Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18199 del 02/09/2020

Cassazione civile sez. II, 02/09/2020, (ud. 10/01/2020, dep. 02/09/2020), n.18199

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17914/2017 proposto da:

L.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 94, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA FIORE,

rappresentata e difesa dall’avvocato CIRO GIULIANO, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.S., B.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1017/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 27/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/01/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il PUBBLICO MINISTERO nella persona Sostituto Procuratore

Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento

dei motivi 2, 3, 4 e 5, assorbito il sesto;

udito l’Avvocato Ciro Giuliano per la ricorrente.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE

L.D. conveniva in giudizio B.S. e R. al fine di accertare il diritto a conseguire la metà dei beni caduti nella successione del defunto marito, G.F., con altresì il diritto di abitazione sulla casa familiare, procedendo quindi alla divisione dell’asse relitto, previa dichiarazione di inefficacia delle disposizioni testamentarie in quanto lesive della sua quota di legittima.

Assumeva altresì che era stata beneficiata di un legato in sostituzione di legittima al quale aveva rinunciato e che quindi aveva diritto alla quota di riserva come sopra specificata.

Si costituivano in giudizio i convenuti che contestavano la fondatezza della domanda attorea, assumendo che l’attrice non avesse imputato alla propria quota le donazioni ricevute in vita dal de cuius.

Chiedevano altresì che l’attrice fosse condannata a dare esecuzione alle disposizioni testamentarie, con la condanna al pagamento della somma di Lire 170.000.000 che era stata loro attribuita con il testamento.

Aggiungevano che l’attrice non aveva accettato l’eredità con beneficio di inventario ed inoltre che la medesima aveva accettato il legato in sostituzione di legittima disposto in suo favore, essendo inefficace la rinuncia poi effettuata del lascito. All’esito dell’istruttoria il Tribunale di Modena con la sentenza n. 1432 del 18/10/2010 dichiarava che l’eredità del defunto G.F. era regolata dal testamento olografo del 26/2/1997, come integrato dal testamento olografo del 5 gennaio 1995, accertando altresì la nullità della rinuncia al legato ex art. 551 c.c., formulata da parte dell’attrice (posto che la stessa era stata istituita erede con attribuzione anche del diritto di usufrutto generale sugli immobili).

Per l’effetto rigettava la domanda di riduzione, disponendo che si procedesse a dare attuazione alle volontà testamentarie.

La Corte d’Appello di Bologna, a seguito di appello della L., con la sentenza n. 1017 del 27/4/2017, rigettava il gravame, ritenendo che correttamente era stata disattesa la domanda di riduzione in quanto l’attrice non aveva in alcun modo allegato l’esistenza di donazioni ricevute in vita dal de cuius, impedendo in tal modo di poter verificare l’applicabilità dell’istituto dell’imputazione ex se.

Inoltre non aveva fornito gli elementi di fatto necessari per verificare se sussistesse o meno la dedotta lesione della quota di riserva.

In ogni caso erano da disattendere anche le censure concernenti l’esattezza della stima dei beni caduti in successione, in quanto la Corte d’Appello riteneva del tutto condivisibili le valutazioni operate dal giudice di primo grado. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso L.D. sulla base di sei motivi.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE

L Preliminarmente ritiene il Collegio che non possa essere ravvisata l’improcedibilità del ricorso, prospettata dal Consigliere relatore con la proposta per la definizione ex art. 380 bis c.p.c., occorrendo avere riguardo alle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite nella sentenza n. 8312/2019, le quali hanno affermato che ove, come nella fattispecie, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica del ricorso, risulti depositata in cancelleria copia della relata della notifica telematica della decisione impugnata e del corrispondente messaggio pec con annesse ricevute, sebbene senza attestazione di conformità da parte del difensore, il ricorrente evita la sanzione dell’improcedibilità del ricorso laddove depositi l’asseverazione di conformità della L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1 bis e 1 ter, sino alla data dell’udienza camerale. Nel caso di specie, attesa anche la presenza di parti rimaste solo intimate, che non consentiva di superare l’originale difetto di attestazione di conformità per effetto della condotta della parte controricorrente, il difensore della L. in data 22/3/2019, e quindi prima della celebrazione dell’udienza camerale del 5 aprile 2019, ha depositato attestazione di conformità della relata di notifica telematica della sentenza impugnata, impedendo in tal modo la declaratoria di improcedibilità.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 785 c.p.c. e dell’art. 1111 c.c., in quanto la Corte d’Appello di Bologna ha omesso di procedere alla divisione giudiziale dei beni, sul presupposto che l’esito favorevole della domanda di riduzione fosse preliminare rispetto alla divisione.

Tuttavia, la stessa Corte, riservata una prima volta la causa in decisione, aveva disposto una consulenza tecnica d’ufficio, affidando al consulente l’incarico di redigere un progetto di divisione.

In tal modo il rigetto della domanda di divisione contravviene alla valutazione già resa in merito al diritto di procedere alla divisione ex art. 785 c.p.c..

Inoltre la L. era titolare della quota del 50% degli immobili caduti in successione per la residua quota, e quindi il diritto di pervenire allo scioglimento della comunione prescindeva dall’accoglimento della domanda di riduzione.

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto i giudici di appello, pur rigettando la domanda di divisione, hanno omesso di pronunciarsi sul motivo di appello con il quale si contestava la correttezza dell’affermazione del Tribunale secondo cui la nuda proprietà oggetto dell’attribuzione testamentaria in favore degli intimati riguardava tutti gli immobili e per l’intero, omettendo di considerare che solo il 50% era caduto in successione.

Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 564 c.c., comma 2, laddove la sentenza gravata ha ritenuto che non fosse accoglibile la domanda di riduzione per insuperabili carenze assertive e probatorie, poichè l’attrice non aveva fatto alcuna dichiarazione positiva o negativa circa l’esistenza eventuale di donazioni ricevute in vita dal de cuius, come imposto dall’art. 564 c.c..

Inoltre, si contestava alla ricorrente di non avere fornito la prova di tutti gli elementi necessari per accertare la lesione della legittima, non provando l’inesistenza di altri beni mobili, quali depositi bancari o titoli intestati solo alla L. e suscettibili di rientrare nell’asse per effetto del regime della comunione legale.

Si deduce che l’imputazione ex art. 564, è una mera operazione contabile imposta solo laddove il legittimario abbia ricevuto donazioni, ma nel caso in esame, come specificato con l’atto di appello, la ricorrente non aveva ricevuto alcuna liberalità dal de cuius, così che la sentenza impugnata ha fornito una non corretta interpretazione dei precedenti di questa Corte.

A ciò deve aggiungersi che, come risultava dalla comunicazione della banca della ricorrente, erano stati individuati i titoli formalmente intestati solo alla L., ma destinati per la metà a rientrare nell’asse, come aveva anche potuto appurare e verificare l’ausiliario d’ufficio nominato in appello.

Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 540 c.c., laddove la sentenza ha escluso che fosse possibile determinare l’esatta entità della lesione della quota di riserva dell’attrice, sebbene dalle stesse indagini compiute dall’ausiliario di ufficio, e tenuto conto dei beni relitti, quali individuati negli atti di ultima volontà, risultava evidente che alla ricorrente fossero stati attribuiti beni per una quota pari al 40,3% dell’intero, in misura inferiore rispetto alla quota di legittima, pari al 50% destinata ad essere incrementata con il diritto di abitazione sulla casa familiare.

Il quinto motivo lamenta la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 46 e 48, posto che, nel determinare il valore dell’usufrutto, pur essendo stata correttamente individuata l’età della ricorrente all’epoca dell’apertura della successione, la Corte d’Appello, condividendo il giudizio del Tribunale, aveva quantificato lo stesso in una percentuale pari al 45% del valore dei beni laddove, tenuto conto dei coefficienti di capitalizzazione ricavabili dal suddetto D.P.R. n., la corretta percentuale era pari al 42%.

Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione del D.M. n. 55 del 2014, artt. 4 ed 8, in quanto la sentenza d’appello aveva condannato la ricorrente al rimborso delle spese in favore degli appellati, riconoscendo ad ognuno la somma di Euro 5.534,00, senza tuttavia tenere conto del fatto che erano entrambi assistiti dal medesimo difensore e rivestivano la medesima posizione processuale, con la conseguenza che andava effettuata una sola liquidazione con la possibilità di aumento in ragione dell’assistenza plurima come appunto previsto dalle norme del DM indicate.

3. Evidenti ragioni di carattere logico impongono prioritariamente la disamina del terzo e del quarto motivo di ricorso, che per la loro connessione, possono essere congiuntamente esaminati.

Il giudice di appello ha confermato la sentenza di primo grado ritenendo che l’attrice non avesse soddisfatto gli oneri di allegazione e probatori imposti, alla luce della prevalente giurisprudenza, a colui che intenda agire in riduzione.

Si è rilevato che la L. non aveva reso alcuna dichiarazione positiva o negativa in merito all’eventuale ricezione di donazioni in vita da parte del de cuius, non avendo provato gli elementi necessari a dimostrare la lesione della legittima nè provando l’esistenza di altri beni mobili che, sebbene a lei formalmente intestati, fossero destinati a ricadere in successione per effetto del regime della comunione legale con il coniuge defunto (trattasi di successione di soggetto deceduto senza figli ma con il solo coniuge quale legittimario, che ha disposto per testamento con attribuzioni in natura in favore, oltre che della ricorrente, anche degli intimati, soggetti tutti ritenuti dai giudici di merito rivestenti la qualità di eredi, secondo le quote ricavabili dal raffronto tra l’ammontare complessivo del patrimonio e le singole attribuzioni in natura). A tal fine si è richiamato il principio affermato da Cass. n. 11432/1992, a mente del quale il legittimario che propone l’azione di riduzione ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se sia o meno avvenuta ed in quale misura la lesione della quota di riserva, e quindi anche l’inesistenza nel patrimonio del “de cuius” di altri beni oltre quelli che formano oggetto dell’azione di riduzione, giacchè in conformità del principio di cui all’art. 2697 c.c., anche i fatti negativi quando costituiscono il fondamento del diritto che si vuol far valere in giudizio debbono essere provati dall’attore come i fatti positivi.

Il precedente in esame, come evidenziato dalla difesa della ricorrente aveva ad oggetto una fattispecie in cui è stata cassata la sentenza di merito che aveva negato che al legittimario potesse imporsi l’onere di dimostrare l’assenza di altri beni relitti, ma a fronte di un testamento nel quale, oltre al bene in relazione al quale era stata esercitata l’azione di riduzione, si faceva menzione anche di “beni mobili”, sia pure non precisati.

E’ stato quindi ritenuto che fosse erronea l’affermazione secondo cui “sarebbe illogico addossare all’erede pretermesso l’onere della prova negativa della esistenza di altri beni oltre quelli oggetto dell’azione di riduzione, poichè, in conformità col principio sancito dall’art. 2697 c.c., anche i fatti negativi, quando costituiscono il fondamento del diritto che si vuole far valere in giudizio, devono essere provati dall’attore come i fatti positivi (Cass. 30 marzo 1951, n. 716; 5 agosto 1964 n. 2226).

In linea con tale posizione vi sono anche altri precedenti di questa Corte che, sempre in tema di oneri posti a carico di chi agisce in riduzione, hanno affermato (Cass. n. 3661/1975) che il legittimario che intende proporre l’azione di riduzione ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se sia, o meno, avvenuta, ed in quale misura, la lesione della sua quota di riserva, potendo solo in tal modo il giudice procedere alla sua reintegrazione; in particolare, in relazione al principio sancito dagli artt. 555 e 559 c.c., egli ha l’onere di indicare, oltre al valore, l’ordine cronologico in cui sono stati posti in essere i vari atti di disposizione, non potendo l’azione di riduzione essere sperimentata rispetto alle donazioni se non dopo esaurito il valore dei beni di cui è’ stato disposto per testamento e cominciando, comunque, dall’ultima e risalendo via via alle anteriori (conf. Cass. n. 1904/1968; Cass. n. 14473/2011; Cass. n. 20830/2016 che ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva ritenuto non assolto l’onere di allegazione mediante la mera acquisizione delle risultanze degli estratti conto bancari del “de cuius”).

Deve però tenersi conto anche del diverso principio, sempre affermato da questa Corte, secondo cui (Cass. n. 1297/1971) la prova della consistenza dell’asse e della conseguente lesione dei diritti di legittimario può essere fornita anche a mezzo presunzioni purchè munite dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., principio ribadito anche di recente da Cass. n. 1357/2017, a mente della quale, ancorchè il legittimario che agisca in riduzione abbia l’onere d’indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria, nonchè quello della quota di legittima violata, può, a tal fine, allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purchè gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva, aggiungendo altresì che una volta ravvisata la ricorrenza delle presunzioni come sopra connotate, risulta legittimo anche l’esperimento della C.T.U. d’ufficio, atteso che, una volta che l’attore in riduzione ha assolto il suo onere probatorio, il giudice ha il dovere di disporre la C.T.U. per stimare il valore dei beni costituenti il relictum e il donatum.

Va poi ricordato che l’imputazione, come sottolineato dalla ricorrente, non è una condizione dell’azione, a differenza della preventiva accettazione con beneficio di inventario nel caso di azione di riduzione esperita contro soggetti non chiamati come coeredi, ma è una prodromica operazione di calcolo di natura esclusivamente contabile, diretta al riscontro della effettiva lesione della legittima ed ancor prima di determinare con precisione la stessa entità della legittima spettante al legittimario (e ciò non solo in vista dell’esperimento dell’azione di riduzione, ma anche al fine di riscontrare la violazione dell’art. 549 c.c., ovvero al fine di assicurare il ricalcolo delle quote ab intestato in applicazione della previsione di cui all’art. 53 c.c.).

Ne consegue che poichè la causa petendi dell’azione di riduzione presuppone, oltre all’allegazione della qualità di legittimario, la specificazione dei beni che costituiscono il relictum e l’individuazione delle diverse attribuzioni che invece costituirebbero il donatum, e ciò al duplice fine di assicurare la riunione fittizia e di assolvere all’onere di imputazione posto dall’art. 564 c.c., a carico di colui che agisce in riduzione, ritiene il Collegio che la precisazione di tali elementi si riverberi con immediatezza sul contenuto dell’atto di citazione, di talchè eventuali omissioni o imprecisioni, in presenza di altri elementi probatori che depongano viceversa per la loro esistenza o individuazione ovvero a fronte di puntuali contestazioni delle controparti, potrebbero dar vita ad un’ipotesi di nullità della citazione ex art. 164 c.p.c., in relazione al requisito di cui al n. 4 dell’art. 163 c.p.c..

Ma va in ogni caso affermato che se la puntuale individuazione delle componenti patrimoniali, sulla scorta delle quali procedere alla ricostruzione del relictum ed eventualmente del donatum, costituisce un’attività riservata alla fase introduttiva del giudizio che soffre delle preclusioni legate alla fissazione del thema decidendum, avendo questa Corte ribadito anche di recente, in ragione dell’applicazione anche alle controversie in materia di scioglimento della comunione del regime delle preclusioni dettato per il processo ordinario di cognizione, che (Cass. n. 28272/2018) nel giudizio di riduzione per lesione della legittima, come anche in quello di divisione, è esclusa la possibilità di allegare ovvero provare, per la prima volta in appello, l’esistenza di altri beni idonei ad incidere sulla determinazione del “relictum” e, conseguentemente, dell’effettiva entità della lesione, dovendo il potere di specificazione della domanda manifestarsi nel rispetto delle preclusioni previste dal codice di rito (in applicazione di tale principio, la Corte ha chiarito che, in appello, le richieste di ricostruzione del “relictum” e del “donatum” mediante l’inserimento di beni e liberalità o l’indicazione di pesi o debiti del “de cuius” sono ammissibili nei limiti consentiti dagli elementi tempestivamente acquisiti con l’osservanza delle summenzionate preclusioni, trattandosi di operazioni alle quali il giudice è tenuto d’ufficio), tuttavia ben potrebbe la stessa allegazione da parte dei convenuti degli elementi patrimoniali da prendere in considerazione ai fini della riunione fittizia o in particolare in vista dell’imputazione ex se, ove connotata da specificità (ad esempio con la puntuale individuazione delle donazioni non indicate in citazione ovvero dei beni relitti del pari non indicati dall’attore), consentire al giudice di poter comunque procedere, se del caso avvalendosi anche di una CTU (che proprio perchè chiamata a valutare ben individuati componenti patrimoniali non avrebbe carattere esplorativo) alla verifica della ricorrenza della lesione ovvero della corretta individuazione del soggetto destinato a subire le conseguenze derivanti dall’accoglimento dell’azione de qua (laddove, ad esempio, individuata una determinata donazione, come idonea a concretare la lesione, a seguito delle allegazioni difensive del convenuto, connotate da precisione e specificità, emerga l’esistenza di donazioni posteriori che in ragione della regola dettata dall’art. 559 c.c., rendano la donazione in concreto aggredita immune dalle pretese del legittimario).

Va poi affermato che l’eventuale carenza di prova in merito all’effettiva esistenza delle componenti patrimoniali destinate ad incrementare il relictum ovvero il donatum determina invece il rigetto della domanda o il suo accoglimento in misura inferiore rispetto a quanto richiesto, risolvendosi appunto non più sul piano delle attività assertive e di allegazione ma sul diverso piano del soddisfacimento dell’onere della prova incombente su colui che agisce in giudizio.

Sempre in tale prospettiva, è frequente riscontrare nella giurisprudenza di merito l’affermazione secondo cui ai fini della stessa ammissibilità dell’azione di riduzione sarebbe necessario anche indicare in dettaglio i valori dei beni costituenti il relictum e di quelli oggetto delle donazioni (dirette o indirette), con la necessità altresì di specificare con precisione l’ammontare della lesione vantata.

Tuttavia, ritiene il Collegio che anche tale affermazione vada puntualizzata.

Come sopra esposto, l’onere di allegazione della parte effettivamente impone di offrire un quadro soddisfacente della situazione patrimoniale del de cuius ai fini del compimento delle operazioni di riunione fittizia e di imputazione, e ciò soprattutto nel caso in cui già gli elementi probatori addotti in giudizio denotino l’esistenza di beni costituenti il relictum ovvero il compimento di atti di liberalità da parte del de cuius (si pensi, come nel caso deciso da Cass. n. 11432/1992, al testamento che faccia menzione, sebbene in maniera generica, ad altri beni caduti in successione, ovvero al riscontro sulla base delle visure ipocatastali di donazioni poste in essere in vita dal defunto).

Una volta soddisfatto tale onere (anche, come detto, per effetto, dell’attività di allegazione della altre parti del giudizio) deve reputarsi che l’attore soddisfi l’onere di specificità della domanda impostogli dalla legge una volta che, richiamata la misura della sua quota di legittima, quale dettata dalla legge, assuma che per effetto delle disposizioni testamentarie ovvero in conseguenza delle donazioni poste in essere in vita in favore di altri soggetti, ed al netto di quanto ricevuto allo stesso titolo, residui una lesione.

In tal senso non può però imporsi anche che la quantificazione in termini di valore dei vari elementi destinati ad essere presi in considerazione, sia ai fini della precisazione del relictum che del donatum, e che l’individuazione della lesione debba avvenire in termini matematici con una sua precisa indicazione numerica, essendo viceversa sufficiente che si sostenga che, proprio alla luce del complesso assetto patrimoniale del defunto, quale scaturente dalle vicende successorie, il valore attivo pervenuto al legittimario sia inferiore a quanto invece la legge gli riserva.

Opinare diversamente significherebbe imporre al legittimario che agisce in riduzione di dover necessariamente esperire una preventiva perizia di parte ovvero di proporre discrezionali (se non addirittura arbitrari) valori per i vari beni implicati dalla vicenda, indicazioni tutte che comunque non rivestirebbero poi carattere vincolante nella successiva fase dinanzi al giudice, chiamato invece autonomamente (e di norma attraverso l’ausilio di un consulente tecnico d’ufficio) a riscontrare l’effettività della lesione dedotta e la sua precisa entità.

Tornando al caso in esame, come si rileva dalla lettura del ricorso, già nel corso del giudizio di primo grado era stata espletata una consulenza tecnica d’ufficio che aveva permesso di verificare se vi fosse stata o meno lesione della quota di riserva dell’attrice alla luce del valore dei beni caduti in successione e dei quali vi era menzione in testamento o comunque dei quali era stata offerta la prova della loro esistenza.

Quanto alla previsione di cui dell’art. 564 c.c., comma 2, con l’atto di appello, chiarendosi il silenzio serbato sul punto nell’atto di citazione, la ricorrente ha poi specificato che in realtà non aveva mai ricevuto alcuna donazione da parte del coniuge (precisazione questa che impedisce di poter ravvisare la carenza di attività assertiva o di allegazione nella fase introduttiva del giudizio, idonea a ripercuotersi sulla corretta attività di accertamento da espletare nel corso del giudizio, che invece ricorrerebbe ove il silenzio impedisse di far rientrare tra le indagini svolte nel giudizio quelle in grado di immutare il risultato concreto dell’azione esperita, come nel caso in cui, ad esempio, si fosse taciuta l’esistenza di donazioni effettivamente da imputare alla quota della legittimaria).

Inoltre, e proprio in ragione del rilevo svolto dai giudici di appello che addebitano alla ricorrente di non avere provato l’inesistenza di altri beni mobili che sarebbero dovuti rientrare nell’asse in forza del regime della comunione legale, la L. ha altresì affermato che nel corso del giudizio di appello aveva prodotto documentazione bancaria attestante l’esistenza di titoli che, sebbene formalmente alla stessa intestati, erano destinati a cadere in successione per la quota del 50% spettante al coniuge defunto, documentazione che era stata presa in considerazione da parte del CTU nominato in sede di appello, e che, pur palesandosi apparentemente idonea a fornire la prova, la cui omissione viene imputata alla ricorrente, non risulta in alcun modo presa in considerazione nella sentenza gravata.

I motivi in esame appaiono quindi fondati, dovendosi ritenere che la decisione di appello, nel confermare il rigetto della domanda di riduzione, senza dare alcuna contezza delle precisazioni ed allegazioni probatorie compiute dalla ricorrente proprio in sede di gravame, non risulta essersi conformata ai principi di diritto di questa Corte, come sopra precisati, imponendosene quindi la cassazione.

Il giudice del rinvio dovrà quindi attenersi al seguente principio di diritto: Nel caso di esercizio dell’azione di riduzione, il legittimario ancorchè abbia l’onere d’indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria, nonchè di conseguenza quello della quota di legittima violata, senza che a tal fine sia necessaria l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, può, a tal fine, allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purchè gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva. Peraltro, l’omessa allegazione nell’atto introduttivo di beni costituenti il relictum e di donazioni poste in essere in vita dal de cuius, anche in vista dell’imputazione ex se, ove la loro esistenza emerga dagli atti di causa ovvero costituisca oggetto di specifica contestazione delle controparti, non preclude la decisione sulla domanda di riduzione, dovendo il giudice procedere alle operazioni di riunione fittizia prodromiche al riscontro della lesione, avuto riguardo alle indicazioni complessivamente provenienti dalle parti, nei limiti processuali segnati dal regime delle preclusioni per l’attività di allegazione e di prova. Ne consegue che ove il silenzio serbato in citazione circa l’esistenza di altri beni relitti ovvero di donazioni sia dovuto al convincimento della parte dell’inesistenza di altre componenti patrimoniali da prendere in esame ai fini del riscontro della lesione della quota di riserva, il giudice non può solo per questo addivenire al rigetto della domanda, che è invece consentito se, all’esito dell’istruttoria, e nei limiti segnati dalle preclusioni istruttorie, risulti indimostrata l’esistenza della dedotta lesione.

4. L’accoglimento del terzo e del quarto motivo implica poi l’assorbimento del primo motivo, atteso che il rigetto della domanda di divisione presupponeva il rigetto della domanda di riduzione, posto che solo in conseguenza del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, con il riconoscimento del diritto della legittimaria a concorrere in comunione ed in misura corrispondente a tacitare la lesione patita, anche sui beni assegnati agli altri coeredi ed ai legatari, può instaurarsi una comunione per la quale si giustifichi l’accoglimento della domanda di scioglimento della comunione (dovendosi peraltro precisare che, alla luce delle stesse conclusioni dell’atto di citazione, quali riportate in ricorso alla pag. 4, la domanda di divisione deve intendersi limitata ai soli beni appartenenti al de cuius – atteso il richiamo alla natura ereditaria della divisione e quindi alla sola metà degli immobili di proprietà del defunto marito).

5. Del pari fondato è il secondo motivo di ricorso.

Infatti, l’attrice aveva con l’atto di appello lamentato che erroneamente il Tribunale, pur essendosi dedotta in giudizio la vicenda successoria del defunto G.F., e quindi la decisione in merito alla sorte dei beni al medesimo appartenenti, aveva riconosciuto il diritto di nuda proprietà agli intimati su tutti gli immobili e per l’intero, e non già limitatamente alla quota di spettanza del de cuius, concludendo quindi affinchè la Corte d’Appello precisasse che la piena proprietà del 50% degli immobili già le spettava e che le disposizioni testamentarie l’avevano beneficiata dell’usufrutto sulla sola restante metà.

La Corte distrettuale ha però omesso di rispondere a tale censura il che determina con evidenza la ricorrenza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., imponendosi quindi del pari la cassazione della sentenza gravata.

6. E’ fondato anche il quinto motivo di ricorso.

Questa Corte ha, infatti, affermato che (Cass. n. 2228/1979) ai fini della riunione fittizia per la formazione della massa ereditaria il valore della proprietà, sulla quale gravi il diritto di usufrutto, è costituito, a norma dell’art. 45 della legge di registro, approvata con il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643, dalla differenza tra il valore della piena proprietà e quello dell’usufrutto, e va determinato, in applicazione dell’art. 43 della legge medesima, assumendo come annualità l’ammontare ottenuto moltiplicando il valore della nuda proprietà per il saggio legale d’interessi e poi moltiplicando il valore della annualità, cosi ricavato, per il coefficiente indicato, in ragione dell’età, nella tabella C allegata alla legge.

Il richiamo alle previsioni della legge di registro al fine di stabilire l’ammontare del diritto di usufrutto, imponeva, come peraltro effettuato anche dal CTU, di dover procedere al calcolo sulla base delle previsioni di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, subentrato nelle more alla legge di registro sopra menzionata. Ai sensi dell’allegato al citato D.P.R., nel testo vigente alla data di apertura della successione (25/2/2001), come modificato dal DM del 28/12/2000, tenuto conto dell’età della ricorrente alla medesima data (anni 67), il coefficiente per la capitalizzazione dell’usufrutto era pari a 12, sicchè tenuto conto del tasso di interessi del 3,5%, il valore dell’usufrutto andava ragguagliato al 42% del valore della piena proprietà.

Il Tribunale aveva invece riconosciuto un valore pari al 45% e tale quantificazione era stata oggetto di appello da parte della L..

La questione era stata specificamente sottoposta all’attenzione del giudice di secondo grado, tra le contestazioni mosse avverso la stima del valore dei beni alla pag. 18 dell’atto di appello, e sul punto la sentenza si è limitata apoditticamente ad affermare che la stima era stata correttamente compiuta, senza avvedersi del mancato rispetto di uno dei criteri di valutazione, peraltro anche di fonte normativa.

Anche tale motivo deve quindi essere accolto, con la cassazione della sentenza.

7. Il sesto motivo, che attiene però alle sole statuizioni in punto di spese di lite, è evidentemente assorbito per effetto dell’accoglimento di alcuni degli altri motivi di ricorso, cosa della quale è evidentemente consapevole la stessa ricorrente. Il giudice del rinvio, che si designa in una diversa sezione della Corte d’Appello di Bologna, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

PQM

Accoglie il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, ed assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e nei limiti di cui in motivazione, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020

 

 

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