SU 1 dicembre 2010, n. 24304).

3.1. La medesima soluzione è stata applicata anche all’ipotesi di sopravvenuta cessazione dell’appartenenza all’ordine giudiziario del magistrato dei cui confronti sia stato emesso il provvedimento cautelare di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio (adottato dalla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ai sensi del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, artt. 30 o 31 come avvenuto nella specie) affermandosi che, in tal caso, si verifica la caducazione ex tunc della misura cautelare, sempre per il venir meno dell’interesse, sia per l’ex magistrato che per l’Amministrazione di pregressa appartenenza, alla prosecuzione del procedimento d’impugnazione. Ma tutto questo a condizione che il magistrato abbia proposto impugnazione avverso il provvedimento cautelare di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio (Cass. SU 20 luglio 1994, n. 6774).

Tale ultima evenienza qui non si verifica visto che non risulta che il L. abbia impugnato nè il provvedimento di sospensione “di diritto” dalle funzioni e dallo stipendio nè quello di sospensione dalle funzioni c.d. “provvisoria” emanato dopo la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, ex art. 30.

Infatti, il primo atto di impugnazione del L. è quello effettuato – dopo il collocamento a riposo – avverso l’ordinanza del 13 maggio 2016 con la quale è stata rinnovata la sospensione del giudizio disciplinare per non essersi ancora verificata la definizione del processo penale.

3.2. Di conseguenza può dirsi che la presente – peculiare vicenda risulta caratterizzata, per quanto interessa, da:

a) l’applicazione al procedimento disciplinare, ratione temporis, delle norme anteriori al D.Lgs. n. 109 del 2006, visto che è stato promosso con contestazione del PG della Corte di cassazione del 27 marzo 2000 modificata – in conseguenza degli sviluppi del procedimento penale – con richiesta dello stesso PG del 26 giugno 2001;

b) la sospensione “di diritto” (ai sensi del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 31, comma 1, vigente all’epoca) del Dott. L. dalle funzioni e dallo stipendio, salvo l’assegno alimentare, adottata dalla Sezione disciplinare del CSM, con ordinanza del 24 marzo 2000, in conseguenza dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere in data 18 marzo 2000 del GIP presso il Tribunale di Catania;

c) a seguito della revoca da parte del suindicato GIP della misura cautelare in sede penale, la sostituzione della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio c.d. “di diritto” con la misura della sospensione c.d. “provvisoria” prevista dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 30 disposta dalla Sezione disciplinare con ordinanza del 3 ottobre 2000, su richiesta sia del PG presso la Corte di cassazione sia del Ministro della Giustizia;

d) per effetto della normativa applicabile ratione temporis e in assenza di impugnativa al riguardo, la mancata revoca di tale ultimo provvedimento prima del collocamento a riposo dell’incolpato, avvenuto il 19 luglio 2015 per raggiunti limiti di età (come disposto con D.M. 29 luglio 2015);

e) la sospensione del giudizio di merito disciplinare disposta, una prima volta, in data 18 gennaio 2002, in quanto per la normativa all’epoca vigente, alla pendenza di un giudizio penale a carico di un magistrato conseguiva, obbligatoriamente, la sospensione del procedimento disciplinare già instaurato nei confronti del medesimo, in base all’art. 3 c.p.p. del 1930 richiamato dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 28 con un rinvio qualificato di natura recettizia e come tale comportante che il contenuto della disposizione richiamata doveva ritenersi parte integrante della norma richiamante, “indipendentemente dalla successiva abrogazione dell’intero codice penale di rito” (Cass. SU 27 maggio 1998, n. 5259);

f) il mantenimento del provvedimento cautelare, adottato con ordinanza del 3 ottobre 2000, nell’attesa della conclusione del procedimento penale, non incidendo la sospensione sulla riconducibilità del procedimento al sistema normativo in cui ha avuto inizio (Cass. SU 3 agosto 2009, n. 17903; Cass. SU 16 dicembre 2016, n. 25971);

g) a seguito della parziale definizione del processo penale con la sentenza del 21 ottobre 2014 della Corte di appello di Catania e del collocamento a riposo del L. per raggiungimento dei limiti di età a decorrere dal 19 luglio 2015, la reiterata richiesta del PG presso la Corte di cassazione di discussione orale del processo disciplinare per “assumere le determinazioni consequenziali alla situazione suindicata”;

h) l’emanazione da parte della Sezione disciplinare dell’ordinanza del 13 maggio 2016 con la quale è stato nuovamente sospeso il giudizio disciplinare, dopo la fissazione dell’udienza di discussione, in quanto il procedimento penale non si era ancora concluso;

i) la impugnativa di tale ultima ordinanza da parte del Dott. L. e la relativa dichiarazione di inammissibilità – per non ricorribilità per cassazione della suddetta ordinanza – disposta da queste Sezioni Unite, con sentenza 16 dicembre 2016, n. 25971;

l) la conclusione del procedimento penale avutasi – a diciotto anni di distanza dalla ordinanza di custodia cautelare in carcere del ricorrente in data 18 marzo 2000 del GIP presso il Tribunale di Catania – con sentenza della Corte di cassazione 22 marzo 2018, n. 27725 la quale, nel respingere i ricorsi degli imputati tra i quali l’incolpato, ha reso definitivo il complesso delle statuizioni derivanti dalle sentenze di primo e secondo grado già emesse dal Tribunale di Catania e dalla Corte di appello di Catania, consistente nella dichiarazione dell’intervenuta prescrizione di tutti i reati contestati, a parte l’assoluzione per il sesto capo di imputazione che già era passata in giudicato.

3.3. Il susseguirsi degli indicati elementi salienti della presente vicenda processuale ha comportato che un provvedimento “interinale”, come la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio disposta ai sensi del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 30 dalla Sezione disciplinare con ordinanza del 3 ottobre 2000 – destinato a produrre effetti provvisori fino all’emanazione di un provvedimento definitivo idoneo a sorreggere stabilmente il rapporto tra l’Amministrazione e il dipendente – sia rimasto privo di questo sbocco.

3.4. Questa peculiare situazione, certamente non ascrivibile alla Sezione disciplinare del CSM, è stata causata, da un lato, dalla mancata impugnazione dell’anzidetta ordinanza da parte dell’incolpato e, dall’altro lato, dalla lunghissima durata del processo penale, con applicazione al parallelo giudizio disciplinare della c.d. pregiudiziale penale, derivante dalla perdurante applicabilità ai procedimenti disciplinari iniziati prima della entrata in vigore del D.Lgs. n. 109 del 2006 dell’art. 3 c.p.p. 1930, per effetto del rinvio ricettizio a tale disposizione operato dal R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, art. 28 (senza che la disposta sospensione rilevi in contrario: Cass. S.U. n. 17903 del 2009).

3.5. Peraltro, non essendo ammissibile in base ai principi che regolano l’attività delle Pubbliche Amministrazioni (ivi compresa quella della Giustizia) che si possano “cristallizzare” gli effetti di un provvedimento interinale, è evidente che la Sezione disciplinare, una volta conclusosi il procedimento penale, era tenuta a sostituire il provvedimento di sospensione cautelare e l’assetto degli interessi da esso provvisoriamente determinato con un diverso titolo giuridico rispondente all’interesse dell’ordinamento al definitivo assetto dei rapporti giuridici (in questo senso, vedi per tutte: Cons. Stato, Ad. plen. 8 del 1997).

Altrimenti, ne sarebbe risultata una lesione del principio di “buon andamento dell’Amministrazione della giustizia”, desumibile dall’art. 97 Cost., comma 1, che, come affermato dalla Corte costituzionale, è applicabile anche all’organizzazione degli uffici giudiziari e quindi al Consiglio Superiore della Magistratura, al di là delle espressioni adoperate nell’art. 97 Cost., suddetto comma 1 (vedi, per tutte: Corte Cost. sentenza n. 86 del 1982 e, in senso conforme, sentenza n. 18 del 1989).

Il Giudice delle leggi ha, in particolare, precisato che ad escludere la suddetta applicabilità non potrebbe valere la duplice circostanza: a) dell’inserimento dell’art. 97 Cost. in una sezione della Carta costituzionale che s’intitola alla pubblica amministrazione, per la quale “buon andamento” ed “imparzialità” si prestano ad assumere significati del tutto peculiari; b) dell’essere la magistratura un “ordine” ben differenziato dagli altri poteri ed apparati pubblici.

Infatti, la suddetta osservazione “non risulta decisiva”: a) sia perchè il capoverso dell’art. 98 Cost. (articolo inserito nella stessa sezione della Carta dell’art. 97) non ignora lo stato giuridico dei giudici, tanto che fa espresso riferimento ai “magistrati” a proposito delle categorie di pubblici dipendenti per le quali si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici; b) “sia, soprattutto, perchè sarebbe paradossale voler esentare l’organizzazione degli uffici giudiziari da ogni esigenza di buon andamento”.

La Corte costituzionale ha altresì sottolineato che, peraltro, nel titolo della Carta relativo alla magistratura, si ritrovano precetti assai puntuali, dai quali si desume la previsione del rispetto del principio di buon andamento dell’Amministrazione della giustizia.

Tale principio, infatti, è presidio della garanzia dell’indipendenza della magistratura e tale garanzia deve essere tutelata dal Consiglio superiore, al quale, nel suo ruolo di organo di rilevanza costituzionale, l’art. 105 Cost. affida il compito di occuparsi secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, delle assunzioni, delle assegnazioni e dei trasferimenti, delle promozioni e dei provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati ordinari.

Il rispetto, da parte del Consiglio superiore, nello svolgimento di tali compiti del principio di “buon andamento dell’Amministrazione della giustizia”, comporta anche il coordinamento con l’operato del Ministro della Giustizia, competente in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.).

3.6. Dalla precedenti osservazioni si desume che, nella specie, come correttamente si afferma nella sentenza impugnata, nonostante il collocamento a riposo del magistrato per raggiungimento dei limiti di età, permaneva l’interesse dell’Amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, sia perchè, come principio generale, gli effetti prodotti dal provvedimento di sospensione cautelare di natura provvisoria non possono “cristallizzarsi” in conseguenza della cessazione dal servizio avvenuta nel corso del procedimento penale (come affermato da Cons. Stato, Ad. plen. 8 del 1997), sia specificamente per effetto dell’applicazione del principio di buon andamento all’Amministrazione della giustizia, nelle sue molteplici accezioni.

Del resto, in tal senso, nella citata sentenza di queste Sezioni Unite n. 25971 del 2016, è stato precisato che pur essendo venuta meno l’appartenenza del Dott. L. all’ordine giudiziario, restano comunque in discussione questioni che, ai fini della loro soluzione, postulano un definitivo accertamento della legittimità o meno della misura cautelare disciplinare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio alla quale è stato sottoposto.

3.7. Nella suddetta ottica la Sezione disciplinare – in applicazione del principio di buon andamento sotto il profilo del coordinamento con l’operato del Ministro della Giustizia – non poteva non tenere conto dell’elevato onere finanziario di una ricostruzione complessiva, economica e giuridica, della carriera del L. cui sarebbe stata esposta l’Amministrazione in caso di una pronuncia di improcedibilità dell’azione disciplinare.

Tuttavia, operando la disposta sospensione oltre che sullo stipendio soprattutto sulle funzioni, è chiaro che l’interesse alla conclusione del procedimento disciplinare nel merito non era soltanto di tipo strettamente economico, ma era anche quello di tutelare l’immagine e il prestigio della Magistratura, comunque lesi dai gravi reati per i quali il L. era stato sottoposto a procedimento penale ancorchè per la massima parte dichiarati estinti per prescrizione, lesione che rimanendo “cristallizzati” gli effetti della sospensione cautelare non avrebbe avuto alcuna valutazione definitiva, dato il particolare svolgimento dei fatti.

Al riguardo deve essere ricordato che anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo in più occasioni – anche se in riferimento a fattispecie diverse dalla presente – ha sottolineato che le questioni che riguardano il funzionamento della giustizia, istituzione essenziale in qualsiasi società democratica, rientrano nell’interesse generale ed è opportuno tener conto della particolare missione del potere giudiziario nella società. In particolare, tale potere come garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, per la sua azione ha bisogno della fiducia dei cittadini che comprende la fiducia che i tribunali di una società democratica devono suscitare non soltanto nelle parti in giudizio, ma anche nell’opinione pubblica (vedi, per tutte: sentenza del 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia).

3.8. Per concludere sul punto l’affermazione della procedibilità dell’azione disciplinare in oggetto, nonostante il collocamento a riposo del Dott. L. per raggiungimento dei limiti di età, risulta conforme al principio del buon andamento dell’Amministrazione della giustizia, persistendo sotto molteplici profili l’interesse dell’Amministrazione ad una pronuncia sul merito dei fatti contestati al L., sulla base, in primo luogo, degli artt. 97,105 e 110 Cost. (cui va attribuito carattere precettivo, come affermato dalla Corte costituzionale).

Le censure di violazione di norme di diritto, formulate al riguardo nel primo motivo di ricorso, oltre a muovere dal presupposto erroneo per quel che si è detto – dell’inapplicabilità, nella specie, della pregiudiziale penale, sono comunque da disattendere, in quanto la contestata decisione ha una solida base normativa anche al livello costituzionale.

Neppure la decisione è invasiva della sfera di competenza del Ministro della Giustizia, anzi con essa si coordina, in conformità con il principio stabilito dalla citata Cass. SU 26 ottobre 2009, n. 22586 e anche da Cass. SU 30 luglio 1998, n. 7477, secondo cui l’efficacia o l’esecutività dei provvedimenti della Sezione Disciplinare del CSM non dipendono dai successivi decreti ministeriali che sono atti dovuti, destinati unicamente a svolgere, in relazione al rapporto di pubblico impiego, effetti attinenti allo stato giuridico od al trattamento economico dei magistrati.

Inoltre la decisione impugnata risulta anche dotata di congrua e logica motivazione, nella quale sono state illustrate con chiarezza le ragioni che hanno portato la Sezione disciplinare a ritenere permanente l’interesse dell’Amministrazione alla conclusione nel merito del giudizio disciplinare, nonostante l’intervenuto collocamento a riposo per raggiunti limiti di età del Dott. L..

3.9. Di qui il rigetto del primo motivo di ricorso.

4. Gli altri due motivi – da trattare insieme perchè intimamente connessi – sono inammissibili.

4.1. Deve essere, in primo luogo, ricordato il consolidato indirizzo della giurisprudenza disciplinare secondo cui l’autonomia del giudizio disciplinare rispetto a quello penale impone e garantisce al tempo stesso che sia riservata per intero al giudice disciplinare la delibazione dei profili deontologici, anche laddove si applichi il vecchio regime nel quale, in base al R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 29, u.c., si stabiliva che il giudicato penale era sempre vincolante per l’accertamento dei fatti che formarono oggetto del giudizio penale.

Peraltro, è pacifico che per la vigente disciplina le sentenze di proscioglimento per prescrizione pronunciate nei confronti del magistrato, pur non vincolando la Sezione disciplinare, possono tuttavia essere prese in considerazione ai fini della prova dei fatti accertati.

4.2. Nella specie, la Sezione disciplinare si è attenuta ai suddetti principi in quanto – pure nella perdurante applicabilità, nell’istruttoria e nella discussione del procedimento disciplinare, delle norme del codice di procedura penale del 1930 per effetto del rinvio ricettizio alle disposizioni di quel codice operato dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, artt. 32 e 34 (Cass. SU n. 16264 del 2002; Cass. SU n. 12167 del 2008) – ha escluso che l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali di dichiarazione dell’estinzione dei reati per prescrizione avesse carattere vincolante in sede disciplinare, ma al contempo ha rilevato che tutte le sentenze di merito (nella sostanza concordanti tra loro) sono giunte a conclusioni conformi quanto all’accertamento delle condotte contestate all’odierno incolpato (con la sola eccezione di un’assoluzione).

E, su questa base, è giunta alla conclusione che il quadro probatorio così delineato non consentisse alcun tipo di ipotesi assolutoria mentre le prove di colpevolezza acquisite e riportate nelle dette sentenze ne fanno elementi pienamente utilizzabili in sede disciplinare secondo quanto previsto dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 34 nonchè del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 3 e art. 32-bis.

4.3. In particolare, la Sezione disciplinare ha sottolineato che la pronuncia di estinzione dei reati per prescrizione per i capi da A) e F) – a differenza dell’assoluzione definitiva per il capo G) – non rientrano tra le sentenze costituiscono cosa giudicata ai fini di quanto previsto dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 29 nonchè dal D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 20 e 32-bised ha ritenuto applicabile, come norma più favorevole, il detto art. 20 che – rispetto all’art. 29, u.c. suddetto – non prevede che le sentenze di proscioglimento “facciano stato” nel procedimento disciplinare quanto all’accertamento del fatto, così tutelando in modo incisivo il diritto di difesa dell’incolpato.

Quindi, dopo aver ribadito la libera valutabilità dell’accertamento processuale penale da parte della Sezione disciplinare nei casi di proscioglimento per estinzione del reato, la Sezione stessa – sulla base dell’esame delle valutazioni convergenti dei giudici penali di merito, tutte pienamente coincidenti e riscontrate anche dagli ulteriori atti del procedimento penale acquisiti dal P.G. e trasmessi alla Sezione disciplinare – è giunta alla conclusione della sussistenza delle condotte indicate nei diversi capi conformemente a quanto rilevato dai giudici di merito, esclusa l’aggravante dell’agevolazione dell’associazione mafiosa, come dimostrato dalle numerose dichiarazioni testimoniali assunte nel processo penale.

Mentre ha escluso l’addebito disciplinare per la condotta per la quale è intervenuta la sentenza definitiva di assoluzione perchè il fatto non sussiste, unica pronuncia vincolante per la Sezione disciplinare, anche in questo caso facendo applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, comma 3, poichè si tratta di disposizione più favorevole – e, quindi, ritenuta applicabile ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32-bis – rispetto al R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 29 visto che quest’ultima disposizione, al comma 4, conteneva un generico riferimento solo all’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze passate in giudicato nei giudizi penali, senza vincolare espressamente la pronuncia del giudice disciplinare, anche a causa della natura atipica dell’illecito, mentre l’art. 20, comma 3, cit. prevede espressamente l’autorità di cosa giudicata delle sentenze di assoluzione nel giudizio disciplinare.

4.4. Il ricorrente, nel secondo motivo, non contesta in modo specifico la concordanza delle conclusioni cui sono pervenute le sentenze penali in ordine alla ricostruzione dei fatti e alla colpevolezza del L. – su cui poggia la disposta utilizzazione e valutazione delle prove acquisite in sede penale – ma si limita a sostenere genericamente che i fatti addebitati in sede disciplinare avrebbero dovuto essere tutti rivisitati, asseverati e valutati ex novo, senza che ad unico supporto del Giudice disciplinare potessero essere utilizzate le suddette sentenze penali il cui esito è stata la prescrizione dei reati.

E, in modo altrettanto generico, deduce che la motivazione sul punto sarebbe viziata.

4.5. Formulate in modo analogo sono le censure proposte nel terzo motivo, con le quali si sostiene che l’applicazione, tre anni dopo il collocamento a riposo, della massima sanzione prevista sarebbe avvenuta senza che il L. sia stato posto in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa nel pieno rispetto del D.Lgs. n. 109 del 2006 e delle regole del giusto processo.

E si reitera l’immotivata denuncia di vizio di motivazione.

4.6. Si tratta quindi di censure inammissibili.

4.6.1. Infatti, per quanto riguarda le denunce di violazione di legge, non sono offerti elementi da cui è possibile apprezzare la decisività delle relative censure e, dunque, l’interesse a proporle, visto che anche la prospettata violazione del diritto di difesa appare assolutamente generica e priva di precisi riscontri (vedi, per tutte: Cass. 21 gennaio 2004, n. 886; Cass. 5 giugno 2007, n. 13184; Cass. 15 dicembre 2015, n. 25232).

Peraltro, nell’invocare le regole del giusto processo il ricorrente non considera che, tra tali regole, vi è quella di discostarsi da interpretazioni delle norme processuali che risultino ispirate ad un eccessivo formalismo e che prolunghino inutilmente la durata del processo (Cass. 1 agosto 2013, n. 18410), regole che avrebbero potuto essere violate nell’ipotesi dell’auspicata rivisitazione, asseverazione e valutazione ex novo di tutti i fatti in sede disciplinare, senza una valida ragione – non esplicitata dal ricorrente – dopo che in un processo penale durato quasi vent’anni riesce difficile immaginare che i fatti non siano stati adeguatamente accertati.

4.6.2. D’altra parte le generiche censure di vizi di motivazione presenti in entrambi i motivi considerati -finiscono, nella sostanza, con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dalla Sezione disciplinare, che come tale è di per sè inammissibile. A ciò va aggiunto che in base all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata nella sentenza impugnata è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano.

III – Conclusioni.

5. Alla luce delle suddette considerazioni il ricorso deve essere respinto.

La peculiarità della vicenda processuale e la novità delle questioni trattate giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2019

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