Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18203 del 16/09/2016


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Cassazione civile sez. trib., 16/09/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 16/09/2016), n.18203

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 9848 del ruolo generale dell’anno 2010,

proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla Via dei Portoghesi, n. 12, si

domicilia;

– ricorrente –

contro

s.r.l. Euro Edil Zeta, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliatosi in Roma, alla via di Villa

Severini, n. 54, presso lo studio del proprio difensore e

procuratore avv. Giuseppe Tinelli, giusta procura speciale a margine

del controricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Puglia, sezione 5, depositata in data 23 febbraio

2009, n. 12/5/09;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

12 aprile 2016 dal Consigliere Dott. Angelina Maria Perrino;

uditi per l’Agenzia l’avvocato dello Stato Giovanni Palatiello e per

la contribuente l’avv. Maurizio De Lorenzi, per delega dell’avv.

Giuseppe Tinelli;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CUOMO Luigi, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

La società presentò istanza di definizione automatica a norma della L. n. 289 del 2002, art. 9 e versò l’importo necessario al relativo perfezionamento, previa utilizzazione di propri crediti iva. Ne seguì un avviso, col quale l’Agenzia recuperò maggiore iva dovuta, conseguente al disconoscimento del relativo credito vantato e rimborsato, nonchè di un residuo credito, irrogando le sanzioni conseguenti.

La contribuente impugnò l’avviso, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale; quella regionale ha respinto il successivo appello proposto dall’ufficio, ritenendo che la definitività della definizione automatica determini il consolidamento della fattispecie tributaria, quale risultante al momento della presentazione dell’istanza di condono, comprensiva, dunque, anche delle posizioni creditorie.

Ricorre l’Agenzia delle entrate per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, affidando il ricorso a tre motivi, cui la società replica con controricorso. L’Agenzia deposita anche nota spese.

Diritto

1.- Col primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle entrate lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 9, sostenendo che la presentazione di domanda di condono tombale da tale norma prevista non imponga all’amministrazione di rimborsare i crediti IVA esposti dal contribuente nella dichiarazione originaria, se non vagliati dall’ufficio o addirittura da questo espressamente contestati con apposito avviso.

2.- Il motivo, che, contrariamente a quanto sostenuto in controricorso, è ammissibile, in quanto individua esattamente la questione controversa, denunciando la statuizione della sentenza che assume contraria a diritto, è fondato.

Di per sè, l’adesione al c.d. condono tombale non può essere ragione ostativa al diniego di rimborso opposto dall’amministrazione per insussistenza dei relativi presupposti, che si porrebbe in insanabile contrasto con la giurisprudenza comunitaria.

Ciò in quanto la Corte di giustizia, grande sezione, con la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, che specificamente investe la L. n. 289 del 2002, art. 9, ha considerato che le somme dovute in forza di tale condono sono sproporzionate rispetto all’importo che il soggetto avrebbe dovuto versare sulla base del volume di affari risultante dalle operazioni da lui compiute, ma non dichiarate, di guisa che lo squilibrio significativo esistente tra gli importi effettivamente dovuti e quelli corrisposti dai contribuenti che intendono beneficiare della definizione agevolata in questione conduce ad una quasi-esenzione fiscale. Sono in tal modo svuotate di contenuto, ha proseguito la Corte di giustizia, le disposizioni comunitarie (ossia gli artt. 2 e 22 della cosiddetta sesta direttiva iva e l’art. 10 del Trattato Ce), che fanno obbligo ad ogni Stato membro di adottare tutte le misure legislative ed amministrative, al fine di garantire che questa imposta sia interamente riscossa nel suo territorio. Non solo: la Corte di giustizia ha rimarcato che la legislazione italiana produce, nella misura in cui i contribuenti colpevoli di frode risultano favoriti dalla L. n. 289 del 2002, un effetto contrario alla lotta contro la frode, che rappresenta un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva (su quest’ultimo punto, vedi anche le sentenze della Corte di giustizia 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax, e 22 maggio 2008, causa C-162/07, Ampliscientifica e Amplifin).

In linea con questo principio, questa Corte ha anche di recente disapplicato la L. n. 289 del 2002, art. 9, nella parte in cui consente al contribuente, che abbia omesso di presentare le dichiarazioni IVA negli esercizi d’imposta coinvolti dal condono, di fruire per questa imposta della definizione agevolata (Cass. 7 febbraio 2013, n. 2915).

3.- A tanto va aggiunto, pure in seno alla costruzione normativa del condono, che le sezioni unite della Corte (Cass., sez. un., 5 giugno 2008, n. 14828) hanno chiarito, tra l’altro, che il nono comma dell’articolo 9 della L. n. 289 del 2002, esclude che il condono abbia di per sè un effetto modificativo soltanto in ordine all’importo di eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle (ossia indicati nelle) dichiarazioni presentate dal contribuente, nel senso che il condono non impone al contribuente la rinuncia al credito ivi esposto, nè preclude all’amministrazione di rimborsarlo, se lo ritiene fondato, o di accertarne la non rimborsabilità, giusta i principi fissati dall’ordinanza numero 340 del 2005 della Corte costituzionale (conforme, più recente, Cass., ord. 8 marzo 2010, n. 5586).

4.- Va altresì accolto il secondo motivo di ricorso, che spiega forza assorbente del terzo, col quale l’Agenzia si duole -correttamente, in quanto, contrariamente a quanto dedotto in controricorso, non si presenta come cumulativo, essendo rimasto relegato a mera enunciazione il riferimento al vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione dell’art. 2697 c.c. e della falsa applicazione degli art. 2727 c.c. e segg., là dove la Commissione tributaria regionale ha argomentato la legittimità della richiesta di rimborso dal “difetto di elementi che corroborino la presunzione dell’ufficio”.

Incombe difatti sul contribuente che richiede il rimborso l’onere di provarne i fatti costitutivi, di guisa che è errato il riferimento, pervero ermetico, che ha sonetto l’ulteriore richiamo, del tutto sincopato, alla “copiosa e puntuale documentazione agli atti della causa”.

4.- L’accoglimento di questa censura la cassazione della sentenza, con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Puglia, che esaminerà nel merito la questione della rimborsabilità dell’imposta e regolerà le spese.

PQM

La Corte:

accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Puglia.

Così deciso in Roma, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2016

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