Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18202 del 02/09/2020

Cassazione civile sez. II, 02/09/2020, (ud. 20/01/2020, dep. 02/09/2020), n.18202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3958/2016 proposto da:

LOGOS PROGETTI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore S.D., rappresentata e difesa dall’Avvocato

MARCO SARTORI, ed elettivamente domiciliata presso lo studio

dell’Avv. Stefano Queirolo, in ROMA, VIA BARBERINI 36;

– ricorrente –

contro

ATA ENGINEERING s.p.a., in persona dell’Amministratore delegato

Si.Pa., rappresentata e difesa dagli Avvocati ANTONIO TITA,

ALESSANDRA CARLIN e FRANCESCO VANNICELLI, ed elettivamente

domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in ROMA, VIA VARRONE

9;

– controricorrente –

e contro

HYPO VORALBERG LEASING SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 325/2015 della CORTE DI APPELLO di TRENTO,

pubblicata il 14/13/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/01/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Avverso il decreto del 30.3,2011 con il quale il Tribunale di Trento, su ricorso di A.T.A. ENGINEERING s.p.a., ingiungeva a HYPO VORALBERG LEASING s.p.a. ed a LOGOS PROGETTI s.r.l. il pagamento in solido, in favore della ricorrente, della somma di Euro 104.040,00, quale corrispettivo di prestazioni di progettazione, direzione lavori e coordinamento sicurezza relative alla realizzazione, in loc. (OMISSIS), di un capannone a uso produttivo, entrambe le ingiunte proponevano opposizione.

La Hypo eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva sul rilievo, quale esercente l’attività di leasing, di avere intrattenuto ogni rapporto con a sola utilizzatrice Logos; quest’ultima, invece, sollevava eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., lamentando il ritardo dell’ingiungente nell’esecuzione delle prestazioni stabilite da contratto (c.d. cronoprogramma), con particolare riferimento al rilascio, solo in data 4.11.2010 e nonostante le opere fossero state completate già in data 30.5.2010, del certificato di agibilità dell’immobile; e ciò a causa della tardiva richiesta di Ata, alla competente Commissione dell’Azienda Sanitaria, della autorizzazione all’impiego di gas tossici nello stabilimento, nel quale era prevista l’installazione di un impianto frigorifero per il surgelamento di prodotti alimentari, con conseguente ritardo di 5 mesi nel godimento dello stabile che, fin da subito, avrebbe potuto essere locato a terzi. Deduceva, quindi di aver subito danni dalla mancata percezione di 5 mensilità di canone locatizio, oltre che dal pagamento dei c.d. interessi pre-leasing, presupponendo la decorrenza dei canoni leasing sia l’agibilità che l’utilizzazione dell’immobile; eccepiva altresì la compensazione del controcredito così maturato con il credito ingiunto, svolgendo in proposito domanda riconvenzionale di condanna per la differenza pari a Euro 268.581,59.

Con sentenza, depositata in data 6.8.2014, il Tribunale di Trento rigettava l’opposizione e la domanda riconvenzionale di Logos Progetti s.r.l. accogliendo invece quella di Hypo Voralberg Leasing s.p.a., nei cui confronti revocava l’opposto decreto. In particolare, il Tribunale escludeva che il ritardo nel completamento del capannone fosse imputabile alla Ata, non essendo detto ritardo riconducibile alle prestazioni cui questa era tenuta ma a quelle dell’impresa appaltatrice, la quale aveva ultimato i lavori solo in date 28.9.2010 (e non il 31.5.2010, come sostenuto dalla Logos), per cui prima della data di ultimazione di lavori non poteva essere richiesta l’agibilità. Inoltre, il Tribunale rilevava che non era stata fornita la prova che il rilascio dell’agibilità in data 4.11.2010 fosse dipeso dal ritardo nella sottoposizione del progetto dell’impianto di refrigerazione alla Commissione gas tossici dell’Azienda Sanitaria di Verona.

Contro la sentenza la Logos Progetti s.r.l. proponeva appello chiedendone la riforma.

Con sentenza n. 325/2015 depositata in data 14.10.2015, la Corte d’Appello di Trento rigettava l’appello condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite del grado. In particolare, la Corte distrettuale rilevava che il ritardo nell’inizio delle opere non fosse imputabile alla Ata e che già nel luglio 2010 il Sindaco aveva rilasciato un’autorizzazione provvisoria all’utilizzo di ammoniaca per uso refrigerante, tanto che dallo stesso mese di luglio – circostanza mai smentita da Logos l’immobile era stato utilizzato dalla Stenico s.p.a.; in ogni caso, l’appellante non aveva dimostrato nè che l’agibilità fosse condizionata dal rilascio dell’autorizzazione all’uso di gas tossici, nè che il rilascio di tale autorizzazione fosse imputabile alla Ata, considerato che questa era tenuta alla sola assistenza nell’iter autorizzativo e che l’impianto di refrigerazione era affidato ad altra ditta in possesso di competenze tecniche e specialistiche.

Avvero la sentenza propone ricorso per cassazione la Logos Progetti s.r.l. sulla base di due motivi, illustrati da memoria; resiste A.T.A. Engineering s.p.a. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche in riferimento all’art. 113 c.p.c., comma 1; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5”. La ricorrente deduce che la Corte distrettuale avrebbe omesso di considerare che il contratto Ata – Logos avesse ad oggetto l’esecuzione di un magazzino refrigerato per conservare surgelati, con progetto preliminare, definitivo ed esecutivo comprensivo di direzione lavori e coordinamento della sicurezza affidati ad Ata; che il termine di cronoprogramma di completamento fosse fissato al 30.8.2009 e prevedesse adempimenti necessari all’ottenimento dell’agibilità, preceduto dal rilascio delle autorizzazioni propedeutiche ad essa; che il decreto del 18.8.2010 del Sindaco di Verona non contenesse l’autorizzazione provvisoria all’utilizzo dell’immobile per l’uso di impianto di refrigerazione, bensì solo l’autorizzazione per eseguire prove tecniche di collaudo, mentre l’autorizzazione per l’uso funzionale fosse riservata al conseguimento del parere favorevole della Commissione Tecnica Provinciale per i gas tossici; che (in sintesi) l’acquisizione delle autorizzazioni (provvedimenti sindacali e dell’USL) costituisse precisa obbligazione di Ata. Inoltre, la Corte di merito non avrebbe valutato correttamente l’esito delle prove testimoniali e le diffide ad Ata del 21.1.2009, 17.8.2009 e 16.10.2009, nonchè del 2.3.2010 e 4.6.2010, relative a inadempimenti e incompletezze progettuali.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Pregiudizialmente, va rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione tra loro eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili; onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).

Nella specie la formulazione dei motivi (nella specie del primo) risulta connotata da una pluralità di questioni asseritamente riguardanti, nel medesimo contesto, tanto asseriti vizi in iudicando quanto vizi in procedendo, ovvero riferite alla dedotta violazione contestuale dei parametri di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5; i motivi sono caratterizzati da una confusa articolazione di censure eterogenee – riferite (in pari tempo) congiuntamente ed indistintamente, ad asseriti vizi di violazione e/o falsa applicazione di plurime norme di legge, di nullità della sentenza o del procedimento e di omessa pronuncia su fatti decisivi per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti – prive di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il contenuto ed analizzarne la rispettiva fondatezza o meno.

Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata. E, se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle singole dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).

Sicchè l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere in capo al giudice di legittimità il compito (a lui istituzionalmente estraneo) di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).

1.3. – Quanto, poi, ai profili che è possibile comunque enucleare dal contesto del motivo, va rilevato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass., n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola indicazione delle norme pretesamente violate (artt. 113,115 e 116 c.p.c.), ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 3353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

1.4. – Quanto poi alle censure riferite alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va posto in rilievo che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 14 ottobre 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a società ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna idonea e specifica indicazione.

1.5. – Per espressa affermazione della ricorrente, le censure riguardano la “nullità – della sentenza e del procedimento e contestuale violazione dell’obbligo di decidere secondo diritto ponendo a fondamento della decisione solo le prove offerte, ammesse ed acquisite negli atti del processo, valutandole con prudente ordine logico-motivazionale” (ricorso, pag. 19).

Va, allora, richiamato il costante principio per il quale, in generale, l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

Ne consegue che anche tale accertamento è censurabile in sede di legittimità unicamente nei caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire al rapporto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

1.6. – Invero, il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia, dalla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attingono all’apprezzamento motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

Così facendo, però, la ricorrente mostra di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e le vicende processuali, quanto gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi, e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

2. – Con il secondo motivo, la società ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e segg.; artt. 1460 e 2697 c.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5”, affermando di aver reso piena prova del fondamento dell’eccezione di inadempimento formulata avverso l’ingiunzione ex art. 1460 c.c., così come del fondamento della domanda riconvenzionale di danno per mancata percezione di canoni e maggiori interessi; osservando in pari tempo che si trattava di prova cui la stessa non era tenuta, sia perchè attrice meramente processuale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sia perchè, in tema di responsabilità contrattuale, la parte che agisce per il risarcimento del danno deve provare solo la fonte negoziale o legale del suo diritto limitandosi all’allegazione della circostanza dell’inadempimento altrui, mentre è il debitore convenuto gravato dell’onere della prova relativo al proprio adempimento.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – La Corte di merito ha affermato che l’appellante Logos non avesse affatto dimostrato che l’agibilità (al cui solo e ritardato conseguimento la medesima aveva ricollegato il dedotto inadempimento della Ata e il conseguimento del danno risarcibile) fosse condizionata proprio dal rilascio della autorizzazione all’uso di gas tossici. E che fosse del pari indimostrato che il rilascio della predetta autorizzazione, cui sarebbe stata collegata l’agibilità, fosse imputabile ad Ata, considerando da un lato che l’appellata fosse tenuta in proposito (come da allegato alla proposta) alla sola assistenza nell’iter autorizzativo; e dall’altro che l’impianto di refrigerazione fosse affidato a ditta diversa dalla appaltatrice delle opere edili ed necessitasse di competenze tecniche e specialistiche che sole avrebbero potuto consentire la raccolta, all’esito, di tutta la documentazione necessaria (sentenza impugnata, pag. 11).

Le censure della ricorrente si basano, dunque, su un duplice ordine: riferito, in primo luogo, alla contestazione della valutazione delle prove operata dalla Corte distrettuale, ed in secondo luogo, alla eccepita violazione della ripartizione dell’onere della prova inter partes.

Ribadita la non censurabilità in sede di legittimità dell’apprezzamento spettante al giudice di merito del materiale probatorio acquisito, costituisce principio consolidato che, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o 11 risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poichè il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento (Cass. sez. un. 13533 del 2001).

Con specifico riferimento all’appalto privato, questa Corte ha precisato che l’applicazione all’appalto del principio generale che governa la condanna all’adempimento in materia di contratto con prestazioni corrispettive comporta che l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l’onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte, ove il committente ne eccepisca l’inadempimento; laddove (a sua volta) la domanda di condanna del committente al pagamento non può essere accolta nel caso in cui quest’ultimo contesti l’adempimento dell’appaltatore ma tale contestazione non risulti fondata (Cass. n. 3472 del 2008; conf. altresì Cass. n. 98 del 2019; Cass. n. 936 del 2010).

3. – Il ricorso va, quindi, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.300,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020

 

 

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