Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18248 del 16/09/2016


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Cassazione civile sez. II, 16/09/2016, (ud. 21/06/2016, dep. 16/09/2016), n.18248

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7763/2012 proposto da:

B.M., (OMISSIS), B.A. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 2, presso lo studio

dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentati e difesi dagli avvocati

GIOVAN LUDOVICO DELLA FONTANA, GUGLIELMO DELLA FONTANA in virtù di

procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE MODENA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CAMOZZI N. 1,

presso lo studio dell’avvocato ADRIANO GIUFFRE’, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato VINCENZO VILLANI in virtù di

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 616/2011 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 16/05/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/06/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Giovanni Contestabile per delega dell’Avvocato Della

Fontana per i ricorrenti, e l’Avvocato Francesca Giuffrè per delega

dell’Avvocato Adriano Giuffrè, per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento dei primi due

motivi, inammissibili il terzo ed il quarto, assorbiti il quinto ed

il sesto, e rigettati il settimo e l’ottavo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 24 settembre 1993, B.A., B.M. e M.B., i primi due quali eredi di Be.Al., e la seconda quale titolare dell’usufrutto uxorio, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Modena il Comune di Modena, affinchè fosse dichiarata la nullità ovvero l’inefficacia del contratto del 18 giugno 1968, con conseguente obbligo di restituzione del terreno alienato, ovvero, in via subordinata che, previa applicazione della L. n. 2359 del 1865, art. 63, atteso che il terreno non aveva ricevuto la destinazione prevista, il bene fosse liberato da ogni vincolo espropriativo con la conseguente retrocessione.

A sostegno della domanda evidenziavano che il congiunto con atto pubblico del 18 giugno 1968 aveva venduto al Comune di Modena un appezzamento di terreno sito in (OMISSIS), riportato in Catasto al foglio 97/100 mappali 7704, 7708, 7696, 6037 sub a, 12868 per una complessiva superficie di mq. 44.539.

Nel contratto era stato dichiarato che il terreno era destinato allo sviluppo edilizio, urbanistico e popolare della zona, precisandosi che era ricompreso nel PEEP del Comune di Modena approvato con D.M. 10 ottobre 1967, n. 1259.

Il terreno, alla data della citazione individuato in Catasto al foglio 139, mappale 55 non aveva ricevuto la prevista destinazione, restando inutilizzato, ed il successivo PRG approvato nel 1993 aveva liberato il terreno da ogni vincolo espropriativo.

Si costituiva in giudizio il Comune convenuto il quale evidenziava che in realtà il fondo non era mai statbinserito nel PEEP, concludendo per il rigetto della domanda, e per l’accoglimento, in via riconvenzionale della domanda di usucapione della proprietà.

Nel corso del giudizio gli attori, assumendo di avere appreso solo in corso di causa della mancata inclusione ab origine del bene tra quelli ricompresi nel PEEP, chiedevano dichiararsi altresì l’annullamento del contratto per errore.

Il Tribunale di Modena con la sentenza n. 838 del 12 maggio 2006 rigettava la domanda attorea.

Deceduta nelle more del giudizio M.B., i germani B. proponevano appello avverso la decisione del Tribunale, e si costituiva il Comune di Modena che a sua volta proponeva appello incidentale chiedendo accogliersi la domanda di usucapione proposta in via riconvenzionale.

La Corte d’Appello di Bologna con la sentenza n. 616 del 16 maggio 2011 rigettava entrambi i gravami.

Quanto all’azione di annullamento del contratto, “indipendentemente quindi dalla ritualità dell’inserimento della domanda di annullabilità del contratto per vizi della volontà (domanda in realtà apoditticamente inserita, con integrazioni, nelle conclusioni contenute nel foglio allegato al verbale di udienza del 1996 senza alcuna specifica in proposito)…”, reputava che la stessa fosse prescritta.

Infatti, non poteva assumere rilievo la conoscenza del mancato inserimento dei mappali del bene oggetto di causa nel PEEP, che gli stessi attori assumevano essere avvenuta solo in corso di causa, atteso che gli stessi non avevano preso parte al contratto, e dovendo quindi in realtà provare che era il loro dante causa ad ignorare la suddetta circostanza. In effetti gli attori non avevano provato l’ignoranza del genitore, ma si erano limitati a far discendere dalla loro ignoranza la pretesa di spostare in avanti di ben venticinque anni la decorrenza del termine di prescrizione quinquennale.

Quanto all’esistenza della presupposizione, che secondo la tesi attorea era ricollegata alla circostanza che il contratto era condizionato implicitamente alla destinazione del bene ad edilizia economica popolare, laddove invece il Comune ne aveva variato la destinazione, rilevava la Corte distrettuale che in realtà il dante causa degli attori aveva concluso tre contratti di compravendita, e mentre i primi due effettivamente ricomprendevano dei mappali ricadenti nel PEEP, il terzo, e precisamente quello oggetto di causa, non aveva ad oggetto terreni aventi tale qualità.

Riteneva che la presupposizione ricorra allorquando dal contenuto del contratto si evinca l’esistenza di una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipula, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venire meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti.

Nella fattispecie, proseguiva la sentenza d’appello, non solo si ignora se il venditore sapesse o meno (anzi dovendo conoscere la circostanza, desumibile da un documento proveniente dalla Prefettura) del mancato inserimento dei beni nel PEEP, ma sicuramente il comune era consapevole di tale fatto, posto che i terreni avevano come destinazione quella a centro direzionale di espansione.

In ogni caso la destinazione del bene era rimessa alla iniziativa di una delle parti e non si fondava su elementi estranei ai contraenti.

Infine, così come affermato dalla Suprema Corte, il comune non era vincolato a dare al bene acquistato la destinazione eventualmente inserita nel contratto di compravendita, posto che laddove ne muti la destinazione urbanistica, non ricorrono le condizioni per invocare la presupposizione.

A ciò doveva aggiungersi che non appariva chiaro quale fosse l’interesse degli attori, atteso che gli stessi hanno riconosciuto che la vendita avvenne a prezzo di mercato, sicchè non è dato ravvisare alcun depauperamento in danno della parte venditrice.

La Corte bolognese disattendeva altresì l’appello incidentale, rilevando che correttamente il Tribunale non aveva emesso alcuna decisione sulla domanda riconvenzionale di usucapione proposta dal Comune, avendo affermato la piena validità del contratto di compravendita, sicchè non vi era spazio, in presenza di un valido titolo acquisitivo di natura derivativa, per accertare l’usucapione.

Per la cassazione di tale sentenza, B.A. e M. hanno proposto ricorso, affidato ad otto motivi.

Il Comune di Modena ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dei principi generali dell’ordinamento in materia di successione a titolo universale, ed in particolare dell’art. 588 c.c., nonchè degli artt. 1442 e 2697 c.c.. Evidenziano che solo a seguito della costituzione in giudizio del Comune dinanzi al Tribunale di Modena, si era dedotto che i terreni oggetti di causa in realtà non erano mai stati ricompresi nel PEEP, sicchè avevano immediatamente richiesto pronunziarsi l’annullamento del contratto, del quale avevano inizialmente richiesto la declaratoria di invalidità, nullità o inefficacia invocando la presupposizione, per il vizio del volere rappresentato dall’errore.

La Corte distrettuale ha tuttavia affermato che era maturata la prescrizione dell’impugnativa negoziale, in quanto gli attori, che avevano agito in qualità di credi del genitore, e che non avevano preso parte al contratto, avevano fatto decorrere il termine di prescrizione dalla loro conoscenza del mancato inserimento dei beni nel PEEP, laddove avrebbero invece dovuto dimostrare che era il genitore ad ignorare tale circostanza.

Assumono i ricorrenti che opinando in tal modo, la sentenza impugnata avrebbe violato il precetto di cui all’art. 1442 c.c., che appunto per l’ipotesi di errore, fa decorrere la prescrizione dell’azione di annullamento a far data dalla scoperta dell’errore stesso, che nel caso di specie era avvenuta solo a seguito della lettura delle difese del Comune.

Peraltro, alla luce del contenuto del contratto di vendita, doveva ritenersi provata la circostanza che il venditore fosse in errore alla data del contratto, sicchè, una volta dimostrata tale circostanza, alcun rilievo poteva avere il fatto che ad agire per l’annullamento fossero gli attori in qualità di eredi dell’originaria pane contraente.

Infatti, in base alle regole generali in materia di successione universale, l’erede può esercitare tutte le azioni spettanti al de cuius, e quindi, ove la conoscenza dell’errore intervenga dopo la morte del contraente, ad opera dei suoi eredi, ben possono questi ultimi instare per l’annullamento del contratto, nel rispetto del termine quinquennale dall’intervenuta conoscenza.

Con il secondo motivo di ricorso lamentano, sempre in relazione all’affermazione della Corte distrettuale, circa la prova della conoscenza della mancata inclusione dei beni nel PEEP, l’omessa o quantomeno insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in quanto la valutazione offerta sul punto dalla sentenza impugnata non aveva evidentemente tenuto conto dei documenti in atti.

In particolare il contratto di cessione del 18 giugno 1968, così come la delibera autorizzativa dell’atto adottata dal Consiglio Comunale di Modena in data 9/3/1965 n. 233, prevedevano che i beni fossero stati inseriti nel PEEP, e precisamente in quello approvato con D.M. 10 ottobre 1967, n. 1259. La stessa Delib., oltre a richiamare nell’oggetto, l’esigenza di provvedere all’acquisto di un terreno da destinare all’edilizia economia e popolare, nella premessa ribadiva che le aree acquisende erano da destinare allo sviluppo dell’edilizia economica e popolare, e nel testo si precisava poi che il bene aveva formato oggetto di vincolo in base alla L. n. 167, e che nella determinazione del prezzo di acquisto, come elemento di carattere essenziale, si era tenuto conto appunto del detto vincolo.

L’esame di tali documenti avrebbe quindi permesso alla Corte di merito di riscontrare che effettivamente, sebbene in maniera erronea, il B. riteneva che il terreno veduto era ricompreso nel PEEP, sicchè, ravvisata la prova dell’errore in capo al contraente, la prescrizione non poteva che decorrere dal momento in cui gli attori avevano appreso del mancato inserimento del bene nel detto piano.

Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 163 e 164 c.p.c., nonchè l’omessa o quanto meno insufficiente motivazione circa un fato controverso e decisivo per il giudizio.

La Corte di merito ha, infatti, disatteso la domanda di annullamento, ritenendola prescritta, ma ha altresì affermato che “indipendentemente quindi dalla ritualità dell’inserimento della domanda di annullabilità del contratto per vizi della volontà (domanda in realtà apoditticamente inserita, con integrazioni, nelle conclusioni contenute nel foglio allegato al verbale di udienza del 1996 senza alcuna specifica in proposito)…”.

Per l’ipotesi in cui si ritenga che con tali espressioni la sentenza impugnata abbia opinato per l’inammissibilità della domanda de qua, i ricorrenti evidenziano che la stessa era già stata avanzata in occasione della celebrazione della seconda udienza dinanzi al Tribunale, e che nel foglio di deduzioni allegato avevano chiaramente enunciato la causa petendi, dovendo quindi essere disatteso il giudizio di apoditticità ed aspecificità espresso sul punto dalla Corte emiliana.

La domanda era stata poi reiterata, anche con ricchezza di argomentazioni nei successivi scritti difensivi, la cui disamina è stata del tutto omessa da parte dei giudici di merito, inficiandone in tal modo la motivazione.

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione della L. n. 167 del 1962, artt. 3, 4 e 9, nonchè l’omessa o insufficiente motivazione su di un fatto controverso.

Il motivo investe il rigetto della domanda di invalidità ed inefficacia del contratto basata sull’istituto della presupposizione, che la sentenza impugnata fonda sul fatto che il mancato inserimento dei terreni nel PEEP era evincibile dal decreto prefettizio allegato al contratto di compravendita, dal quale si ricavava che il terreno venduto aveva come destinazione, non già quella di edilizia economica e popolare, bensì quella di centro direzionale di espansione.

Assumono i ricorrenti che tale affermazione sia erronea in diritto, in quanto non tiene conto del fatto che la destinazione del terreno a centro direzionale di espansione, contemplata nel PRG del Comune di Modena all’epoca vigente, non è incompatibile con l’inclusione dello stesso bene nel PEEP.

Ed, infatti, se ai sensi della L. n. 167 del 1962, art. 9, il PEEP ha valore di piano particolareggiato, ai sensi dell’art. 3 è necessario che esso vada localizzato, quanto meno di norma, nelle zone destinate ad edilizia residenziale nei piani di regolatori vigenti, con preferenza per quelle di espansione.

Ne discende che la destinazione contenuta nel PRG a centro direzionale di espansione è perfettamente compatibile con l’inserimento del medesimo bene anche nel PEEP, di guisa che il provvedimento prefettizio non permetteva di poter affermare con certezza che il terreno fosse escluso dal PEEP.

Con il quinto motivo di ricorso si denunzia la violazione degli artt. 1353, 1355, 1418 e 1421 c.c., nonchè della L. n. 2359 del 1865, art. 28, dei principi generali in materia di presupposizione, oltre che, ex art. 360, n. 5, l’omessa ovvero insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La Corte d’appello ha, infatti, escluso l’operatività della presupposizione ritenendo che la situazione presupposta era rimessa alla scelta di una delle parti contrattuali.

In realtà i ricorrenti avevano fondato nei gradi di merito la propria domanda sul fatto che la cessione era stata effettuata sul presupposto che il bene, in quanto inserito nel PEEP, era soggetto ad espropriazione.

Ma l’approvazione o l’eventuale modifica del PEEP è opera di un Decreto Ministeriale, sicchè doveva escludersi che la scelta circa l’assoggettamento al vincolo espropriativo fosse rimessa alla controparte negoziale.

Inoltre, anche a voler escludere che l’espropriabilità del bene fosse una condizione oggettiva, alla quale era estranea la volontà del Comune, alla fattispecie avrebbe dovuto trovare applicazione la L. n. 2359 del 1865, art. 28, che prevede che i contratti aventi ad oggetto l’alienazione di terreni interessati dalla dichiarazione di p.u., ma non ancora dal piano particolareggiato di esecuzione, si considerano sottoposti alla condizione ex lege che, una volta approvato il piano, i beni siano compresi nell’espropriazione.

Poichè il PEEP ha valore di piano particolareggiato di esecuzione, e per l’effetto, della L. n. 1150 del 1942, ex art. 16, equivale a dichiarazione di pubblica utilità, e poichè la sua approvazione equivale anche a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza, la mancata inclusione del bene nel PEEP, avrebbe condotto alla declaratoria di inefficacia del contratto, per l’avveramento di una condizione risolutiva, ovvero alla declaratoria di nullità, essendo il contratto sottoposto ad una condizione sospensiva meramente potestativa.

Inoltre appare del tutto erroneo il riferimento contenuto in motivazione alla possibilità per il Comune di poter modificare successivamente all’acquisto la destinazione del terreno, trascurandosi che nel caso di specie il fondamento della domanda attorea è costituito proprio dal mancato inserimento ab origine del bene nel PEEP.

Con il sesto motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 100 c.p.c., nonchè degli artt. 1353, 1355, 1418 e 1421 c.c., della L. n. 2359 del 1865, art. 28, dei principi in materia di presupposizione, della L. n. 167 del 1962, artt. 3 e 9, nonchè l’omessa ed insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La Corte distrettuale avrebbe infatti affermato che non si comprenderebbero le ragioni della richiesta di caducazione del contratto, in assenza di un depauperamento della parte venditrice in conseguenza della vendita.

Oltre ad evidenziare che la richiesta di nullità del contratto prescinde dal depauperamento del richiedente, in quanto l’interesse far valere tale patologia prescinde da tale dato, evidenziano che durante tutto il giudizio avevano sottolineato che in realtà il prezzo versato dal Comune era inferiore al prezzo di mercato, come confermato anche dal tenore della Delib. n. 233 del Comune sopra richiamata, nella quale si ricordava che dell’imposizione del vincolo di cui alla L. n. 167 del 1962, si era tenuto conto nella determinazione del prezzo della compravendita.

Nelle memorie conclusionali in grado di appello, si era poi sottolineato che effettivamente il prezzo era superiore all’indennità calcolata in base ai valori agricoli medi, così come disciplinata dalla L. n. 865 del 1971, trattandosi di norma entrata in vigore in data successiva alla data del contratto, ma si era ribadito che era comunque inferiore al valore venale, essendo stata determinata con il metodo di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13 (semisomma tra valore venale e fitti coacervati).

Con il settimo motivo di ricorso si denunzia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto, sebbene in appello gli attori avessero chiesto dichiararsi la nullità del contratto per difetto di causa, posto che la vendita aveva rappresentato una forma alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo, sicchè l’inesistenza del vincolo espropriativo, in conseguenza del mancato inserimento del bene nel PEEP, determinava l’assenza di causa, tale richiesta non era stata in alcun modo esaminata da parte del giudice di appello.

Infine con l’ottavo motivo si lamenta, sempre in relazione all’art. 112 c.p.c., la nullità della sentenza in quanto non si sarebbe pronunziata sulla domanda di nullità, invalidità ovvero inefficacia del contratto fondata sulla previsione di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 28.

2. Con i primi tre motivi di ricorso, gli attori investono nel complesso la statuizione con la quale i giudici di appello hanno disatteso la domanda di annullamento per errore del contratto, sul presupposto della sua prescrizione.

2.1 L’ordine logico delle questioni impone però in via preliminare la disamina del terzo motivo di ricorso che investe a monte la stessa ammissibilità della domanda in esame, in quanto avanzata solo in corso di causa, ed a seguito della affermazione contenuta negli scritti difensivi dell’ente locale circa il fatto che il bene oggetto della compravendita non rientrava tra quelli inclusi nel PEEP.

Tuttavia, il motivo deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse.

La Corte distrettuale, infatti, pur manifestando alcune perplessità in ordine alla ammissibilità della domanda di annullamento, in ragione della sede in cui era stata avanzata e del suo contenuto, tuttavia ha ritenuto di dover prescindere da tali rilievi pregiudiziali, pervenendo ad una decisione nel merito, ancorchè di rigetto in ragione della ritenuta prescrizione.

Deve pertanto reputarsi che abbia implicitamente opinato per la sua ammissibilità, e che conseguentemente i ricorrenti siano privi di interesse a dolersi circa una affermazione dei giudici di appello svolta ad abundantiam, ma che comunque non ha inciso sul concreto contenuto della decisione, che è appunto una statuizione di merito.

2.2. I primi due motivi di ricorso invece, per evidente connessione logico-argomentativa vanno esaminati congiuntamente, in quanto tesi a contestare le ragioni per le quali la Corte bolognese ha ritenuto prescritta la domanda di annullamento del contratto.

La peculiarità della vicenda risiede nel fatto che il contratto di cui si chiede l’annullamento, peraltro non da pane dell’originario contraente, ma dai suoi eredi, risale al 1968, laddove la domanda risulta avanzata solo nel 1993, a distanza di oltre venticinque anni dalla sua conclusione.

A fronte della deduzione di parte ricorrente, secondo cui, dovendo trovare applicazione la previsione di cui all’art. 1442 c.c., che in tema di errore fa decorrere il termine prescrizione quinquennale dalla scoperta dell’errore stesso, la data di inizio della prescrizione doveva individuarsi in quella di deposito della comparsa di risposta del Comune, nella quale si affermava che in realtà il terreno oggetto di causa, contrariamente a quanto ritenuto dal dante causa degli attori, non era masi stato incluso nel PEEP, la sentenza impugnata ha invece affermato che la conoscenza dell’errore era del tutto irrilevante, e che in realtà gli attori avrebbero dovuto provare che era il loro genitore ad ignorare la circostanza de qua, aggiungendosi poi che tale prova non era stata fornita.

La conclusione dei giudici di merito non può essere condivisa.

Ed, invero, conformemente a quanto dedotto nel motivo di ricorso, è indubbio che le azioni di impugnativa contrattuale, quale per l’appunto anche quella di annullamento per errore, ove abbiano ad oggetto rapporti patrimoniali suscettibili di trasmissione iure hereditatis, siano destinate a transitare nel patrimonio degli eredi universali, legittimati come tali a farle valere, ancorchè al fine di lamentare il vizio che ha inficiato la volontà del loro dante causa (cfr. per l’esercizio dell’azione di annullamento per incapacità naturale da parte degli eredi Cass. n. 25819/2013).

Se tuttavia la scoperta del vizio, cui la norma subordina l’inizio della decorrenza del termine prescrizionale, avvenga in epoca successiva alla morte del contraente, è evidente che la riferibilità soggettiva dell’evento non appare più attribuibile alla parte ormai deceduta, ma debba essere rapportata alla persona degli eredi, che in quanto subentrati nel complesso delle situazioni giuridiche attive e passive facenti capo al de cuius, appaiono essere gli unici legittimati a far valere anche l’azione di annullamento, una volta che se ne siano manifestati i presupposti.

In tal senso appare erronea l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui sarebbe del tutto ininfluente la conoscenza dell’errore da pane degli eredi, non avendo gli stessi preso parte al contratto, in quanto la stessa, presa nella sua assolutezza, verrebbe a determinare la perdita di un diritto in capo al titolare, anche laddove il mancato esercizio, come nelle ipotesi previste dall’art. 1442 c.c., dipenda da particolari impedimenti, che ancorchè di fatto, sono stati ritenuti dal legislatore, con la previsione de qua, idonei a determinare uno spostamento in avanti del dies a quo della prescrizione, per evidenti e condivisibili esigenze di tutela del contraente, la cui volontà risulti viziata.

Ed, invero, a seguire il ragionamento dei giudici di appello, e che cioè la conoscenza avutasi da parte degli eredi sia del tutto ininfluente, ove il decesso del contraente intervenga prima della scoperta del vizio, e sebbene al de cuius non sia imputabile alcuna colpevole inerzia nella tutela del suo diritto, ciò malgrado, nel caso in cui la scoperta dell’errore sia effettuata dagli eredi dopo cinque anni dalla stipula del contratto, egualmente sarebbe preclusa la possibilità di agire per l’annullamento del contratto viziato.

In effetti tale affermazione, di cui si palesa evidente l’incompatibilità con i principi in materia successoria, in ordine al riconoscimento della trasmissione in favore degli eredi anche delle impugnative negoziali, appare poi temperata dalla sentenza impugnata con l’ulteriore asserzione secondo cui in realtà gli appellanti avrebbero dovuto provare che il comune dante causa era caduto in errore, aggiungendo che tale prova non era stata fornita, pretendendo le parti semplicemente di fruire di uno slittamento in avanti di ben venticinque anni del termine prescrizionale dell’azione di annullamento.

Orbene, mentre la prima affermazione, circa l’ininfluenza della scoperta dell’errore in capo agli eredi, allorchè tale scoperta sia avvenuta dopo la morte del contraente, risulta in evidente violazione dei principi giuridici in materia successoria, la seconda appare invece viziata sotto il profilo della insufficienza della motivazione, rivelandosi il frutto di un’apodittica considerazione, che prescinde del tutto dalla disamina degli elementi probatori raccolti in corso di causa.

Reputa il Collegio che, a contrario, proprio dal tenore del contratto di cui viene chiesto l’annullamento, unitamente con quello della delibera del Consiglio Comunale di autorizzazione alla stipula dell’atto di vendita, emerge che si è reiteratamente dato atto che il terreno alienato con l’atto in esame (e non solo quelli oggetto dei precedenti atti di vendita intervenuti tra le medesime parti nel marzo e nel luglio del 1967) era incluso nel PEEP (cfr. in tal senso la premessa dell’atto di compravendita, l’art. 7 del contratto – ove oltre a richiamarsi i benefici fiscali previsti dalla L. n. 167 del 1962, in ragione della destinazione del terreno acquistato allo sviluppo edilizio urbanistico, edilizio e popolare della zona, nell’ultimo capoverso si afferma espressamente che il terreno appartiene al PEEP di cui al D.M. n. 1259 del 1967 – ovvero l’art. 7 della Delib., nel quale si riconosce espressamente che il terreno compravenduto ha formato oggetto del vincolo di cui alla L. n. 167 e che di ciò si è tenuto conto nella determinazione del prezzo di compravendita).

Orbene, costituisce principio già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 4293/1997), quello secondo cui, poichè la localizzazione delle aree da destinare a edilizia residenziale pubblica, con l’eventualità che le stesse siano oggetto di procedura ablativa discende direttamente dalla legge, nell’ipotesi in cui l’amministrazione comunale acquisti dal privato tali aree, la suddetta eventualità (di ricorso a procedura ablativa), ancorchè non specificamente rappresentata, non può non rilevare come presupposto oggettivo di tutta l’operazione negoziale, presupposto da ricollegarsi al principio di buona fede contrattuale, più che a presunte determinazioni volitive delle parti (nella specie in presenza di un’area di proprietà di un privato e destinata a interventi di edilizia economica e popolare acquistata dal Comune che l’aveva successivamente ionizzata e rivenduta a privati ad un prezzo di molto superiore a quello d’acquisto, la Corte ha cassato per vizi di motivazione la sentenza di merito che aveva rigettato le domande del privato intese ad ottenere la risoluzione dell’originario contratto di compravendita in applicazione dei principi in materia di presupposizione, ovvero l’annullamento del suddetto contratto per vizi del consenso).

Ebbene in presenza di un costante e reiterato riferimento negli atti contrattuali ad una specifica qualità del bene compravenduto, idonea ad influenzare potenzialmente anche la manifestazione del consenso del venditore, risulta quindi del tutto apodittica, ed in ogni caso svincolata dalla puntuale disamina degli elementi probatori, l’affermazione del giudice di appello secondo cui non sarebbe stata offerta la prova dell’ignoranza dell’errore da parte del venditore.

Per l’effetto la sentenza deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna, affinchè, previo riesame dei fatti di causa verifichi se il dante causa degli attori era o meno in errore circa la mancata inclusione del terreno venduto nel PEEP, attenendosi comunque al seguente principio di diritto: “nel caso in cui l’azione di annullamento del contratto per errore sia esercitata dagli eredi del contraente che si asserisce essere caduto in errore, ai fini della decorrenza della prescrizione dell’azione in base alla previsione dell’art. 1442 c.c., comma 2, rileva anche la scoperta ad opera degli eredi, ove la stessa intervenga in epoca successiva alla morte dell’originaria parte contraente, rimasta ignara dell’errore”.

3. Analogamente devono essere trattati congiuntamente il quarto ed il quinto motivo di ricorso, con i quali viene contestata la validità della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la possibilità di invocare l’istituto della presupposizione, assumendo, da un lato, che il venditore avrebbe ben potuto conoscere, atteso il contenuto del provvedimento di autorizzazione prefettizia allegato all’atto di vendita, che il bene non rientrava nel PEEP, circostanza che sicuramente era nota al Comune, posto che i mappali interessati dall’atto in questa sede impugnato avevano come destinazione quella di centro direzionale di espansione, e dall’altro che, non essendo il Comune vincolato a conservare la destinazione originaria, era carente il requisito della non riconducibilità dell’evento presupposto alle parti stesse.

A tal fine occorre ricordare, come peraltro ben presente anche ai giudici distrettuali, che l’istituto della presupposizione – introdotto in modo espresso ed in via generale nel nostro ordinamento dalla norma dell’art. 1467 c.c. – ricorre quando una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante il negozio (cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa). A tal fine, pertanto, si richiede: 1) che la presupposizione sia “comune” a tutti i contraenti; 2) che l’evento supposto sia stato assunto come “certo” nella rappresentazione delle parti (ed in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di presupposto “obiettivo”, consistente, cioè, in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dalla attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica loro obbligazione (cfr. Cass. n. 4554/89).

In particolare, acanto a precedenti nei quali si fa riferimento al venir meno di una situazione di fatto o di dritto che le parti avevano inteso come certa (così da ultimo Cass. n. 21122/2015, a mente della quale la presupposizione non attiene nè all’oggetto nè alla causa del contratto, ma consiste in una determinata situazione di fatto esterna al contratto che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce specifico e oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del medesimo, assumendo – per entrambe le parti o anche per una sola di esse, ma con il riconoscimento dell’altra parte – valore determinante ai fini del mantenimento del vincolo contrattuale; conf. n. 20245/2009; Cass. n. 6631/2006), non mancano anche precedenti per i quali è possibile invocare l’istituto on oggetto anche nella diversa ipotesi in cui la situazione presupposta in effetti non sia mai esistita o comunque non esista al momento della conclusione del contratto (così Cass. n. 24925/2006; Cass. n. 14629/2001).

Con specifico riferimento alla compravendita di beni inclusi in un PEEP, questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi (cfr. Cass. n. 4293/1997) affermando che qualora, con Delib. della Giunta comunale, siano state localizzate le aree da destinare a edilizia residenziale pubblica, l’eventualità che dette aree siano oggetto di procedura ablativa discende direttamente dalla legge, atteso che, a norma del D.L. n. 115 del 1974, art. 3 (convertito con modifiche in L. n. 247 del 1974), l’indicazione delle aree effettuata ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 51 “comporta la dichiarazione di pubblica utilità di tutte le opere che sulle stesse devono essere eseguite….”. Pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione comunale acquisti dal privato tali aree (già individuate ai sensi del citato art. 51), la suddetta eventualità (di ricorso a procedura ablativa), ancorchè non specificamente rappresentata, non può non rilevare come presupposto oggettivo di tutta l’operazione negoziale, presupposto da ricollegarsi al principio di buona fede contrattuale, più che a presunte determinazioni volitive delle parti (nella specie un’area di proprietà di un privato e destinata a interventi di edilizia economica e popolare era stata acquistata dal Comune che l’aveva successivamente lottizzata e rivenduta a privati ad un prezzo di molto superiore a quello d’acquisto. La S.C. ha cassato per vizi di motivazione la sentenza di merito che aveva rigettato le domande del privato intese ad ottenere la risoluzione dell’originario contratto di compravendita in applicazione dei principi in materia di presupposizione, ovvero l’annullamento del suddetto contratto per vizi del consenso).

Appare quindi evidente, ove si ritenga che l’istituto invocato dai ricorrenti possa trovare applicazione, non solo al caso di sopravvenuto venir meno della situazione presupposta ma anche in caso di carenza originaria, che la fattispecie dedotta in giudizio si presta ad essere disciplinata alla luce dei suesposti principi.

In tale ottica le critiche mosse dai ricorrenti agli argomenti in base ai quali la Corte di merito ha escluso che potesse farsi applicazione dell’istituto della presupposizione colgono nel segno.

Come visto, al fine di escludere l’ignoranza in capo ad entrambi i contraenti circa l’inserimento dei terreni oggetto dell’atto di compravendita nel PEEP, la sentenza gravata ha fatto leva sul contenuto del provvedimento di autorizzazione prefettizia per la vendita in esame, nel quale si faceva menzione di una destinazione dei terreni a centro direzionale di espansione, sul presupposto che la stessa fosse incompatibile con quella a PEEP.

Ma in senso contrario a quanto ora esposto vale considerare il combinato disposto della L. n. 167 del 1962, artt. 3 e 9, il quale permette di affermare che, contrariamente a quanto invece opinato in diritto dalla Corte distrettuale, la inclusione nel PEEP non esclude la circostanza che il terreno, così come riportato nell’autorizzazione prefettizia, sia inserito nel PRG come zona adibita a centro direzionale di espansione, essendo tale dizione sicuramente riconducibile alla più ampia nozione di zona di edilizia residenziale con finalità di espansione.

Ed, infatti l’art. 3 della citata legge al comma 2, prevede che le aree da comprendere nei piani sono, di norma, scelte nelle zone destinate ad edilizia residenziale nei piani regolatori vigenti, con preferenza in quelle di espansione dell’aggregato urbano, laddove poi l’art. 9 dispone che l’approvazione dei piani equivale anche a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza di tutte le opere, impianti ed edifici in esso previsti.

Le affermazioni del giudice di merito per le quali il venditore avrebbe potuto trarre dal provvedimento prefettizio la certezza circa il non inserimento nel PEEP e quindi la non corrispondenza al vero che i beni avevano la destinazione indicata in contratto non appaiono confortate dalla corretta interpretazione delle previsioni di cui alla L. n. 167.

Così come pure non risulta adeguatamente motivata l’affermazione per la quale il Comune era consapevole del mancato inserimento nel PEEP, a fronte di quanto reiteratamente riportato nel contratto e nella delibera del Consiglio Comunale e senza che fosse ciò confutato necessariamente dal provvedimento del Prefetto.

Quanto alla non imputabilità del mancato verificarsi dell’evento presupposto, reputa il Collegio che ciò sia invocabile nel caso in cui si determini il venir meno sopravvenuto della circostanza presupposta, ma non anche nel caso di carenza originaria quale nel caso in esame si prospetta, occorrendo in ogni caso tener conto del fatto che l’inserimento del terreno nel PEEP deriva da un provvedimento di provenienza ministeriale che sfugge in quanto tale, almeno in parte, al potere discrezionale dell’ente locale.

4. Del pari fondato si palesa il sesto motivo, in quanto l’interesse alla caducazione del contratto deve prescindere dal fatto che le prestazioni non fossero tra loro corrispettive, analogamente al caso di nullità, ove l’interesse può ravvisarsi anche in quello alla rimozione del vincolo contrattuale.

Inoltre, il richiamo alle difese di cui alla comparsa conclusionale in grado di appello, fatto dalla Corte bolognese per giustificare la carenza di interesse, ove raffrontate con le argomentazioni sviluppate nel motivo, appare parziale e non tiene conto del reale tenore delle difese, quali riportate in ricorso, posto che con le stesse si intendeva contestare in ogni caso che il prezzo corrispondesse all’effettivo valore di mercato.

Tale considerazione trova poi conforto anche nella delibera consiliare, nella quale si dà atto che alla determinazione del prezzo si è pervenuti tenendo conto della natura dei beni da acquistare, affermazione questa che allude chiaramente ad una stima che teneva conto del vincolo di cui alla L. n. 167, legata alla potenzialità che il bene potesse essere sottoposto ad espropriazione, e che lascia intendere che non sia stato determinato secondo il criterio del valore di mercato.

Trattasi di elemento che risulta essere stato del tutto omesso nella valutazione compiuta da parte della Corte bolognese e che ha indubbiamente influito nella conclusione per la quale il venditore non avrebbe subito alcun depauperamento dalla vendita a raffronto con una vendita avvenuta secondo le regole del libero mercato.

5. Il settimo e l’ottavo motivo che possono essere esaminati, congiuntamente attesa la loro connessione, sono invece infondati.

Ed, infatti, anche a voler sottacere evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio dell’autosufficienza, non avendo la parte puntualmente allegato quando siano state introdotte le domande di nullità di cui ai motivi in esame, occorre ricordare che alla luce dei principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 26242 del 2014, in tema di rilievo officioso della nullità contrattuale, sebbene sia possibile compiere ciò anche in grado di appello, ai fini dell’eventuale rigetto della domanda di adempimento ovvero di quella volta a far valere una diversa patologia contrattuale, è in ogni caso inammissibile una domanda di nullità ove avanzata per la prima volta in appello.

Gli stessi ricorrenti nel motivo assumono che la domanda di nullità per la pretesa violazione di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 28, era stata avanzata in grado di appello, di modo che si tratterebbe di una domanda comunque inammissibile.

Ne consegue che non è possibile configurare la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla mancata decisione su di una domanda comunque inammissibile, e ciò alla luce del pacifico orientamento di legittimità, per il quale (cfr. Cass. 2/10/2010 n. 24445; Cass. 25/5/2006 n. 12412) l’omessa pronuncia, qualora cada su una domanda inammissibile, non costituisce vizio della sentenza e non rileva nemmeno come motivo di ricorso per cassazione, in quanto alla proposizione di una tale domanda non consegue l’obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito.

Ove invece si ritenga che la richiesta di dichiarare la caducazione del contratto per la carenza ab origine della presupposizione, sia una richiesta di dichiarare la nullità, sarebbe ammissibile la richiesta di pronunziare la nullità sebbene sulla base di una diversa ragione rispetto a quella prospettata inizialmente (dovendo in tal senso provvedere anche d’ufficio il giudice).

Tuttavia, laddove, come accaduto nel caso di specie il giudice disattenda la domanda di invalidità proposta dal contraente, ci troviamo in ogni caso dinanzi ad una pronuncia che abbia, quanto meno in maniera implicita, disattesa la domanda di nullità, dovendo quindi escludersi che sussista il dedotto vizio di difetto di pronuncia.

Per completezza di motivazione non può in ogni caso non evidenziarsi l’insussistenza nel merito della dedotta causa di nullità.

Ed, invero, così come precisato da Cass. n. 1025 del 1971 il presupposto primo ed inderogabile perchè un negozio possa ritenersi inserito in un procedimento espropriativo, e quindi sottoposto alla disciplina dell’invocato art. 28, è l’esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, sicchè qualora detta dichiarazione manchi o sia divenuta inefficace, il negozio traslativo rimane un atto di autonomia privata, potendosi riconoscere alla destinazione del bene considerata dalle parti l’efficacia di un motivo (in senso conforme circa la necessità della dichiarazione di p.u., Cass. n. 1512/1970; Cass. S.U. n. 583/1969).

Orbene, poichè nella fattispecie è emerso che i terreni oggetto di causa non sono mai stati inseriti nel PEEP, è evidente che la dichiarazione di pubblica utilità che si ricollega all’approvazione dei detti piani non sussiste, venendo pertanto esclusa altresì la sussumibilità del contratto nella previsione di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 28, rilevando l’erroneo convincimento eventualmente a fondare le diverse domande di annullamento per errore ovvero di caducazione per l’istituto della presupposizione.

6. In ragione dell’accoglimento dei primi due motivi di ricorso e dei motivi da quattro a sei, si impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna che si atterrà ai suesposti principi, provvedendo altresì in merito alle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso, rigetta il settimo e l’ottavo, ed accoglie per quanto di ragione il primo, il secondo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo, e per l’effetto cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2016

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