Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18221 del 02/09/2020

Cassazione civile sez. II, 02/09/2020, (ud. 20/02/2020, dep. 02/09/2020), n.18221

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 610/2016 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CONCA D’ORO

300, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BAFILE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO BAFILE,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.S.A., D.S.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1252/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 3/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/02/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Il Tribunale di L’Aquila con sentenza n. 288 del 16 giugno 2008 rigettava la domanda di P.F. volta ad ottenere la condanna di D.S.A. e D.S.S. all’arretramento del fabbricato costruito dai convenuti sul fondo a confine con la proprietà dell’attore sita in località (OMISSIS), in quanto realizzato in violazione delle distanze legali, osservando che il P. non aveva fornito la prova dei fatti costitutivi della domanda, essendo decaduto da ogni richiesta istruttoria.

La Corte d’Appello di L’Aquila con la sentenza n. 1252 del 3 dicembre 2014 ha rigettato l’appello del P..

Una volta confermata la dichiarazione di decadenza dell’appellante dalle richieste istruttorie, atteso che le medesime non erano state nemmeno specificate in appello, la Corte distrettuale osservava che non vi era alcun elemento per poter affermare che il fabbricato dei convenuti fosse stato edificato nel 1996, atteso che la relativa concessione edilizia era stata richiesta nel 1991 ed emessa nel 1993.

Ma una CTU, espletata in un diverso giudizio e relativa al medesimo edificio, evidenziava che nel novembre del 1993 sul fondo dei convenuti era presente un corpo di fabbrica in muratura di pietrame attualmente demolito nel quale erano in ogni caso individuabili parte dei muri esterni, secondo il perimetro graficamente allegato all’elaborato peritale.

Da altra CTU espletata nel 1979 emergeva poi che il preesistente fabbricato sul fondo avesse una consistenza di due piani, con finestre in entrambi i piani, alcune delle quali però oscurate da un ampliamento del fabbricato frontistante all’epoca di proprietà di P.B..

Poteva quindi ritenersi accertato che sul terreno dei convenuti esisteva un edificio a due piani, ma non era anche possibile stabilire quando venne demolito. Inoltre le foto in atti permettevano di affermare che l’edificio attuale fosse collocato nella medesima area che era graficamente ritratta nell’allegato alla prima relazione tecnica menzionata in sentenza.

Non era quindi possibile sostenere che il manufatto del quale era stata chiesta la demolizione fosse una nuova costruzione, atteso che, pur dovendo escludersi che si fosse in presenza di una mera ristrutturazione, era verosimile sostenere che i convenuti avessero realizzato una ricostruzione del preesistente immobile.

Quindi richiamati i tratti distintivi tra ristrutturazione e ricostruzione, la sentenza d’appello ricordava che si ha una nuova costruzione solo nel caso in cui, a seguito della nuova attività edificatoria, si realizzi un aumento della volumetria o una modifica della sagoma d’ingombro.

Peraltro, nella fattispecie, il Programma di Fabbricazione vigente nel comune di Campotosto all’epoca della ricostruzione non solo limitava alle sole nuove costruzioni il rispetto delle distanze previste dalla normativa antisismica, ma consentiva la demolizione degli edifici preesistenti e la loro riedificazione nel rispetto dei perimetri preesistenti con un aumento dell’altezza massima sino a metri 7,50 (anche nell’ipotesi in cui l’edificio demolito fosse di altezza inferiore).

Ne derivava che la costruzione dei convenuti non poteva essere qualificata come nuova costruzione ai fini del rispetto delle distanze, nè nel suo complesso, nè in relazione alla sopraelevazione del preesistente edificio (che non sembrava, dalle fotografie in atti, superare la predetta altezza complessiva di metri 7,50).

Ne derivava anche l’infondatezza dell’altro motivo di appello, atteso che essendo necessario verificare la corrispondenza tra l’edificio ricostruito e quello originario, il cui onere probatorio incombeva sull’attore, la mancata verifica di tale corrispondenza non consentiva di affermare la differenza tra i due edifici, potendosi unicamente affermare l’identità degli ingombri perimetrali.

Ciò escludeva la possibilità di applicare l’art. 873 c.c., in quanto per invocare il principio di prevenzione occorreva dimostrare che l’edificio dell’attore fosse preveniente, dimostrazione che non era stata fornita, stante l’impossibilità di riscontrare la differenza tra l’edificio preesistente e quello oggetto di ricostruzione dei convenuti.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso P.F. sulla base di due motivi.

D.S.A. e D.S.S. non hanno svolto difese in questa fase.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c., in relazione all’art. 871 c.c., ed della L. n. 1684 del 1962, art. 8.

Si deduce, in presenza di un dato pacifico rappresentato dalla sopraelevazione della nuova costruzione dei convenuti rispetto a quella preesistente, con un incremento di volumetria, che non era possibile ravvisare una mera ricostruzione, insensibile alla sopravvenuta disciplina in tema di distanze.

Ne deriva che andava applicata la normativa sopravvenuta, senza che potesse conservarsi la distanza calcolata in relazione all’edificio demolito.

Inoltre non potrebbe invocarsi la sopravvenuta disciplina urbanistica più favorevole, in quanto per la sua applicazione è necessario che sia completato l’iter amministrativo, e che dunque intervenga l’approvazione da parte dell’organo di controllo e la pubblicazione.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c., in relazione al diverso profilo per cui, facendosi riferimento alla normativa sopravvenuta, che consente di definire come mera ricostruzione anche quel fabbricato che sia riedificato nel rispetto dei perimetri preesistenti, purchè l’altezza sia contenuta nel limite di metri 7,50, la sentenza gravata ha ritenuto che tale limite fosse stato rispettato, senza però procedere ad alcuna precisa misurazione, ma basandosi su di un giudizio sommario, fondato sulla sola disamina di alcuni reperti fotografici.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono fondati.

Passando al merito, si rileva che la sentenza impugnata, pur partendo da una corretta distinzione tra attività di ristrutturazione e quella di ricostruzione, come fondata sui precedenti di questa Corte, è però pervenuta nella sostanza ad una falsa applicazione della relativa normativa.

La giurisprudenza di questa Corte nella sua più autorevole composizione ha affermato che (Cass. S.U. n. 21578/2011) nell’ambito delle opere edilizie – anche alla luce dei criteri di cui alla L. 5 agosto 1978, n. 457, art. 31, comma 1 lett. d) – la semplice “ristrutturazione” si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la “ricostruzione” allorchè dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima (conf. Cass. n. 15041/2018).

Si è altresì precisato che laddove vi sia una differenza tra vecchio e nuovo edificio (Cass. n. 472/2016), anche nel caso in cui lo strumento urbanistico locale non contenga una norma espressa che estenda alle “ricostruzioni” le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le “nuove costruzioni”, la disciplina dettata per queste ultime trova applicazione solo relativamente a quella parte del fabbricato ricostruito che eccede i limiti di quello preesistente, aggiungendosi altresì che (Cass. n. 362/2017) in tema di usucapione del diritto a mantenere una distanza tra immobili inferiore a quella legale (invocato nella fattispecie), poichè per il suo acquisto è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo ed ininterrotto, inteso inequivocabilmente all’esercizio sulla cosa di un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena, il possesso continuato è interrotto quando la vecchia costruzione sia sostituita da una costruzione nuova, cioè modificata per dimensioni e volumetrie – che, pertanto, deve rispettare le distanze legali vigenti al momento della sua realizzazione.

Infatti, la nozione di ricostruzione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), che ricomprende in essa anche gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione” di fabbricati esistenti, presuppone che la ricostruzione avvenga “con la stessa volumetria e sagoma” dell’edificio demolito. Tale disciplina nella sua versione originaria, anteriore al D.Lgs. n. 301 del 2002, era ancora più restrittiva, giacchè rientravano negli interventi di ricostruzione solo “quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”. In ogni caso, anche nel testo successivo al 2002, rientrano nella nozione de qua solo gli interventi di demolizione e ricostruzione che rispettino il vincolo di “volume” e “sagoma”, poichè è solo con il D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 30, che il legislatore ha espunto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), il riferimento alla “sagoma”, lasciando in quella norma solo la menzione del vincolo di “volume”, ma si tratta di normativa non rilevante al fine del presente giudizio, giacchè ai sensi del comma 6, la disposizione dell’art. 30 cit. si applica dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L., cioè art. 6 dall’entrata in vigore della L. 9 agosto 2013, n. 98, quindi successivamente all’emanazione del provvedimento e alla realizzazione del fabbricato oggetto del presente giudizio.

A fronte di tale restrittiva nozione di ricostruzione, la sentenza impugnata si è soffermata solo sul rispetto dei perimetri preesistenti, senza però svolgere alcuna indagine quanto al riscontro dell’identità della volumetria e dell’altezza originarie, pur avendo riconosciuto che non era dato sapere quale fosse l’altezza del fabbricato preesistente e che si profilava un’attività anche di sopraelevazione, sebbene contenuta nell’altezza dei meri 7,50.

Rispetto alla precedente definizione di ricostruzione, ed avuto riguardo alla fattispecie in esame, non può avere influire ai fini della decisione della presente controversia la novella di cui al D.L. n. 32 del 2019, art. 5, convertito nella L. n. 55 del 2019, che ha introdotto del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 2 bis, comma 1 ter, specificando che ” in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purchè sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”. La ratio della riforma è quella di assicurare la possibilità di ricostruzione anche senza il vincolo della sagoma preesistente, ma purchè sia assicurata la medesima volumetria, ma impone anche il rispetto inderogabile del limite di altezza dell’edificio preesistente.

Nel caso in esame, se risulta rispettato il limite delle mura perimetrali preesistenti e quindi dell’area di sedime originaria, vi è anche un riconoscimento in sentenza che l’altezza è differente e quindi non potrebbe invocarsi la normativa sopravvenuta.

Una volta posta tale precisazione, deve ritenersi che la sentenza impugnata non abbia fatto corretta applicazione dei suddetti principi per un duplice profilo.

In primo luogo, afferma che l’onere di provare la non identità tra fabbricato demolito e quello ricostruito incomba sull’attore che intende far valere il rispetto della normativa delle distanze esistente alla data della ricostruzione (pag. 5 ultimo capoverso), affermazione questa che ha decisamente influito sull’esito della decisione e che contrasta invece con la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 15041/2018, a mente della quale, in tema di violazioni delle distanze legali, il proprietario che lamenti la realizzazione di un manufatto su un fondo limitrofo a distanza non regolamentare deve dare prova solo del fatto della costruzione e di quello della dedotta violazione, mentre il convenuto, che affermi di avere acquisito per usucapione il diritto di mantenere il suo fabbricato a distanza inferiore a quella legale per avere ricostruito un edificio preesistente “in loco”, deve dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’acquisto a titolo originario, vale a dire la presenza per il tempo indicato dalla legge del manufatto nella stessa posizione e l’assoluta identità fra la nuova e la vecchia struttura).

In secondo luogo la sentenza impugnata ha proceduto ad una falsa applicazione della normativa in materia di ricostruzione edilizia, in quanto, oltre ad avere indebitamente invertito l’onere della prova, lascia trasparire in motivazione la convinzione che si abbia ricostruzione anche quando sia semplicemente rispettato il perimetro della costruzione originaria, senza che si imponga (pur avendo enunciato correttamente in premessa quale sia la nozione di ricostruzione) il rispetto anche della preesistente volumetria. Inoltre, anche a voler riconoscere che lo strumento urbanistico locale parifichi alla ricostruzione la costruzione che, a seguito di demolizione del manufatto originario, avvenga nel rispetto dei perimetri preesistenti, ma con un’altezza contenuta nei 7,50 metri, non si perita di verificare se tale limite sia stato effettivamente assicurato, assumendo che l’opera ” non pare” superare tale altezza, senza però procedere ad alcuna verifica effettiva (e ciò anche a voler soprassedere circa la legittimità di una previsione normativa di rango secondario che offra una nozione di ricostruzione difforme da quella invece ricavabile dalla normativa di rango primario).

Il ricorso deve quindi essere accolto con la cassazione della sentenza impugnata, per consentire, alla luce dei principi esposti, un nuovo esame da parte della Corte d’Appello di L’Aquila in diversa composizione

3. Il giudice del rinvio, come sopra designato, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

PQM

Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, nei limiti di cui in motivazione, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di L’Aquila in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020

 

 

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