Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18212 del 02/09/2020

Cassazione civile sez. II, 02/09/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 02/09/2020), n.18212

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27530/2017 proposto da:

P.O., rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale

in calce al ricorso, dall’avv. Ermes Francesco Gallone;

– ricorrente –

contro

M.V., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Degli

Strozzi 30, presso lo studio dell’avvocato Diego Antonio Molfese,

che la rappresenta e difende, unitamente all’avvocato Michele

D’Altilia, in virtù di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3899/2017 della Corte d’appello di Milano,

depositata il 11/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/02/2020 da Dott. GIUSEPPE TEDESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Milano ha rigettato la querela di falso proposta da P.O. nei confronti di M.V. contro scrittura privata del 30 luglio 1990. In forza di tale scrittura, fatta valere dalla convenuta in diverso giudizio, il P. aveva venduto alla M. alcune unità immobiliari in (OMISSIS) al prezzo di lire 800.000.000, pagato in contanti.

Il P. aveva negato sia la autenticità della firma, sia, comunque, la riferibilità a lui delle dichiarazioni documentate nella scrittura, in particolare della dichiarazione di quietanza. La falsità oggettiva di tale dichiarazione di quietanza determinava comunque la nullità della vendita. Il tribunale ha rigettato inoltre la querela proposta dal P. contro due scritture prodotte in corso di causa, confermative della scrittura del 30 luglio 1990, rispetto alle quali si denunciava l’abusivo riempimento di fogli firmati in bianco sine pactis.

La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza, in base ai seguenti rilievi: a) mancanza di critiche di consistenza tale da disattendere le conclusioni del consulente tecnico “congruamente motivato e anche dopo le osservazioni delle parti”; b) gli esiti dell’istruzione non avevano confermato la tesi dell’appellante circa la non attendibilità della versione dei fatti prospettata dalla M., sicchè non c’erano elementi idonei nè per disattendere il contenuto documentale risultato autentico, nè per travolgere la validità della scrittura.

La corte di merito ha negato inoltre che gli elementi addotti in causa fornissero la prova dell’abusivo riempimento dei due fogli firmati in bianco, non essendo sufficiente la dimostrazione della disponibilità da parte di terzi di fogli firmati in bianco.

Per la cassazione della sentenza il P. ha proposto ricorso affidato a sette motivi, rilevandosi che la numerazione seguita nel ricorso, che giunge fino ad otto, non rispecchia il numero effettivo, mancando il quarto motivo. M.V. ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

La corte di merito non ha tenuto conto delle contestazioni mosse dall’attuale ricorrente contro le risultanze della consulenza grafica, condivise e fatte proprie dal tribunale.

Il motivo è infondato sotto tre diversi profili: a) in primo luogo, perchè il vizio di omessa pronuncia, che integra una violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., ricorre quando vi sia omissione di pronuncia su un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta a ottenere l’attuazione in concreto di una volontà delle legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica sulla quale deve essere emessa una pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass. n. 28308/20179). E’ stato quindi chiarito che non è configurabile omissione di pronuncia rispetto all’istanza di rinnovazione della consulenza tecnica formulata in grado d’appello, ma semmai un vizio di motivazione, in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata (Cass. n. 5339/2015); b) in secondo luogo, perchè vi sarebbero nella specie gli estremi di un implicito rigetto delle deduzioni difensive di cui si lamenta la mancata considerazione (Cass. n. 10001/2003): la nozione di rigetto implicito ricorre quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. n. 20311/2011; conf. n. 21612/2013; n. 17956/2015); c) in terzo luogo, perchè la corte d’appello ha pronunciato esplicitamente sulle censure tecnico-valutative mosse dall’appellante. Si legge nella sentenza impugnata: “non sussistono infatti elementi di critica all’elaborato peritale tale da discostarsi dalle conclusioni del consulente tecnico, congruamente motivate anche dopo le osservazioni delle parti”.

2. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Il ricorrente aveva richiamato l’attenzione della corte d’appello sulla necessità di non fermarsi, nell’accertamento della autenticità della sottoscrizione, alla consulenza tecnica grafica, che avrebbe dovuto essere valutata “nel coordinato quadro della coerenza logica con il contingente contesto nel quale l’atto di inserisce” (pag. 6 del ricorso).

Il motivo, al di là della improprietà della rubrica, è infondato.

Il ricorrente richiama un principio esatto: il giudice di merito, benchè abbia disposto consulenza grafica per verificare l’autografia di una scrittura disconosciuta, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base di qualsiasi elemento di prova obiettivamente conferente, quali la prova testimoniale, le presunzioni semplici, comprese quelle desunte da fatti acquisti a mezzo prova testimoniale, il comportamento processuale, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le varie fonti di accertamento della verità (giurisprudenza pacifica, vedi, fra le tante, Cass. n. 15686/2015; n. 14227/1999).

Secondo la corte d’appello “tutte le questioni addotte circa la non attendibilità della versione di fatti prospettata dalla M. non hanno trovato, nell’istruttoria condotta in primo grado, fondamento probatorio tale da disattendere il contenuto documentale risultato autentico”.

L’esame della sentenza evidenzia perciò che la corte d’appello dimostra di avere considerato il complesso degli elementi probatori; tuttavia ha riconosciuto che essi non erano tali da disattendere il contenuto documentale “risultato autentico” sulla base dell’indagine grafica.

Le ragioni addotte dalla corte di merito a sostegno del relativo convincimento, non più sindacabili in questa sede dal punto di vista del parametro della sufficienza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. S.U., n. 8053/2014), non forniscono argomento per sostenere che essa si sia ritenuta vincolata dalla consulenza e abbia perciò deliberatamente omesso la considerazione di altri elementi di prova.

Ciò posto è chiaro che la censura si sposta dal piano dei principi a quello della valutazione delle prove. Il ricorrente sostiene che gli elementi istruttori, correttamente valutati, avrebbero dovuto condurre a un diverso esito del giudizio. Una simile censura però, esaurendosi nella manifestazione di un mero dissenso dalla decisione assunta, non mediato dalla denuncia del mancato esame di uno o più fatti decisivi (arg. ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non è ammissibile in questa sede di legittimità. D’altronde, già nel vigore del testo previgente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si chiariva che il disposto della norma “non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la dichiarazioni comprese nel foglio che contiene la firma (Cass. n. 7681/2019; n. 4886/2007).

Il ricorrente, quindi, sotto la veste della denuncia di una omissione di pronuncia (non configurabile già in linea di principio, secondo quanto già detto nell’esame del primo motivo), censura la coerenza del giudizio di merito rispetto agli elementi di prova assunti.

Ciò in cassazione non è consentito ( ).

Si deve ancora aggiungere che una volta riconosciuta l’autenticità della firma, e con essa la riferibilità dell’intero suo contenuto all’autore, la quietanza costituiva confessione, impugnabile per difetto di veridicità alle condizioni previste dall’art. 2732 c.c. (errore di fatto o violenza) (Cass. n. 32458/2018; n. 4196/2014; n. 26325/2008).

Questa Corte ha chiarito che cosa diversa dal difetto di veridicità è la quietanza meramente apparente, rilasciata dal creditore in virtù di un accordo con il debitore, e ha escluso che in tal caso siano destinate a trovare applicazione le limitazioni alla “revoca” delle dichiarazioni confessorie contemplate dall’art. 2732 c.c.. Nello stesso tempo le sezioni unite hanno tuttavia escluso la possibilità per il creditore quietanzante di ricorrere alla prova testimoniale per dimostrare la simulazione assoluta della quietanza (Cass. S.U., n. 6877/2002; conf. n. 15380/2010; n. 9297/2012). La prova testimoniale è ammissibile nelle ipotesi previste dall’art. 2724 c.c. (Cass., S.U., n. 19888/2014).

Si ricorda che ex art. 2729 c.c., le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (Cass. n. 546/1970).

4. Il quarto motivo (indicato nel ricorso con il n. 5) denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c..

La corte d’appello ha deciso sulla base delle sole dichiarazioni rese dalla controparte, in sede di interrogatorio libero e formale, liquidando sbrigativamente le doglianze dell’appellante circa l’inverosimiglianza di quelle stesse dichiarazioni.

La censura, formalmente proposta in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è infondata.

E’ ovvio che non si denuncia l’omesso esame di un fatto, nel significato tecnico della espressione (Cass., S.U., n. 8053/2014), ma è inammissibilmente censurata la valutazione delle prove in quanto tale, per non avere la corte d’appello accreditato la diversa versione dei fatti proposta dal ricorrente.

Si richiamano le considerazioni proposte nell’esame dei motivi precedenti, senza che occorra aggiungere altro.

5. Il quinto motivo (sesto secondo la numerazione del ricorso) denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

La motivazione della sentenza impugnata è formale e inconsistente, priva dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo.

La corte d’appello avrebbe dovuto accertare che il prezzo non era stato pagato e fare discendere da ciò la nullità della scrittura per mancanza di causa.

Il motivo è infondato.

La motivazione esiste nella specie non solo quale parte grafica del documento, ma rende percepibili le ragioni del decisum, che possono compendiarsi nella riconosciuta autenticità della sottoscrizione sulla base delle conclusioni del consulente tecnico, in assenza di elementi idonei a far ritenere che l’esito dell’indagine tecnica non fosse compatibile con lo svolgimento dei fatti.

6. Il sesto motivo (settimo secondo la numerazione del ricorso denuncia nullità della sentenza) denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

La prova della falsità, soprattutto in relazione al riempimento sine pactis può essere data anche con presunzioni.

Anche questo motivo è infondato.

La corte d’appello non ha negato l’accesso alle presunzioni in via di principio, ma ha riconosciuto l’inidoneità di quelle addotte dalla parte ai fini della prova dell’abusivo riempimento. In particolare la corte ha riconosciuto che non fossero sufficienti a questo fine, in quanto generiche, le “modalità di svolgimento dei rapporti personali” e la “pacifica possibilità di accesso della M.” ai fogli lasciati in bianco.

E’ chiaro pertanto che, sotto l’impropria veste della denuncia dell’error in procedendo, non si denuncia nè un errore di tale natura, nè un errore nell’applicazione di norme o di principi, ma l’apprezzamento del giudice di merito, che è censurabile in cassazione nei limiti stabiliti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Al contrario il ricorrente non denuncia un omesso esame di un fatto decisivo (primario o secondario), nel senso chiarito dalle sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 8053/2014), ma pretende inammissibilmente di accreditare in sede di legittimità una considerazione della vicenda diversa da quella fatta propria dal giudice di merito.

7. Il settimo motivo (ottavo secondo la numerazione del ricorso) denuncia violazione degli artt. 115 e 166 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il tema è pur sempre quello del mancato pagamento del prezzo e della falsità della quietanza, dedotti in questo caso nella prospettiva della nullità del contratto in quanto liberalità priva del requisito di forma.

Il motivo è infondato per le considerazioni già espresse nell’esame motivi precedenti.

A un attento esame la censura consente di fare emergere l’equivoco che ispira l’intero ricorso. Si sostiene che l’accertamento della autenticità della firma non risolveva la lite, avendo “il P. denunciato anche la falsità del contenuto della scrittura ed, in particolare, della quietanza di pagamento ed aveva altresì chiesto che la compravendita senza il versamento del corrispettivo aveva determinato la natura liberale dell’atto, cui difettava la forma della donazione” (pag. 21 del ricorso).

La tesi non considera che l’accertamento dell’autenticità della firma fa assumere alla scrittura il valore di prova legale della provenienza della intera dichiarazione negoziale dall’apparente autore: quindi è in errore il ricorrente quando pretende di separare la provenienza formale del documento dalla riferibilità del suo contenuto al suo apparente autore (Cass. n. 18664/2012).

E’ vero invece che il valore di prova legale è limitato alla provenienza del documento e non al suo contenuto, che l’attore ha sempre la possibilità di impugnare con il ricorso alle normali iniziative negoziali (Cass. n. 8766/2018).

Al riguardo l’attuale ricorrente aveva fatto valere la nullità del negozio per il difetto di veridicità della quietanza. La corte gli ha dato torto su questo punto. L’intero ricorso è finalizzato a sostenere l’assunto che esistevano una miriade di circostanze presuntive idonee a fare emergere che la quietanza era falsa.

E’ stato già chiarito che, una volta accertata la autenticità della firma, e con essa la riferibilità all’autore anche della dichiarazione di quietanza, la prova per presunzioni e per testimoni non era in principio utilizzabile. Si deve aggiungere che la censura sulla valutazione delle presunzioni è proponibile in cassazione entro gli stretti limiti chiariti dalle sezioni unite con la sentenza n. 8053 del 2014: “in sede di legittimità il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione (fatto probatorio massima di esperienza – fatto accertato) senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata (potendo questa essere disattesa non già quando l’interferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma solo quando non sia da essa neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo) o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione” (Cass. n. 14953 del 2000).

Tutto ciò in perfetta aderenza con il principio, già seguito dalla giurisprudenza precedente alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo cui “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la S.C. di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (Cass. n. 11789/2005).

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo del versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020

 

 

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