Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18261 del 11/07/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 18261 Anno 2018
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: CINQUE GUGLIELMO

ORDINANZA

sul ricorso 6683-2016 proposto da:
RADICE LUCA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
FRANCESCO DENZA 15, presso lo studio dell’avvocato
NICOLA PAGNOTTA, rappresentato e difeso dagli avvocati
CESARE POZZOLI, ANGELO GIUSEPPE CHIELLO, giusta delega
in atti;
– ricorrente contro

2018
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MILANO RISTORAZIONE S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA VIRGILIO 8, presso lo studio
dell’avvocato ANDREA MUSTI, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato SERGIO PASSERINI

Data pubblicazione: 11/07/2018

giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1/2016 della CORTE D’APPELLO di

MILANO, depositata il 04/01/2016 R.G.N. 1050/2015.

RG. 6683/2016

RILEVATO
che, con la sentenza n. 1/2016 la Corte di appello di Milano ha
confermato la pronuncia resa dal Tribunale della stessa città la quale, a
sua volta, aveva rigettato l’opposizione proposta avverso la ordinanza
del 29.7.2014, emessa ai sensi dell’art. 1 comma 49 legge n. 92/2012,
con cui era stata respinta la domanda proposta da Luca Radice, nei

declaratoria di nullità e comunque di illegittimità del licenziamento
intimatogli con lettera del 24.7.2003 a seguito di contestazione
disciplinare riguardante l’addebito ad esso dipendente, quadro con
incarico di responsabile dell’Ufficio Relazione esterne sino al dicembre
2012 e poi responsabile dell’Ufficio Commerciale e gestione rete sino al
luglio 2013, di avere inserito 16 proposte di acquisto accedendo
all’applicativo Mirgu del sistema informatico aziendale ed
approvandole, senza averne il potere;
che avverso la decisione di II grado ha proposto ricorso per cassazione
Luca Radice affidato a tre motivi;
che la Milano Ristorazione spa ha resistito con controricorso, illustrato
con memoria;
CONSIDERATO
che,

con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) la

violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970 e dell’art. 2119 cc, in
relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale valutato
solo una parte degli addebiti mossi al lavoratore, mentre avrebbe
dovuto valutare gli addebiti nel loro complesso in quanto era sulla base
di tale complessa valutazione e dalle prospettazioni datoriali; 2) la
violazione dell’art. 2697 cc e dall’art. 5 legge n. 604/1966, in relazione
all’art. 360 n. 3 cpc, per avere la Corte di merito ritenuto legittimo il
licenziamento, dispensando completamente il datore di lavoro
dall’onere di provare la colpevolezza del lavoratore rispetto ai fatti
contestati e, quindi, la sussistenza di una giusta causa di
licenziamento; 3) la violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970 e
dell’art. 2119 cc, in relazione all’art. 360 n. 3 cpc, poiché i giudici di
seconde cure avevano erroneamente interpretato ed applicato il

confronti della Milano Ristorazione spa, volta ad ottenere la

concetto di giusta causa previsto dalla legge e i principi consolidati in
tema di proporzionalità della sanzione, disapplicando completamente i
criteri, sanciti dalla giurisprudenza, per valutare la sussistenza di una
giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione;
che il primo motivo non è fondato: la Corte territoriale, limitando la
sua valutazione unicamente a parte degli addebiti contestati (punti da
6 a 16 della lettera di contestazione), non è incorsa in alcuna
violazione di legge essendosi attenuta al principio, espresso in sede di

legittimità (cfr. Cass. 2.2.2009 n. 2579; Cass. 31.10.2013 n. 24574)
cui si intende dare seguito, secondo il quale in tema di licenziamento
per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi
episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il
giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la
necessaria considerazione della loro concatenazione, ai fini della
valutazione della gravità dei fatti non occorre che l’esistenza della
“causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia
ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo
il giudice -nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del
licenziamento del datore di lavoro- individuare anche solo in alcuni di
essi o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione
espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art.
2119 cc;
che il secondo motivo è parimenti infondato: invero, premesso che la
valutazione del precetto di cui all’art. 2697 cc si configura soltanto
nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da
quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua
valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel
ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo
caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova,
sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5
cpc, nella fattispecie in esame i giudici di secondo grado hanno
correttamente applicato la regola processuale in virtù della quale, in
tema di licenziamento disciplinare, l’onere della prova della sussistenza
della giusta causa spetta al datore di lavoro, il quale è tenuto a

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provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento nonché la loro
imputabilità sotto il profilo soggettivo al lavoratore, mentre
quest’ultimo che eccepisce la inefficacia e/o irrilevanza giuridica di tali
fatti deve, a sua volta, provare i fatti esimenti su cui l’eccezione si
fonda;
che è, invece, fondato il terzo motivo: giova premettere che l’art.
2119 cc (che disciplina il recesso per giusta causa), come tutte le
disposizioni che, contenendo una “clausola generale”, delegano la

richiede una specificazione ad un fattore esterno, la coscienza
generale, mediato dall’interpretazione (in termini Cass. 2.3.2011 n.
5095 in motivazione) che ha la funzione di adeguare il modulo
normativo alle modificazioni indotte dal tempo. In relazione al concetto
di giusta causa, quale “fatto che non consenta la prosecuzione anche
provvisoria del rapporto”, quale specificazione del generico contenuto
del parametro normativo, sono stati affermati alcuni principi dalla
giurisprudenza di legittimità. La fiducia è un fattore che, per l’oggetto
della prestazione del rapporto di lavoro e per la protrazione di
quest’ultimo nel tempo, condiziona, con la propria esistenza,
l’affermazione del rapporto stesso e, con la propria cessazione, la
negazione (cfr. Cass. 23.6.1998 n. 6216). E’, pertanto, il fondamentale
strumento di definizione di ciò che non consente la prosecuzione,
anche provvisoria, del rapporto e può avere una intensità differenziata,
rispetto alla funzione della natura e della qualità del singolo rapporto,
della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni, del grado di
affidamento che queste esigono, nonché può essere modulata in
funzione del fatto concreto (cfr. Cass. 2.2.1998 n. 1016), con riguardo
alla sua portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze, ai motivi, alla
natura e alla intensità dell’elemento psicologico. Assume, poi,
determinante rilievo la potenzialità, che ha il fatto addebitato, di porre
in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr. Cass.
27.11.1999 n. 13299). Le suddette specificazioni del parametro
normativo hanno natura giuridica e la relativa disapplicazione resta
deducibile in sede di legittimità (cfr. Cass. 13.4.1999 n. 3645).
L’accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il

integrazione del limitato proprio contenuto (cd. modulo generico),

parametro stesso (e le relative specificazioni) nel fatto in controversia
e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di
licenziamento, è, invece, demandato al giudice di merito (in termini
Cass. 26.4.2012 n. 6498) la cui valutazione resta incensurabile in
cassazione ove sia priva di errori logici o giuridici (tra le altre Cass.
28.9.1996 n. 8571).
che la sentenza impugnata non è condivisibile per la non corretta
individuazione e applicazione del parametro normativo e delle relative

proporzionalità della sanzione applicata;
che, invero, sulla base dei fatti storici pacifici e non contestati, la
verifica della gravità della condotta avrebbe dovuto essere effettuata
ed approfondita, sia in astratto (rispetto alle previsioni pattizie e alla
nozione legale di giusta causa o giustificato motivo) sia in concreto (in
relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l’hanno
caratterizzata) perché il difetto di uno dei due profili esclude la
sufficienza dell’altro (cfr. Cass. n. 17337/2016);
che,

nella specie, con particolare riferimento alla sussistenza

dell’elemento psicologico, andava verificato non solo l’aspetto di una
negligenza o di acquiescenza a determinate prassi datoriali, ma anche
la eventuale mala fede del dipendente in quel determinato contesto
caratterizzato da una non perfetta organizzazione nelle procedure di
acquisto e nei relativi controlli, anche con riguardo all’esecuzione
concreta dei servizi acquistati; conseguentemente, avrebbe dovuto
essere considerata la proporzionalità della sanzione applicata modulata
in ordine a tale nuova valutazione della gravità: e ciò in virtù di un
procedimento, che informa l’intero sistema disciplinare del rapporto di
lavoro, che non sfugge ad un sindacato di legittimità sotto il profilo
della correttezza del metodo seguito nella applicazione della clausola
generale (cfr. Cass. 13.12.2010 n. 25144);
che,

pertanto, non è condivisibile la operata sussunzione della

fattispecie concreta in quella del licenziamento per giusta causa perché
la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati
dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione

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specificazioni inerenti al vincolo fiduciario con la conseguente

legale sia con riguardo alla gravità della condotta che alla valutazione
conseguente sulla proporzionalità della sanzione adottata;
che alla stregua di quanto esposto, rigettati il primo e secondo motivo
del ricorso, deve essere accolto il terzo; la sentenza va cassata in
relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte di appello di Milano, in
diversa composizione, che procederà a nuovo esame applicando gli
indicati principi e provvedendo, altresì anche alle spese del presente
giudizio di legittimità.

La Corte accoglie il terzo motivo, rigettati il primo ed il secondo del
ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla
Corte di appello di Milano in diversa composizione cui demanda di
provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso nella Adunanza camerale del 20 marzo 2018.

P.Q.M.

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