Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18251 del 02/09/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/09/2020, (ud. 24/06/2020, dep. 02/09/2020), n.18251

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26141-2016 proposto da:

B. ENERGIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati TIZIANA BONESCHI e GIAN PAOLO COPPOLA;

– ricorrente –

contro

N.P., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE

MARZIO 1, presso lo studio dell’avvocato LUCA VIANELLO, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati DANIELA LUNEDEI e

BRUNO GUIDA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 276/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 11/05/2016, R.G.N. 2017/2012.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza resa pubblica in data 11/5/2016, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto l’opposizione proposta dalla s.p.a. B. ENERGIA avverso il provvedimento monitorio con il quale era stato ingiunto il pagamento, in favore di N.P., della somma di Euro 99.903,42 a titolo di saldo del trattamento economico spettantegli – secondo i dettami dell’accordo individuale stipulato in data 29/4/1983 – alla data di cessazione del rapporto di lavoro subordinato inter partes (30/6/1997).

La Corte di merito perveniva a tali conclusioni condividendo l’iter argomentativo seguito dal primo giudice secondo cui le lettere 24/6/2002, 26/6/2002 e 10/5/2007, inviate dal N. alla direzione della società a mezzo di posta interna, erano state ricevute dalla società ed integravano validi atti di messa in mora con effetti interruttivi della prescrizione, avverso le quali non era ammissibile la proposizione di querela di falso.

Precisava il giudice del gravame che le modalità alla cui stregua il N. trasmetteva le raccomandate alla direzione aziendale erano conformi a quelle ordinariamente seguite in azienda: il mittente compilava il modulo di consegna del plico, lo collocava nella casella del destinatario e chiedeva al personale addetto alla reception l’emissione della ricevuta, sulla quale detto personale apponeva la firma ed il timbro. Nello specifico queste modalità erano state rispettate; tutte le ricevute delle lettere erano sottoscritte dal personale addetto alla ricezione e riportavano il timbro autentico della società, sicchè sarebbe stato onere di quest’ultima dimostrare che, ciò nonostante, le missive non erano mai pervenute al loro effettivo destinatario.

Tale dimostrazione, tuttavia, era mancata, avendo l’appellante articolato mezzi istruttori assolutamente generici e come tali inammissibili; da ciò discendeva che le lettere trasmesse dal N. al legale rappresentante della società B., secondo prassi aziendale, dovevano ritenersi pervenute regolarmente al destinatario ex art. 1335 c.c..

La Corte rimarcava, poi, che la lettera di messa in mora era chiaramente individuata e definita quanto al contenuto, recando riferimento alle competenze di integrazione del TFR già percepito, con specifico richiamo all’accordo del 1983 intervenuto fra le parti.

Negava, quindi, che fosse esperibile il rimedio della querela di falso avverso tali scritture in quanto frutto di abusivo riempimento di foglio in bianco, secondo la tesi accreditata da parte appellante. Rammentava, al riguardo, l’insegnamento della Corte di legittimità secondo cui la denuncia di abusivo riempimento di foglio in bianco postula il rimedio della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto absque pactis o sine pactis, ed in tal caso colui che propone querela ha l’onere di provare che la firma sia stata apposta su foglio non ancora riempito e che il riempimento sia avvenuto absque pactis. Nello specifico, tuttavia, la società non aveva articolato alcuno strumento probatorio al riguardo sicchè la formulata istanza era da ritenersi inammissibile.

Avverso tale decisione la società B. ENERGIA interpone ricorso, per cassazione affidato a due motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., n. 5, art. 2943 c.c., comma 4, artt. 1219,1334 e 1335 c.c. inrelazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce la fondatezza della eccezione, ritualmente sollevata nel giudizio11 di merito, di prescrizione ai sensi dell’art. 2948 c.c., n. 5, del diritto azionato dal N. in relazione alle competenze di, fine rapporto. Si critica la, statuizione con la quale i giudici del gravame hanno accertato la valenza interruttiva delle lettere di messa in mora inviate dal N. al Dott. V., Presidente della società debitrice B. Energie in data 24/6/02, 26/6/02 e 10/5/07, rimarcandosi la inidoneità delle stesse allo scopo, per carenza idei requisito soggettivo.

Infatti la missiva del 26/6/02 era indirizzata al “Dott. V., Direzione B. Cannon”, e ricevuta da B. ENERGIA presso la sede di quest’ultimta in (OMISSIS), laddove quella recante data 10/5/2007 risultava inviata al “Dott. V.M. Presidente Cannon Bono – Amm. Del. Cannon”, e ricevuta da Cannon s.p.a. in (OMISSIS), analogamente a quella anteriore recante data 24/6/02.

Posto che la società pretesa debitrice era la B. ENERGIA s.p.a. con sede in (OMISSIS), s’imponeva l’evidenza della assenza o quanto meno, della incertezza dell’elemento soggettivo coessenziale alla qualificazione in termini internativi, della prescrizione, delle lettere indirizzate al V. presso la sede della diversa società Cannon.

Si censura altresì la opinione espressa dalla Corte di merito secondo cui le lettere inviate alla società datoriale negli anni 2002-2007, sotto il profilo oggettivo, erano da qualificare quali atti di messa in mora, per essere stata la pretesa azionata ben specificata con riferimento al pagamento della integrazione del tfr, oltre che ricavabile per relationem dall’accordo 29/4/1983 allegato alle missive.

Si obietta al riguardo che l'”assenza del carattere di intimazione” nel contenuto delle lettere, avrebbe dovuto indurre il giudicante a ritenere estinta la pretesa ex adverso azionata per intervenuta prescrizione.

2. Il motivo va disatteso in relazione a ciascuno dei profili delineati.

Invero, le critiche articolate dalla difesa della ricorrente non hanno il tono proprio di una censura di legittimità.

Esse, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez. Un., 17/12/2019, n. 33373).

In breve, la complessiva censura traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè pone a suo presupposto una diversa interpretazione dei dati acquisiti al processo, senza inficiare la ratio decidendi sottesa alla decisione.

La sentenza impugnata, come fatto cenno nello storico di lite, ha argomentato, sulla base della valutazione delle risultanze probatorie, che le lettere raccomandate indirizzate alla direzione aziendale, erano state trasmesse secondo modalità ammesse dalla medesima società opponente, e risultavano comunque ricevute dalla società B. ENERGIA s.p.a (26/6/2002) e dal Dott. V. quale Presidente della B. (10/5/2007), sicchè doveva ritenersi soddisfatto il requisito soggettivo posto in dubbio dalla ricorrente; la Corte distrettuale ha, dunque, superato ogni incertezza sulla individuazione del destinatario delle missive inviate dal lavoratore, facendo leva sui dati obiettivi del ruolo di Presidente della società B. rivestito dal V. e dalla ricezione di una delle missive da parte della società appellante.

Con la presente censura la ricorrente pretende di pervenire ad un ribaltamento delle conclusioni alle quali era addivenuto il giudice del gravame, sulla base della mera prospettazione di una diversa lettura dei documenti acquisiti, non consentita in questa sede di legittimità.

L’interpretazione di un atto è, invero, tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c., e segg., o di motivazione assolutamente inadeguata secondo il regime di sindacato minimale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 novellato, ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione.

Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni “il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (vedi ex aliis, in motivazione, Cass. 9/8/2018 n. 20694, nonchè Cass. 26/10/2007 n. 22536).

Nello specifico la ricorrente, per quanto sinora detto, non ha provveduto a tanto.

3. Sotto altro versante, e con riferimento alla prospettata carenza dei requisiti oggettivi degli atti di messa in mora, la Corte ha puntualmente argomentato che la specificità della rivendicazione oggetto delle lettere di messa in mora era definita dalla richiesta esplicita di pagamento del TFR e dal congruo riferimento all’accordo inter partes del 29/4/1983 che era regolarmente allegato alle missive.

In tal senso, la statuizione impugnata si sottrae ad ogni critica, in quanto del tutto congrua e conforme a diritto, perchè coerente con l’insegnamento di questa Corte secondo cui in tema di interruzione, della prescrizione, un atto, per avere efficacia interruttiva, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, che – sebbene non richieda l’uso di formule solenni nè l’osservanza di particolari adempimenti – sia idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (vedi Cass. 3/12/2010 n. 24656, Cass. 25/8/2015 n. 17123, Cass. 14/6/2018 n. 15714).

4. Con il secondo motivo si prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 221 e 15 c.p.c. nonchè dell’art. 2735 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno ritenuto inammissibile la querela di falso proposta da essa ricorrente con riferimento alle lettere di messa in mora inviate dal N. per abusivo riempimento, sul rilievo che fosse necessario, all’uopo, la prova che la firma fosse stata apposta su foglio non ancora riempito, e che il riempimento fosse avvenuto “absque pactis” Si deduce, per contro, che specifiche prove testimoniali erano state articolate al riguardo, sicchè lo strumento istruttorio doveva ritenersi pienamente ammissibile. Si soggiunge, infine, che a tali conclusioni si sarebbe dovuto pervenire sulla base di due dichiarazioni rilasciate dalla controparte, di innegabile valore confessorio.

5. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.

Occorre premettere che la statuizione oggetto della presente critica, in tema di prova di abusivo riempimento di foglio in bianco, si pone nel solco della giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass. 7/3/2014 n. 5417, Cass. 22/8/2019 n. 21587) secondo cui la denunzia dell’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco postula la proposizione della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto “absque pactis” (non anche nell’ipotesi in cui il riempimento abbia avuto luogo “contra pacta”).

Muovendo da tale principio, la Corte di merito ha ritenuto, tuttavia, che l’appellante non avesse formulato un capitolo di prova attinente alla circostanza che gli addetti alla reception avessero apposto la firma su un foglio in bianco sottoposto dal N. e riempito da quest’ultimo, senza alcun controllo.

La ricorrente ritiene invece che il capitolato di prova articolato al riguardo, e del seguente tenore – “vero che le scritte “da P. N. a Dott. V….raccomandata a mano per ricevuta 10/5/2007…non sono state apposte dalla sig.ra Va. che ha soltanto firmato il foglio in bianco”, fosse idoneo allo scopo.

Al riguardo deve rimarcarsi che, quand’anche dimostrata, la circostanza che il N. avesse proceduto al riempimento del foglio successivamente alla sottoscrizione da parte delle addette alla ricezione, integrava un comportamento conforme alla prassi aziendale, ben evidenziata in sentenza (vedi pag. 3) ed ammessa dalla medesima società sin dal primo grado di giudizio.

Non è riscontrabile, quindi, nello specifico, il requisito della decisività dello strumento probatorio che, secondo i consolidati dicta di questa Corte, consente di dare ingresso a siffatta tipologia di censura.

In tale ipotesi il ricorrente ha, infatti, l’onere non solo di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, ma anche di dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, e che la pronuncia senza quell’errore sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (vedi ex plurimis, Cass. 4/10/2017 n. 23194, Cass. 7/3/2017 n. 5654).

Il vizio correlato alla mancata ammissione della prova testimoniale, secondo il ricordato orientamento, essere denunciato per cassazione solo nel caso ih cui la prova non ammessa ovvero non esaminata, in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento.

Il motivo va disatteso anche nella parte in cui fa leva sul tenore di talune dichiarazioni rese dal N., alle quali si intende conferire valenza confessoria.

Viene rimarcato che nella lettera 23/2/2010, con riferimento alla pretesa azionata nel presente giudizio, il N. aveva assunto che il “bonus” non gli era stato erogato malgrado i ripetuti solleciti verbali, con ciò escludendo che egli avesse già inoltrato sollecitazioni per iscritto.

Si richiama altresì la dichiarazione – cui si conferisce la medesima valenza probatoria di natura confessoria – resa dal lavoratore in occasione dell’incontro tenutosi il 5/3/2010 presso l’avv. Bonuomo Nicola in (OMISSIS), in cui il lavoratore faceva riferimento alla lettera firmata dall’ing. B.C. del 1983 (avente ad oggetto il trattamento economico da riconoscere al dipendente all’atto della cessazione del rapporto), il cui contenuto non aveva mai specificato prima, dati i rapporti intercorsi fra le parti, ma che era stato indotto ad esplicare, nel momento in cui la società manifestato l’intento di porre il figlio in cassa integrazione.

La Corte di merito ha al riguardo argomentato, con riferimento all’atto in data 23/2/2010, che lo stesso non integrava elemento inequivoco idoneo di ad escludere l’ulteriore inoltro di intimazioni scritte, considerato altresì che nella parte finale, il lavoratore osservava che la missiva valeva “quale ulteriore atto interruttivo della prescrizione a tutti gli effetti, oltre a quelli già formalmente intervenuti”.

La deduzione al riguardo formulata dall’appellante, era, poi, da reputarsi contrastante con le risultanze documentali, perchè la dichiarazione del N. sarebbe intervenuta, secondo la società B., il 5/3/2010, quando la stessa aveva già ricevuto la lettera raccomandata del 23/2/2010 con la quale erano state ribadite tutte le pretese successivamente azionate.

Le richiamate statuizioni, assolutamente congrue, non appaiono suscettibili di sindacato in questa sede di legittimità.

In tema di prova civile, l’indagine volta a stabilire “se una dichiarazione della parte costituisca o meno confessione – e, cioè, ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte – si risolve invero, in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se fondato (come nella specie, per quanto sinora detto) su di una motivazione immune da vizi logici (vedi Cass. 14/2/2020 n. 3698, Cass. 24/1/2019 n. 2048).

In definitiva, al lume delle sinora esposte considerazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono il regime della soccombenza, liquidate come in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre spese al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020

 

 

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