Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18210 del 05/08/2010

Cassazione civile sez. un., 05/08/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 05/08/2010), n.18210

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.F. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato CARBONE

NATALE, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA

DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 165/2009 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 03/12/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito l’Avvocato Natale CARBONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

Il dr. M.F.A.G., all’epoca dei fatti sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di (OMISSIS), ricorre per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura, avendolo ritenuto responsabile degli illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18 e del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, e art. 2, comma 1, lett. a e q, a decorrere dalla data della sua entrata in vigore (19 giugno 2006), “per reiterato, grave e ingiustificato ritardo e/o omissione nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle proprie funzioni, mediante una modalita’ sistematica e consapevole di gestione dei procedimenti, anche per gravi reati, che ne sacrificava a priori una larghissima parte nella materie piu’ diverse, con compromissione del prestigio e della credibilita’ dell’ordine giudiziario, nonche’ in violazione del dovere di diligenza, con ingiusto danno per le vittime dei reati e per le persone coinvolte nei procedimenti”.

Al magistrato e’ stato addebitato il mancato tempestivo espletamento delle necessarie indagini, relative ai procedimenti a lui assegnati, che portava alla prescrizione dei reati, alla scadenza dei termini per procedere alle indagini preliminari e, se del caso, ai conseguenti provvedimenti di dissequestro.

Il dr. M. si e’ difeso eccependo che a lui erano stati assegnati procedimenti di colleghi trasferiti, che aveva dovuto far fronte anche agli impegni derivanti dall’essere stato assegnato alla DDA, dove aveva seguito processi molto delicati, che aveva dovuto far fronte a molteplici incombenti per i procedimenti ordinari, a lui assegnati in numero superiore alla media dell’ufficio, con un organico di segreteria assolutamente insufficiente, tanto che, nel suo ufficio, risultava al primo posto per produttivita’.

A sostegno dell’odierno ricorso il dr. M. prospetta quattro motivi di cassazione della sentenza impugnata, illustrati anche con memoria.

Diritto

Il ricorso non puo’ trovare accoglimento.

1. Con il primo motivo, denunciando la inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 1, e la contraddittorieta’ della motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente sostiene che, erroneamente e contraddittoriamente, il giudice disciplinare ha escluso che l’azione disciplinare sia stata iniziata tardivamente, il 19 maggio 2008, oltre il termine di decadenza annuale. Tale termine, secondo il ricorrente, doveva essere calcolato con decorrenza dalla data della concreta conoscenza dei fatti gia’ oggetto di un precedente giudicato disciplinare di assoluzione (sentenza n. 112 del 7 luglio 2006 riferita a fatti noti dall’ottobre 2004) e non a decorrere dalla date della burocratica annotazione al protocollo dell’ufficio del P.G., in data 18 dicembre 2007.

La censura e’, in parte, inammissibile e, in parte, infondata. E’ inammissibile in quanto presuppone un accertamento di fatto che non puo’ essere effettuato dal giudice di legittimita’, e cioe’ che i fatti oggetto del precedente giudicato disciplinare sarebbero gli stessi, almeno in parte, di quelli oggetto dell’odierno giudizio, infatti, la tesi presuppone una indagine di fatto avente ad oggetto l’esame parallelo delle due incolpazioni, al fine di verificare l’eventuale sovrapponibilita’, totale o parziale, dei fatti contestati. Si tratta di una valutazione di merito, inammissibile in questa sede, anche perche’ la censura non e’ autosufficiente (in che termini la questione e stata sollevata dinanzi al giudice di merito?) e, quindi, non puo’ essere accolta nemmeno come vizio di motivazione (come noto, anche il ricorso per cassazione redatto secondo le norme del codice di rito penale deve rispettare il principio dell’autosufficienza; v. Cass. pen. 16706/2008 “Deve essere recepito ed applicato anche in sede penale il principio della “autosufficienza del ricorso”, costantemente affermato, in relazione al disposto di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, dalla giurisprudenza civile, con la conseguenza che, quando si lamenti la omessa o travisata valutazione di specifici atti del processo penale, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era gia’ stato dedotto in precedenza), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimita’ il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso”; conf.

6112/2009, 11910/2010).

La censura e’ anche infondata perche’, come riferisce lo stesso ricorrente i fatti oggetto del precedente giudicato riguardavano la “trattazione dei procedimenti di criminalita’ organizzata (DDA)” mentre quelli oggetto dell’odierno giudizio fanno “riferimento alla definizione dei procedimenti ordinari” (p. 7 dell’odierno ricorso).

Anche ammesso che si sia trattato di fatti commessi nello stesso periodo (ma anche questo e’ un presupposto di fatto che non puo’ essere verificato in questa sede) , non si puo’ far derivare dalla sovrapponibilita’ cronologica dei fatti la loro identita’. Se sono state escluse negligenze ed altri illeciti disciplinari nella attivita’ svolta dal dr. M. nella gestione dei procedimenti di competenza della DDA, cio’ non significa che egli sia esente da censure in relazione alla attivita’ svolta, nello stesso periodo, presso l’ufficio di appartenenza. Conseguentemente, anche l’eccezione di giudicato e’ infondata. Il dr. M. vorrebbe accreditare la tesi della negligenza cronologicamente onnicomprensiva, in forza della quale qualsiasi negligenza o illecito disciplinare abbia commesso nel periodo oggetto del primo giudizio sarebbe assorbita e la si dovrebbe considerare gia’ conosciuta dall’ufficio titolare dell’iniziativa disciplinare. Ma, evidentemente, cosi’ non e’. Il ricorrente, per ottenere l’accoglimento della propria tesi, avrebbe dovuto dimostrare nel giudizio di merito la identita’ dei fatti ed eventualmente riproporre poi la questione con motivi autosufficienti dinanzi a questa Corte. Il fatto che siano stati esclusi comportamenti negligenti nella gestione dei processi di criminalita’ organizzata, non esclude che comportamenti negligenti possano essersi verificati nella gestione dei procedimenti ordinari, eventualmente proprio in conseguenza di una errata organizzazione del lavoro. Ne’ la contestazione degli illeciti disciplinari riferita alla gestione dei procedimenti di criminalita’ organizzata implica – come invece sostiene erroneamente il ricorrente per dimostrare la intempestivita’ della odierna azione disciplinare – che dovesse essere noto che anche la gestione dei procedimenti ordinari avvenisse in maniera irregolare.

2. Con il secondo motivo, viene denunciata la inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 unitamente a vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto affetta da contraddittorieta’, illogicita’ ed omissione.

In particolare il ricorrente assume:

2.1. (a) che non e’ vero, come invece afferma la SD che si sia mai rifiutato di restituire i fascicoli della DDA, scegliendo di dedicarsi a questi a discapito di quelli ordinari: dalla precedente sentenza di assoluzione risulterebbe che si tratto’ di un semplice ritardo; la censura e’ inammissibile in quanto implica valutazioni di merito che implicano, anche in questo caso, l’analisi comparativa delle contestazioni disciplinari ed anche perche’ carente di autosufficienza;

2.2. (b) che erroneamente la SD ha escluso che i fatti contestati siano consistiti in “semplici difficolta’ di azzeramento dell’arretrato”, avendo trascurato di considerare l’eccessivo carico di lavoro che gravava sul dr. M. (al quale era riconosciuto un alto coefficiente di laboriosita’), come risultava dal prospetto statistico e dalla comparazione con i carichi di lavoro degli altri sostituti; la censura e’ inammissibile perche’ attiene al merito, mira ad ottenere una inammissibile rivalutazione del materiale probatorio e comunque e’ carente di autosufficienza;

2.3. (C) che la motivazione e’ illogica nella parte in cui i giudici disciplinari danno atto della “notevole produttivita’ dell’incolpato negli anni presi in esame”, dei molteplici incarichi da lui svolti e delle serie difficolta’ organizzative dell’ufficio e tuttavia non hanno poi ritenuto che tali circostanze fossero idonee a giustificare i ritardi dell’incolpato; in realta’ la SD non formula un giudizio assoluto ma comparativo, perfettamente coerente sul piano logico, in quanto i ritardi accumulati dal dr. M. sembrano frutto della sua personale incapacita’ di programmare ed organizzare il proprio lavoro, nelle sue varie articolazioni. Infatti, come rilevano i giudici disciplinari, il dr. M., a fronte di una distribuzione omogenea dei fascicoli, ha accumulato ritardi che hanno determinato una pendenza abnorme (p. 7 della sentenza impugnata). Tale pendenza avrebbe dovuto essere smaltita in base a criteri oggettivi e razionali “che tenessero conto della scadenza dei termini di legge e, quindi, della definizione dei procedimenti piu’ antichi per i quali detti termini erano scaduti da tempo … la scelta nella trattazione dei procedimenti – scrivono ancora i giudici disciplinari – non puo’ essere arbitraria dovendo viceversa essere sempre improntata a criteri oggettivi e predeterminati” (p. 9 della sentenza impugnata).

Inoltre, nessuna illogicita’ puo’ rilevarsi nel fatto che i ritardi siano stati ritenuti ingiustificati, posto che la SD ha rilevato che spesso si trattava “di procedimenti nei quali nessun atto istruttorio andava svolto, potendo essi essere definiti sulla base della mera informativa ricevuta: risultano per tabulas, ad esempio, diversi casi di contravvenzioni in materia edilizia, ove il manufatto era stato inizialmente sequestrato ed e’ stato poi dissequestrato solo dopo molti anni, contestualmente al decreto di archiviazione del procedimento, con grave danno per l’indagato” (p. 9 della sentenza impugnata).

In definitiva, poi, la SD, con valutazione di merito insindacabile in questa sede (se non con censura autosufficiente), ha ritenuto che le giustificazioni addotte siano valutabili come attenuanti, ma non eliminano il disvalore dell’illecito disciplinare (ivi). Infatti, “i gravi e reiterati ritardi contestati al dott. M. sono sintomatici, appunto, di una incapacita’ dello stesso di adempiere in maniera adeguata ai doveri di diligenza, imposti dall’esercizio dell’attivita’ giurisdizionale. In questa ottica, i carichi di lavoro e la prospettata laboriosita’ avrebbero potuto assumere valore giustificativo soltanto nei limiti della ragionevolezza del ritardo”.

Tali parametri avrebbero potuto costituire causa di giustificazione soltanto se i ritardi non avessero superato i limiti della ragionevolezza: “l’efficacia scriminante di detti carichi di lavoro cessa in ogni caso quando quel ritardo finisca per assumere – come e’ avvenuto nel caso di specie – la valenza di un diniego di giustizia lungamente protratto” (p. 10 sentenza impugnata). Peraltro, il ricorrente non puo’ nemmeno eccepire la impossibilita’ di adempiere ai propri compiti, atteso che i giudici disciplinari hanno rilevato che i colleghi del dr. M. hanno fatto fronte a carichi di lavoro della stessa entita’, senza alcun disservizio: “Una piu’ equilibrata ripartizione delle energie lavorative tra le varie incombenze da svolgere, con una diversa e migliore organizzazione del lavoro, avrebbe senz’altro consentito al dott. M. – come ad altri P.M. della Procura di (OMISSIS) che si trovavano nelle stesse condizioni di difficolta’ – una definizione in tempi non connotati da irragionevolezza dei piu’ di 800 procedimenti penali contro noti oggetto di contestazione” (p. 10 della sentenza impugnata). Il quadro argomentativo sul quale fa leva la decisione appare dunque completo e coerente, per cui e’ da condividere la conclusione assunta dai giudici di merito secondo la quale “i ritardi nella definizione dei procedimenti penali contro noti, accumulati nell’arco temporale contestato, di piu’ di sette anni (dal 2001 all’aprile 2008), sono molteplici, gravi e non giustificati. Si tratta di condotte non occasionali, risalenti e perduranti nel tempo” (p. 11 della sentenza impugnata).

Il ricorrente denuncia poi un “travisamento della prova”, eccependo che:

e’ stata prodotta in giudizio la copia di tutti i fascicoli archiviati dai quali risultava che non tutti erano stati definiti per prescrizione e molti erano stati “riassegnati”;

la quasi totalita’ dei fatti risalivano ad epoca anteriore a quella indicata nella sentenza;

– non si e’ tenuto conto della esiguita’ del numero delle prescrizioni attribuite al dr. M. rispetto al numero complessivo di prescrizioni relative all’intero ufficio;

– il CSM non spiega come il dr. M. avrebbe dovuto organizzare il proprio lavoro.

Si tratta di rilievi che riguardano il merito della vicenda e non e’ compito della Corte di legittimita’ procedere al riesame degli atti.

Questa Corte puo’ valutare se ci siano lacune motivazionali nella sentenza impugnata, in relazione a specifici quesiti o questioni prospettati ai giudici di merito, ma si tratta di valutazione possibile soltanto se il ricorso alla stessa Corte riproduca testualmente i quesiti e le questioni prospettati (principio dell’autosufficienza), in maniera da valutarne preventivamente l’ammissibilita’ e la rilevanza, per poi, in caso di accoglimento, rimettere la valutazione di merito al giudice a quo. Nella specie le;

censure non appaiono autosufficienti. Cio’ vale anche con riferimento all’interrogativo sul come il dr. M. avrebbe dovuto organizzare il proprio lavoro. Sul punto, pero’, i giudici di merito hanno anche implicitamente risposto, in quanto l’incolpato avrebbe dovuto organizzarsi come hanno fatto i suoi colleghi che, a parita’ di carico, non hanno accumulato i suoi ritardi.

2.4. (d) che il dr. M. era molto apprezzato nell’ambiente di lavoro e quindi il suo comportamento non puo’ avere arrecato alcun danno al prestigio dell’ordine giudiziario e che manca una comparazione tra numero di procedimenti assegnati e quantita’ qualita’ di quelli definiti. Su quest’ultimo punto la censura e’ inammissibile per carenza di autosufficienza (quando e in che termini ha sollevato la questione dinanzi al giudice disciplinare?). Il primo punto e’ frutto di una non condivisibile petizione di principio in forza della quale il buon magistrato “vive di rendita”, nel senso che non avendo sbagliato per il passato non puo’ sbagliare nemmeno per il futuro. Inoltre, anche ammesso che non si sia verificato un danno di immagine dell’ordine giudiziario (ma i giudici di merito – p. 11 della sentenza – lo escludono; trattasi di violazioni “senz’altro idonee a compromettere il prestigio e la credibilita’ dell’ordine giudiziario”), resta il danno subito dalle vittime dei reati e delle persone coinvolte nel procedimento.

3. Con il terzo motivo, vengono denunciati inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 240 del 2006, artt. 1 e 2 travisamento di prove e contraddittorieta’ della motivazione. Il ricorrente assume di avere fornito la prova testimoniale di avere assolto a tutti i propri obblighi di ufficio, come emergerebbe dai verbali allegati all’odierno ricorso. Si tratta pero’ di valutazioni di merito che comunque si infrangono dinanzi all’affermazione, non contrastata, che altri colleghi con carichi di lavoro analoghi non hanno accumulato i ritardi del dr. M.. Questo, poi, eccepisce anche la contraddittorieta’ della motivazione che non avrebbe tenuto conto delle difficolta’ organizzative dell’ufficio e della riconosciuta notevole produttivita’ dell’incolpato. L’eccezione e’ infondata perche’ invece di tali circostanze la SD ha tenuto conto, come emerge dai brani di motivazione sopra riportati. I ritardi accumulati dal dr. M., giova ribadirlo, come sottolinea il giudice disciplinare sono oltre ogni limite di ragionevolezza e non possono essere giustificati dalla particolari condizioni dell’ufficio di appartenenza che non hanno impedito ad altri colleghi di lavorare con tempi ragionevoli.

4. Con il quarto ed ultimo motivo viene denunciata, ancora una volta, la inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e ma manifesta illogicita’ della motivazione della sentenza impugnata. Il ricorrente assume, ancora una volta, che i fatti addebitatigli non erano ingiustificati, tenuto conto della inadeguatezza delle segreterie dell’ufficio. I giudici di merito non avrebbero tenuto conto della inesigibilita’ dei comportamenti richiesti al magistrato, nemmeno ai fini della determinazione della sanzione irrogata. Sul profilo relativo alla inesigibilita’ del comportamento richiesto al magistrato in relazione ai carichi di lavoro e alla situazione dell’ufficio, valgono le considerazioni gia’ svolte. Quanto alla sanzione irrogata, i giudici hanno spiegato di essere vincolati al dettato legislativo che impone la censura come sanzione minima applicabile. Ne’ la parte ricorrente, nelle conclusioni, chiede una attenuazione (peraltro impossibile) della sanzione.

Conseguentemente, il ricorso deve essere rigettato. Non sussistono i presupposti per la liquidazione delle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso.

Cosi’ deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2010

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