Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18206 del 24/07/2017


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Cassazione civile, sez. II, 24/07/2017, (ud. 15/03/2017, dep.24/07/2017),  n. 18206

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3376-2013 proposto da:

B.A.M. (OMISSIS), B.G.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIUSEPPE DE LEVA 39, presso

lo studio dell’avvocato LUIGINA TUCCI, rappresentati e difesi

dall’avvocato GUIDO BOMPAROLA;

– ricorrenti –

contro

R.N., R.P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

SABOTINO, 46, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO ROMANO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE PANTO’;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3110/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 28/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/03/2017 dal Consigliere Dott. GRASSO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato BOMPAROLA Guido, difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato ROMANO Claudio, difensore dei resistenti che ha

chiesto di riportarsi;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Monza, con sentenza n. 1047/10, depositata il 30/3/2010, rigettata la domanda con la quale P.I. aveva chiesto condannarsi R.N. e R.P. a rilasciare un tratto di terreno, occupato senza titolo, cessare da ogni turbativa e risarcire il danno, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dai convenuti, dichiarò che costoro erano divenuti, per usucapione, proprietari esclusivi dello stanco di terreno in discorso.

Con sentenza depositata il 28 settembre 2012 la Corte d’appello di Milano rigettò l’impugnazione avanzata da B.A. e B.G.G., eredi di P.I., nelle more deceduta.

Avverso la statuizione d’appello ricorrono i B., prospettando tre motivi di censura. Resistono con controricorso, illustrato da memoria, i R..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione degli artt. 2733 e 2735, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la sentenza impugnata attribuito alle dichiarazioni rese dai R. efficacia probatoria di confessione stragiudiziale.

Era accaduto che in occasione d’un sopralluogo, avvenuto in data 7 maggio 2004, in presenza della Polizia municipale e del procuratore dei ricorrenti, N. e R.P., trovati sui luoghi, avevano dichiarato di occupare il terreno ora di proprietà dei B. da circa cinque/sei anni; così, in definitiva, confessando stragiudizialmente il fatto a loro sfavorevole, e favorevole alla controparte, di aver posseduto il bene per un tempo sicuramente inferiore al ventennio occorrente ai fini dell’usucapione. Trattavasi di una dichiarazione che doveva essere considerata una vera e propria confessione stragiudiziale, fra l’altro raccolta in un atto facente fede fino a querela di falso, che, errando, la Corte di merito aveva svalorizzato. Peraltro, precisano i ricorrenti, “non ha nessun rilievo (…), nè che l’autore della confessione voglia costituire una prova, nè il fine per il quale rende la dichiarazione, nè che conosca e sia consapevole delle conseguenze giuridiche che ne possono derivare, perchè provato il contenuto della confessione – e cioè il fatto storico oggetto di essa -gli effetti che ne derivano sono normativamente stabiliti”, siccome ha avuto modo di precisare la Corte di cassazione con la sentenza del 5/12/2003, numero 18655.

In ogni caso, concludono i ricorrenti “anche ritenendo che tali dichiarazioni non rivestano valore confessorio ma siano liberamente valutabili dal giudice, il Tribunale e la Corte d’appello non avevano attribuito alcun valore probatorio alle richiamate dichiarazioni, con ciò incorrendo in una evidente violazione di legge”.

Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento agli artt. 1140 e 1158 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “per avere la sentenza impugnata ritenuto sussistente i presupposti per l’acquisto dei terreni per usucapione (possesso ventennale), nonostante le contrarie dichiarazioni dei testi, le dichiarazioni confessorie provenienti dai convenuti e le ulteriore risultanze processuali”.

I giudici di merito avevano valorizzato esclusivamente le testimonianze di controparte, omettendo di prendere in considerazione quelle di parte oggi ricorrente, sicchè ne erano rimasti violati di artt. 115 e 116 c.p.c.. Era stata attribuita affidabile capacità testimoniale a S.L., assumendosi che lo stesso non aveva un interesse personale all’esito della contesa. Una tale decisione era errata in quanto che lo S., siccome si trae dalle stesse dichiarazioni dal medesimo rese, aveva interesse a che vittoriosi risultassero i R., in quanto il medesimo aveva ricevuto da costoro un pezzetto di terreno, perchè lo coltivasse direttamente. Si trattava dell’interesse che avrebbe legittimato il teste, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., a partecipare al giudizio. In ogni caso, trattavasi di persona, per quel che si è detto, di scarsa attendibilità. Ingiustamente, poi era stato impedito di chiedere al teste Pa.Ce. se anche lui coltivasse uno stacco di terreno messogli a disposizione dai R.. All’evidenza, una tale circostanza, sibbene estranea al capitolato, aveva la funzione di testare l’attendibilità del teste.

La sentenza, di poi, riferiscono i ricorrenti, era incorsa in un macroscopico errore, avendo confuso la consulenza di parte, svolta dal dottor I., con una CTU.

I testi B.A., B.G.G., F.G. e D.C., avevano confermato che gli alberi posti al confine dello stanco di terreno erano stati piantumati su ordine della proprietaria, alla quale, cessati i contratti di affitto, era stato restituito il terreno dai contadini che lo avevano coltivato, coltivazione che era durata sino all’anno 1999. Peraltro lo stesso teste di controparte, S., aveva ammesso che: “quando mi è stato dato il terreno da R.P. sapevo, in base a quello che sentivo raccontare, che la coltivazione e l’occupazione di detto terreno e di quelli circostanti erano abusive”.

La sintonicità dei due esposti motivi ne consiglia vaglio contestuale.

I ricorrenti, a ben vedere, utilizzando il pretesto della denunzia della violazione di legge, assegnano impropriamente al giudizio di legittimità la revisione integrale del giudizio d’appello, includente la valutazione delle prove e gli apprezzamenti di merito effettuate dal giudice. Invero, attraverso l’illustrazione delle due censure i ricorrenti, in definitiva, assumono che la Corte locale abbia fatto cattivo esercizio del proprio potere discrezionale nel valutare gli esiti istruttori.

Non può farsi a meno di evidenziare che, come spesso accade, con il ricorso si propone l’approvazione di una linea interpretativa dei fatti di causa alternativa rispetto a quella fatta propria dal giudice, così sperdendosi del tutto il senso del sindacato di legittimità.

Con i motivi in esame i ricorrenti, in definitiva, invocano, al di là dell’appiglio meramente formale della indicazione delle norme pretesamente violate, la complessiva rivalutazione della ricostruzione fattuale effettuata dalla Corte territoriale, che impinge nelle preclusioni del giudizio di legittimità, essendosi più volte chiarito che la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti (oramai assai angusti, dopo la riforma operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134) del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Sez. 2, n. 24434, 30/11/2016, v. 642202).

Nello specifico.

Quanto alle dichiarazioni rese sui luoghi dai resistenti gli argomenti utilizzati dalla Corte territoriale non sono qui controvertibili, essendo fondati su apprezzamenti di fatto non censurabili: trattavasi di dichiarazione che, anche a considerarla confessoria, scontava il fatto di essere stata resa a terzi e al di fuori del processo, così svilendosi in elemento meramente indiziario (art. 2735 c.c., comma 1, seconda parte); non ne era univoco il significato, non constando essere stato puntualmente accertato ove i resistenti vennero ascoltati.

Quanto all’apprezzamento dell’insieme delle dichiarazioni raccolte non può che ribadirsi quel che si è premesso in punto di diritto, ivi inclusa la denuncia d’incapacità a testimoniare di Luigi S., avendo la Corte milanese escluso, con argomento in linea con il contenuto delle norme di riferimento, che la situazione fattuale del predetto potesse qualificarsi giuridicamente rilevante, attuale e concreto, in relazione all’art. 100 c.p.c.. Infatti, l’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, a norma dell’art. 246 c.p.c., è l’interesse giuridico, personale, concreto, che legittima l’azione o l’intervento in giudizio (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 2075, 29/01/2013, Rv. 624950). Interesse che qui, all’evidenza, non ricorre, non vantando lo S. alcuna pretesa giuridica nei confronti dei resistenti, tutelabile attraverso intervento adesivo alla posizione di quest’ultimi.

Infine, l’erronea qualifica dell’agronomo I.F., spiegabile con una mera svista materiale, non integra la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Non si tratta, per vero, dell’introduzione di una prova decisiva illegale, ma del motivato apprezzamento di una fonte di sapere, pur erroneamente citata. Peraltro, non sussistono impedimenti perchè il giudice tragga elementi di convincimento dalle consulenze, perizie e report di parte.

All’epilogo consegue la condanna del ricorrente alle spese legali, che tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè di ogni altra circostanza, possono liquidarsi siccome in dispositivo.

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del resistente, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2017.

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