Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18252 del 06/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 06/09/2011, (ud. 19/05/2011, dep. 06/09/2011), n.18252

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16601-2007 proposto da:

ILVA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo

studio dell’avvocato ROMEI ROBERTO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FAILLA LUCA MASSIMO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PISISTRATO

11, presso lo studio dell’avvocato ROMOLI GIANNI, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato BALTA RENATO, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 874/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 09/06/2006 R.G.N. 450/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/05/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato SCHITTONE NICOLO’ per delega FAILLA LUCA;

udito l’Avvocato BALTA RENATO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Torino ha confermato al sentenza del Tribunale della stessa città, con la quale era stato riconosciuto il diritto di S.G. alla corresponsione dell’importo previsto dagli accordi aziendali stipulati tra la Ilva spa e le organizzazioni sindacali, a titolo di incentivo alle dimissioni. A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta ritenendo che il diritto alla corresponsione dell’incentivo non fosse subordinato al previo esperimento di una trattativa tra le parti, venendo la trattativa in rilievo solo ai fini della determinazione dell’importo dell’incentivo in misura superiore alla soglia minima prevista dagli accordi aziendali. Nè aveva rilievo il fatto che la società avesse contribuito al reperimento, in favore del lavoratore, di un nuovo posto di lavoro, giacchè gli accordi non prevedevano che l’incentivo venisse erogato solo nel caso in cui fosse stato il dipendente ad attivarsi per la ricerca di una nuova collocazione lavorativa. Non era, infine, di impedimento alla erogazione dell’incentivo la circostanza che la società avesse offerto al lavoratore una collocazione alternativa presso altro stabilimento, poichè le mansioni affidate al S. nella nuova collocazione lavorativa non erano adeguate al suo livello professionale, nè gli erano state offerte prospettive certe di una migliore collocazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Ilva spa affidandosi a otto motivi di ricorso cui resiste con controricorso il S..

Il controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con i primi due motivi si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 24 Cost., artt. 115 e 421 c.p.c., nonchè degli artt. 1362, 1363 e 2697 c.c., addebitando alla sentenza impugnata anche un vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione alla mancata acquisizione (e, comunque, considerazione) delle deposizioni rese da alcuni testi in altri giudizi analoghi ed alla mancata audizione degli stessi testi, richiesta dalla società anche in grado di appello, chiedendo a questa Corte di stabilire se: “… nel procedimento di interpretazione del contratto, onde accertare quale sia stata in concreto la “comune volontà” dei contraenti, il giudice possa limitarsi all’interpretazione letterale, oppure, qualora una delle parti gliene faccia formale richiesta, debba tener conto di tutti gli elementi probatori del caso concreto, ed anche in particolare delle deposizioni (regolarmente prodotte in giudizio) che tali contraenti hanno reso nell’ambito di analoghi giudizi vertenti su identiche questioni interpretative; o comunque, procedere all’audizione dei medesimi contraenti che siano stati ritualmente indicati a testi” e se “conseguentemente e per l’effetto, abbia violato gli art. 24 Cost., art. 115 c.p.c., art. 421 c.p.c., art. 1362 c.c. e art. 2697 c.c., la Corte d’appello di Torino per non aver acquisito al presente giudizio e/o tenuto in considerazione le deposizioni rese … nelle cause … e comunque, per non aver disposto l’escussione dei testi predetti … nel presente giudizio, pur avendone la Ilva fatto formale istanza”.

2.- Con il terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in ordine alla trattazione della questione relativa all’avvenuta ricollocazione del lavoratore presso il sito di (OMISSIS), chiedendo a questa Corte di stabilire se “…

nel procedimento di interpretazione del contratto, sia consentito al giudice di discostarsi immotivatamente dal senso ricavabile dalla lettera del contratto e dall’analisi complessiva delle clausole contrattuali, laddove tale senso sia anche confermato dalle parti contraenti il contratto medesimo” e se “conseguentemente e per l’effetto, abbia violato gli artt. 1362 e 1363 c.c. la Corte d’appello di Torino per aver ritenuto immotivatamente la ricollocazione del sig. S. presso lo stabilimento Ilva di (OMISSIS) circostanza non ostativa all’erogazione dell’incentivo preteso, nonostante il senso degli accordi di cui è causa – come risultante dall’analisi letterale e sistematica del relativo testo, e così come confermato dalle parti contraenti – fosse di riservare il predetto incentivo ai lavoratori per i quali una ricollocazione presso lo stabilimento di (OMISSIS) e il Centro Servizi di Torino sopra citati fosse risultata oggettivamente impossibile”.

3.- Con il quarto motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1325, 2033 e 2041 c.c., sempre in ordine alla questione della ricollocazione del lavoratore presso il sito di (OMISSIS), chiedendo a questa Corte di stabilire se “… sia consentito al giudice di disporre in favore di una parte un’attribuzione patrimoniale con conseguente sacrificio dell’altra parte, in mancanza dei presupposti che giustifichino l’attribuzione e dunque senza causa” e se “conseguentemente e per l’effetto, abbia violato gli artt. 1325, 2033 e 2041 c.c., la Corte d’appello di Torino per aver condannato la Ilva al pagamento in favore del sig. S. dell’incentivo di cui è causa, nonostante l’avvenuto ricollocazione del medesimo sig. S. presso lo stabilimento di (OMISSIS) e, dunque, nonostante la carenza di uno dei presupposti previsti dagli accordi 10.7.2000e 15.1.2001 per l’erogazione dell’incentivo …”. 4.- Con gli ultimi quattro motivi la società denuncia, sotto diversi profili giuridici, l’erroneità delle argomentazioni con le quali il giudice d’appello ha ritenuto che le nuove mansioni assegnate al S. presso lo stabilimento di (OMISSIS) non fossero idonee a garantirgli condizioni equivalenti a quelle precedenti, addebitando alla sentenza impugnata anche un vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia. In particolare deduce: che la condizione della equivalenza professionale delle nuove mansioni presso i siti produttivi indicati negli accordi 10.7.2000 e 15.1.2001 non era affatto contemplata dagli accordi medesimi; che tale presunta non equivalenza delle mansioni presso il sito di (OMISSIS) non era stata ritualmente dedotta dal lavoratore nel giudizio di primo grado;

che essa sarebbe stata smentita dalle risultanze istruttorie, ed in particolare dalle deposizioni dei testi escussi in primo grado; che la permanenza del S. presso lo stabilimento di (OMISSIS) era stata comunque troppo breve (tre giorni) per poter effettuare qualsiasi valutazione in ordine all’effettiva equivalenza professionale delle nuove mansioni; che la Corte d’appello aveva erroneamente e contraddittoriamente ritenuto che al S. presso lo stabilimento di (OMISSIS) non fossero state assegnate mansioni equivalenti solo perchè presso lo stesso stabilimento egli non avrebbe potuto ottenere in tempi rapidi una collocazione certa e definitiva.

5.- I primi due motivi sono infondati. Questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. Nè tale regola subisce eccezioni nel rito del lavoro, nel quale il giudice, all’udienza fissata ex art. 420 c.p.c., può esercitare il suo potere valutativo in ordine alla rilevanza o meno delle prove, invitando le parti alla discussione, così ritenendo la causa matura per la decisione ai sensi del comma 4 del richiamato articolo, e, quindi, implicitamente, rigettando le istanze istruttorie formulate dalle parti (cfr. ex multis Cass. n. 6499/2009).

Solo nel caso in cui il materiale istruttorio acquisito al processo indichi “piste probatorie” significative ai fini della ricerca della verità, ovvero allorchè le risultanze di causa offrano significativi dati d’indagine, il giudice, anche in grado di appello, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, è tenuto ad esercitare il potere-dovere, previsto dall’art. 437 c.p.c., di provvedere anche d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, ferma restando sempre la necessità che i fatti stessi siano stati allegati nell’atto introduttivo (cfr. ex multis Cass. n. 29006/2008, Cass. n. 22305/2007, Cass. n. 2379/2007, Cass. n. 278/2005, Cass. n. 15618/2004, Cass. n. 5152/2004).

Questa Corte ha, inoltre, già affermato che qualora con il ricorso per cassazione venga censurata la mancata ammissione, da parte del giudice di merito, di un’istanza probatoria senza adeguata motivazione, la parte non può limitarsi ad indicare di aver fatto una tempestiva richiesta poi respinta, ma deve dimostrare – in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che detta istanza avrebbe potuto avere rilievo decisivo ai fini della soluzione di un punto parimenti decisivo della controversia (Cass. n. 11603/2009, Cass. n. 24221/2009).

Applicando siffatti principi al caso in esame, va rilevato che la decisione della Corte territoriale, che ha implicitamente negato ingresso alle ulteriori istanze istruttorie delle parti, non è assoggettabile alle censure che le sono state mosse in questa sede di legittimità, non essendo dato riscontrare, dalla lettura della sentenza, l’esistenza di una totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, nè quella di una obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il giudice del merito, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento; d’altra parte, la società ricorrente non ha dimostrato che l’acquisizione dei richiesti mezzi istruttori avrebbe avuto rilievo decisivo ai fini della soluzione della controversia, ovvero la sussistenza di un rapporto di causalità necessaria fra le circostanze che si assumono trascurate e la soluzione giuridica della controversia, tale da far ritenere, attraverso un giudizio di certezza e non di mera probabilità, che quelle circostanze, ove fossero state considerate, avrebbero portato ad una diversa soluzione della controversia. A tal proposito, va rilevato che la Corte territoriale non ha negato la fondatezza in astratto della tesi della società, secondo cui la corresponsione dell’incentivo e la ricollocazione presso il sito di (OMISSIS) costituivano obbligazioni alternative l’una rispetto all’altra, sì che, in caso di valida offerta di ricollocazione, sarebbe venuto meno l’obbligo dell’azienda di corrispondere l’incentivo; ma ne ha, però, negato la rilevanza in concreto, avendo ritenuto che la ricollocazione prospettata al lavoratore non fosse “idonea a garantirgli condizioni equivalenti alle precedenti”, così che l’acquisizione di ulteriori risultanze istruttorie, che pure avessero confermato che la corresponsione dell’incentivo doveva ritenersi condizionata alla verificata impossibilità di ricollocare proficuamente il lavoratore, non avrebbe potuto comunque risultare decisiva nel senso che si è sopra indicato, ovvero tale da poter sovvertire, per sè sola, le sorti della controversia.

I primi due motivi vanno pertanto rigettati.

6.- Parimenti infondato è il terzo motivo con cui la società contesta la validità dell’interpretazione data dalla Corte d’appello agli accordi aziendali in esame, posto che, come emerge dalla sentenza impugnata – e come si è già ricordato – la Corte territoriale non ha affatto ritenuto che la ricollocazione del S. presso lo stabilimento di (OMISSIS) non fosse idonea, in linea di principio, a far venire meno l’obbligo aziendale di corresponsione dell’incentivo, ma ha ritenuto che l’impegno assunto dall’azienda di una ricollocazione del lavoratore presso il suddetto stabilimento non fosse stato correttamente adempiuto, ovvero non fosse stato adempiuto in modo conforme a legge (art. 2103 c.c.), sicchè risultava giustificato il rifiuto del lavoratore di continuare a prestare la propria attività presso lo stesso stabilimento e, per converso, il datore di lavoro non poteva ritenersi liberato dall’obbligo di corresponsione dell’incentivo.

Anche sotto questo profilo, dunque, la sentenza impugnata non merita le censure che le sono state rivolte in sede di legittimità.

7.- Il quarto motivo è inammissibile per l’assoluta inidoneità dei quesiti di diritto formulati a chiusura dello stesso motivo a costituire il necessario punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale che si chiede venga affermato, risolvendosi in sostanza i suddetti quesiti, nella formulazione che è stata sopra riportata, nella richiesta a questa Corte di stabilire se il giudice di merito possa condannare un soggetto al pagamento di una somma di denaro in difetto di una causa che ne giustifichi l’attribuzione.

8.- Vanno respinti, infine, gli ultimi quattro motivi con cui la società contesta, sotto diversi profili, la validità delle argomentazioni con le quali il giudice d’appello ha ritenuto che le nuove mansioni assegnate al S. presso lo stabilimento di (OMISSIS) non fossero equivalenti a quelle da lui svolte precedentemente.

Al riguardo, va rilevato anzitutto che la circostanza che la condizione della equivalenza professionale delle nuove mansioni fosse o meno contemplata negli accordi aziendali è irrilevante a fronte del divieto di demansionamento posto dall’art. 2103 c.c. La deduzione secondo cui la sentenza impugnata avrebbe dato rilievo ad una circostanza (e cioè, sempre la non equivalenza professionale delle mansioni) che non era stata dedotta dal ricorrente in primo grado (e non era rilevabile d’ufficio), è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, posto che il vizio di ultrapetizione sarebbe riferibile, nel caso in esame, alla sentenza di primo grado e la società avrebbe dovuto allegare di avere denunciato l’esistenza di tale vizio nella precedente fase di gravame. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, qualora la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato si riferisca alla sentenza di primo grado, essa non può essere denunziata per la prima volta in cassazione, essendosi formato il giudicato sulla questione oggetto della pronuncia (Cass. n. 6344/2004, Cass. n. 4612/99, Cass. n. 9808/97).

Il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado non può essere utilmente dedotto come mezzo di ricorso per cassazione neppure se riferito alla sentenza di secondo grado, confermativa della precedente, quando non abbia costituito oggetto di motivo di appello (Cass. sez. unite n. 15277/2001, Cass. n. 6152/96).

Le ulteriori censure svolte dalla società si risolvono poi nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito operato dalla Corte territoriale in ordine alla valutazione dell’equivalenza delle nuove mansioni assegnate o di cui era stata prospettata l’assegnazione al lavoratore nella nuova sede di lavoro, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento alla inadeguatezza della nuova collocazione lavorativa ed alla assoluta incertezza sulle prospettive di una più confacente collocazione lavorativa nel prossimo futuro, risolvendosi le censure espresse (in particolare, con gli ultimi due motivi di ricorso) in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d’appello, inidonea a radicare un vizio deducibile davanti al giudice di legittimità; dovendo rimarcarsi, per quanto riguarda più specificamente l’ultimo motivo, che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorchè il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, mentre alla S.C. non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009).

9.- Non è dato, infine, ravvisare alcuna contraddittorietà nella motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto che non fossero state offerte al lavoratore prospettive certe ed adeguate di una collocazione confacente alle mansioni proprie della qualifica da lui rivestita, facendo riferimento, nella motivazione, anche alle dichiarazioni rese da uno dei testimoni escussi in primo grado, secondo cui al S. era stato prospettato un impiego nelle funzioni di capoturno “almeno con un elevato grado di probabilità” e gli era stato fatto presente che “nel giro di un mese e mezzo si sarebbe trovata la sua collocazione definitiva”.

10.- Il ricorso va, dunque, rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.

11.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2011

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