Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18216 del 02/09/2020

Cassazione civile sez. II, 02/09/2020, (ud. 20/02/2020, dep. 02/09/2020), n.18216

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2114/2016 proposto da:

S.S., G.G., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA VAL CRISTALLINA 3, presso lo studio dell’avvocato AMILCARE

SESTI, rappresentati e difesi dall’avvocato SALVATORE LOMBARDO;

– ricorrenti –

contro

L.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DARDANELLI

21, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI GRAMAZIO, rappresentata

e difesa dall’avvocato DOMENICO NIGRO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1237/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 14/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/02/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 4 giugno 2010 il Tribunale di Siracusa, decidendo sulla controversia promossa da S.S. e G.G. nei confronti dei confinanti L.N. e C.F., ha rigettato la domanda di demolizione della sopraelevazione realizzata dai convenuti, argomentata sulla base della dedotta inosservanza della distanza di dieci metri, e ha accolto la domanda principale e quella riconvenzionale, ordinando la rimozione delle rispettive canne fumarie ovvero la loro elevazione per almeno tre metri al di sopra delle case vicine.

2. Con sentenza depositata il 14 luglio 2015 la Corte d’appello di Catania ha rigettato l’appello proposto dallo S. e dalla G., in relazione al mancato accoglimento della domanda di demolizione della sopraelevazione, e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale della L., ha rigettato la domanda di demolizione e regolarizzazione della canna fumaria, provvedendo, altresì, ad “annullare” anche la condanna dello S. e della G., in quanto la domanda nei loro confronti era stata esplicitamente subordinata all’accoglimento della loro pretesa.

Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che l’art. 10 del Piano regolatore generale prevedeva soltanto, in relazione alla zona A, interventi di tipo conservativo e non la realizzazione di una nuova costruzione, quale, nel caso di specie, doveva essere ritenuta la sopraelevazione realizzata dagli appellati L. e C., b) che, pertanto, essendo preclusa una attività costruttiva e in difetto di prescrizioni specifiche in tema di distanze per le nuove costruzioni, ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, trovava applicazione la disciplina generale dettata dall’art. 873 c.c.; c) che la costruzione degli appellati si trovava a distanza ben maggiore di tre metri dal confine; d) che la canna fumaria realizzata dagli appellati, pur illegittima al momento della sua realizzazione, era divenuta legittima, per effetto dell’art. 58 del regolamento edilizio vigente nel 2009, secondo il quale tutte le canne di scarico devono prolungarsi per almeno un metro al di sopra del tetto o terrazza e la fuoriuscita dei fumi deve avvenire a non meno di dieci metri da qualsiasi finestra o quota uguale superiore; e) che, nel caso di specie, non essendovi finestre a quote uguali o superiori, la canna, collocata ad altezza di 2,60 metri, era divenuta illegittima.

3. Avverso tale sentenza lo S. e la G. hanno proposto, nei confronti della sola L., ricorso per cassazione affidato ad un unico, articolato motivo, al quale ha resistito la N. con controricorso. I ricorrenti hanno depositato atto denominato “comparsa conclusionale”. La L. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con motivo di ricorso si lamenta “violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, quale previsto dagli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 5 e all’art. 2697 c.c., rispettivamente, per violazione di norme di legge e di regolamenti edilizi comunali, per nullità della sentenza e per omesso esame di atti e fatti decisivi a sostegno delle domande proposte dagli attori”.

Si rileva: a) che la Corte territoriale, al pari del Tribunale, non aveva esaminato le domande, proposte con l’atto di citazione e reiterate in appello, con le quali era stata dedotto che le opere realizzate dai vicini erano consistite non nella ristrutturazione e bonifica della vecchia costruzione, ma nel suo ampliamento e sopraelevazione, traducendosi in interventi non consentiti dal regolamento edilizio comunale vigente all’epoca e da quello successivamente approvato; b) che, pertanto, la Corte d’appello aveva erroneamente ritenuto legittima la costruzione della L., che, tuttavia, non era stata autorizzata dal competente ufficio tecnico comunale e non consisteva nella mera ristrutturazione del complesso edilizio preesistente; c) che l’assenza di titoli abilitativi era stata confermata dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio; d) che, in definitiva, doveva essere applicata la disciplina dettata del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, n. 1, secondo cui le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti e comunque non inferiori a dieci metri; e) che la richiesta di rimozione della canna fumaria scaturiva dalla necessità di rispettare la distanza di dieci metri dal confine della proprietà dei ricorrenti e di un metro di altezza rispetto alla linea di colmo dei tetti degli immobili confinanti e dall’esigenza di salvaguardare il libero godimento delle vedute esercitate dalle terrazze; f) che i testimoni ascoltati avevano confermato che lo stato di fatto dell’immobile dei ricorrenti risaliva ad oltre cinquant’anni prima dalla data della loro deposizione, dimostrando, in tal modo, l’avvenuto acquisto per usucapione ultraventennale del diritto di servitù di veduta esercitata dalle terrazze del loro immobile.

2. Occorre, preliminarmente, rilevare l’inammissibilità della produzione della certificazione, datata 22 gennaio 2020, a firma del responsabile del quinto settore del Comune di Palazzolo Acreide, attestante la data di approvazione del piano regolatore particolareggiato del centro storico, e dell’estratto delle relative norme tecniche di attuazione, non trattandosi, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., di documenti riguardanti la nullità della sentenza impugnata o l’ammissibilità del ricorso o del controricorso.

3. La scelta dei ricorrenti di non notificare l’atto di impugnazione al C., che era stato evocato in giudizio in primo grado, quale comproprietario (e, quindi, in ragione della sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario: v., ad es., Cass. 23 settembre 2019, n. 23564), e poi dinanzi alla Corte territoriale, pare giustificata dall’affermazione della L., all’atto della costituzione in appello, di avere acquistato la quota del primo.

Anche in tale caso, tuttavia, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., comma 1, il processo prosegue tra le parti originarie.

Ne discende che dovrebbe procedersi alla integrazione del contraddittorio.

E, tuttavia, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o qualora questo sia prima facie infondato, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio e non essendovi, in concreto, esigenze di tutela del contraddittorio, delle garanzie di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (v., ad es., Cass. 10 maggio 2018, n. 11287).

4. Ciò posto, esaminando le varie articolazioni del motivo di ricorso, si osserva, in primo luogo, che la Corte territoriale ha rigettato la domanda di demolizione della sopraelevazione interpretando e applicando la disciplina in materia di distanze.

I ricorrenti, insistendo sulla illegittimità della costruzione realizzata sul fondo finitimo, in quanto non limitata ad un mero intervento conservativo e pertanto priva di titolo abilitativo, parrebbero dolersi del mancato esame della pretesa fondata su siffatta causa petendi.

Tuttavia non riproducono siffatta diversa domanda.

Ora, la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che, preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità, diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (v., ad es., Cass. 13 marzo 2018, n. 6014, la quale ne ha tratto la coerente conseguenza che il ricorrente ha l’onere di riprodurre gli atti e documenti del giudizio di merito nei loro passaggi essenziali alla decisione e di precisare l’esatta collocazione dei documenti nel fascicolo d’ufficio al fine di renderne possibile l’esame nel giudizio di legittimità).

Tutto ciò, fermo restando, peraltro, che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, in caso di costruzione realizzata in violazione di norme edilizie, al fine dell’accoglimento della domanda volta ad ottenere, come nel caso di specie, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, con conseguente demolizione del manufatto, non è sufficiente accertare l’illegittimità dello stesso, ma è necessario verificare che la disposizione edilizia violata abbia carattere integrativo delle norme poste dal codice civile a tutela dei diritti dei proprietari confinanti, atteso che, soltanto in presenza di tale condizione, l’art. 872 c.c., comma 2, consente, oltre che il risarcimento del danno, la rimozione in forma specifica degli effetti della violazione (v., ad es., Cass. 28 luglio 2005, n. 15886).

5. Con riferimento alle articolazioni del motivo che investono il rigetto della domanda di demolizione per mancato rispetto delle distanze legali, rileva il Collegio che, in linea generale, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale – e in tali sensi, dovendosi procedere alla correzione della motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, in tema di distanze tra costruzioni, del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato in forza della L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies (c.d. legge urbanistica), aggiunto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicchè le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass., Sez. Un., 7 luglio 2011, n. 14953).

Ciò posto, del D.M. n. 1444 del 1968 cit., art. 9, comma 1, n. 2), in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Cass. 20 maggio 2008, n. 12767; 15 febbraio 2018, n. 3739).

Tuttavia, in tale cornice normativa, la critica dei ricorrenti rimane comunque priva di specificità, dal momento essi non deducono che sarebbe stata violata siffatta distanza – ossia quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti -, ma insistono sul limite di dieci metri, che non trova fondamento nell’art. 9 cit. e nel testo dell’art. 10 del regolamento edilizio vigente all’epoca dei fatti, da loro menzionato solo nella parte in cui individua la tipologia di interventi consentita nella zona A.

6. Con riguardo alle critiche che concernono la canna fumaria realizzata dalla controparte, i ricorrenti introducono un tema, quello della distanza dal confine, che non risulta essere stato sottoposto ai giudici di merito, dinanzi ai quali si è discusso, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, solo dell’altezza del manufatto.

In altre parole, l’assenza di allegazione di una diversa e più ampia domanda, alla luce dei principi ricordati supra sub 4, rende inammissibile la censura indicata, al pari di quella che si correla al rispetto del diritto di veduta acquisita.

7. La L., nel controricorso, ha chiesto la condanna delle controparti ai risarcimento del danno per responsabilità aggravata.

La giurisprudenza di questa Corte ha concluso per l’ammissibilità della richiesta ex art. 96 c.p.c., comma 1, proposta nel giudizio di legittimità, purchè essa sia formulata, come, nel caso di specie” nel controricorso (v., ad es., Cass. 30 ottobre 2018, n. 27715).

Tuttavia, nel caso di specie, non ravvisa il Collegio i presupposti della mala fede e della colpa grave, tenuto quantomeno conto del rilievo che è stato necessario provvedere alla correzione della motivazione in punto di diritto, con riguardo all’individuazione della cornice normativa di riferimento della controversia.

8. In conclusione, il ricorso va rigettato, al pari della richiesta di condanna, ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

Tenuto conto di tali esiti, ritiene il Collegio di compensare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale. Rigetta la richiesta di condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020

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