Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18197 del 29/07/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 18197 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: LAMORGESE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 17689-2008 proposto da:
POSTE

ITALIANE

S.P.A.

in

persona

del

legale

rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA,
PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa
dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
contro

1633

CURINO FRANCESCA LUCIA, già elettivamente domiciliata
in ROMA,

VIA VALADIER 53,

presso

lo studio

dell’avvocato NISSOLINO LAURA, rappresentata e difesa

Data pubblicazione: 29/07/2013

dall’avvocato SPOSATO ANTONIO, giusta delega in atti e
da ultimo domiciliata presso la CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1250/2007 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 09/05/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
LAMORGESE;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega verbale
GRANOZZI GAETANOTO;
udito l’Avvocato SPOSATO ANTONIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per l’inammissibilità in subordine rigetto.

di CATANZARO, depositata il 29/06/2007 R.G.N. 385/06;

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 29 giugno 2007 la Corte d’appello di
Catanzaro rigettava l’impugnazione della s.p.a. Poste Italiane avverso la
decisione di primo grado, che accogliendo la domanda proposta da

contratto di lavoro stipulato per il periodo 10 giugno/31 ottobre 1999 ed
aveva condannato la società a riammettere in servizio la lavoratrice e a
versarle le retribuzioni maturate dall’8 giugno 2004.
La Corte distrettuale confermava l’illegittimità del termine del
contratto stipulato ai sensi dell’art. 8 ccn1 26 novembre 1994 e successivi
accordi integrativi, per

esigenze eccezionali conseguenti alla fase di

ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale
condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’Ente ed in ragione
della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di
nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio
sul territorio delle risorse umane, in quanto concluso dopo il 30 aprile 1998
e quindi dopo il limite temporale stabilito dalla contrattazione collettiva per
l’esercizio della facoltà concessa alla società di procedere nelle dette ipotesi
all’assunzione di personale a termine.
Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane ha proposto ricorso
con nove motivi, cui la Curino ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc.
civ.
Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione semplificata.

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Francesca Lucia Curino, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al

Motivi della decisione
I primi due motivi di ricorso, che criticano la sentenza impugnata per
aver disatteso l’eccepita risoluzione per mutuo consenso del contratto in
questione, sono infondati alla stregua del principio ripetutamente affermato

dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “nel giudizio instaurato ai
fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al
contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi
una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia
accertata sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione
dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle
parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune
volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo” (v. fra le più recenti, in motivazione, Cass. 4 agosto 2011 n.
16932, e le altre pronunce là richiamate). La mera inerzia del lavoratore
dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sé insufficiente a
ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v.
Cass. 15 novembre 2010 n. 23057), mentre “grava sul datore di lavoro”, che
eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa
ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente
fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070, Cass.
1° febbraio 2010 n. 2279). Onere probatorio qui non adempiuto secondo la
valutazione del giudice del gravame, non adeguatamente censurata,
risolvendosi le critiche in proposito della società in una inammissibile

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contrapposizione di un diverso apprezzamento, favorevole alla tesi dalla
stessa prospettata.
Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 112, 324, 346, 434 cod.
proc. civ. e 2909 cod. civ. e deduce che la lavoratrice, vittoriosa in primo

grado, non aveva riproposto in appello, l’eccezione di inoperatività
dell’accordo 25 settembre 1997 disattesa dal primo giudice, il quale aveva
accolto il ricorso per la ritenuta carenza di prova del nesso di causalità
intercorrente tra la previsione generale astratta e la singola assunzione, per
cui sulla validità e vigenza dell’accordo si era formato il giudicato.
Il motivo è infondato. Non sussiste il vizio di ultrapetizione
denunciato, in quanto l’onere di fornire la prova della sussistenza delle
condizioni legittimanti l’apposizione del termine incombeva sul datore di
lavoro ex art. 3 legge 18 aprile 1962 n. 230 e la Corte territoriale ha
proceduto all’interpretazione del suddetto accordo per l’effetto devolutivo
dell’appello della società.
Il quarto e il quinto motivo società censurano, sotto i diversi profili
della violazione di legge e del vizio di motivazione, la sentenza impugnata
laddove ha affermato la nullità del termine apposto al contratto de quo, in
quanto stipulato dopo il limite temporale stabilito dalla contrattazione
collettiva negli accordi attuativi dell’accordo 25 settembre 1997.
Osserva il Collegio che tale considerazione – in base all’indirizzo
ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al
sistema vigente anteriormente al =l del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001)
– è sufficiente a sostenere sul punto l’impugnata decisione.

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Al riguardo, sulla scia di Cass. sez. unite 2 marzo 2006 n. 4588, è
stato precisato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23
legge 28 febbraio 1987 n. 56, del potere di definire nuove ipotesi di
assunzione a termine rispetto a quelle previste dalla legge 18 aprile 1962 n.

230, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto
delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per
i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della
predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine
rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto,
dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti
ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o
soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali
all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a
tempo determinato (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063 ed altre precedenti).
“Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti
collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina
generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra
le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del
contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola

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di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383,
Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato
e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di

dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997,
integrativo dell’art. 8 del ccnl. 26 novembre 1994, e con il successivo
accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno
convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria,
relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente
ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in
corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve
escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile
1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore
conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo
indeterminato, in forza della legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le
altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 novembre 2008 n. 28450;
Cass. 4 agosto 2008 n. 21062).
In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi
precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr.. Cass.
29 luglio 2005 n. 15969, Cass. 21 marzo 2007 n. 6703), vanno quindi
respinti anche il quarto e il quinto motivo.
Gli ultimi quattro motivi denunciano errori di diritto e vizi di
motivazione in relazione ai profili economici conseguenti alla declaratoria di
nullità del termine apposto al contratto. In particolare si assume la

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violazione dei principi e delle norme di legge sulla messa in mora e sulla
corrispettività delle prestazioni, e si addebita al giudice del gravame di avere
affermato la costituzione in mora della società dalla data di una missiva pur
non contenendo questa alcuna offerta da parte della Curino delle

prestazioni lavorative e di non aver disposto l’acquisizione di informazioni
presso l’Ufficio di collocamento e l’esibizione della documentazione fiscale
della lavoratrice al fine di accertare l’aliunde perceptum, e si addebita inoltre
di non avere tenuto conto della

compensatio lucri cum damno

e

dell’eventuale concorso colposo del debitore per l’omessa ricerca di un altro
posto di lavoro.
Il sesto e il nono motivo sono inammissibili per l’inadeguatezza dei
rispettivi quesiti di diritto formulati ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ., qui
applicabile ratione temporis.
Quello riportato in calce al sesto motivo è del seguente tenore:
“Dica la Suprema Corte adita se (ovvero dica la Suprema Corte che):
Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito
dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine
stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di
riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di
lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della
disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ.”
Quello in calce al nono motivo è così enunciato:
“Dica la Suprema Corte adita se (ovvero dica la Suprema Corte che):
Se, nel caso di accertamento della pretesa illegittimità del termine apposto

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al contratto di assunzione, il risarcimento del preteso danno derivante dalla
perdita della retribuzione debba in ogni caso essere quantificato
considerando l’aliunde perceptum, ovvero – ai sensi dell’art. 1227 cod. civ. il concorso del lavoratore che abbia omesso di ricercare una diversa

occupazione”.
I suddetti quesiti sono infatti assolutamente generici e non pertinenti
rispetto alla fattispecie, in quanto entrambi si risolvono nella enunciazione
in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di
conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di
merito (v. proprio con riferimento al quesito attinente al sesto motivo le
sentenze Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 e Cass. 29 aprile 2011 n. 9583, che
hanno preso in esame quesiti aventi la medesima formulazione).
Anche il settimo ed ottavo motivo, che denunciano vizi di
motivazione, sono inammissibili. Il settimo perché pur lamentando
l’inidoneità, ai fini della costituzione in mora, della lettera ricevuta dalla
azienda e inviata dalla lavoratrice, poiché, secondo l’assunto della società,
non conteneva l’offerta delle prestazioni lavorative, la censura omette la
trascrizione del testo, contro il principio di autosufficienza del ricorso per
cassazione. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte “il
ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su
un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un
documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare
specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del
documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito,

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provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di
legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle
prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per
cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle

indagini integrative” (cfr. Cass. 30 luglio 2010 n. 17915).
Quanto all’ottavo motivo, concernente l’addebito che la ricorrente
muove alla sentenza impugnata di non avere motivato sullo svolgimento da
parte della lavoratrice di altra attività lavorativa retribuita dopo la
cessazione del contratto di lavoro a termine, si deve innanzitutto rilevare
che in tema di risarcimento del danno sofferto dal lavoratore per
l’interruzione del rapporto di lavoro a seguito dell’illegittima apposizione del
termine al contratto di lavoro, ai fini della sottrazione dell’a/iunde perceptum
dalle retribuzioni dovute, spetta al datore di lavoro che contesti l’entità della
richiesta risarcitoria avanzata dal lavoratore, di risarcimento del danno per
la mancata corresponsione delle retribuzioni a seguito della illegittima
estromissione dall’azienda, di provare l’espletamento di altra attività
lavorativa retribuita (v. da ultimo Cass. 10 aprile 2012 n. 5676), nessun
altro onere probatorio potendo far carico essere posto a carico al lavoratore,
siccome il fatto che riduce l’entità del danno presunto è costituito proprio
dalle somme percepite dal lavoratore per effetto della nuova occupazione
reperita (ovvero per altro titolo) e dovendosi escludere che il danneggiato sia
tenuto a dimostrare una circostanza, quale la nuova occupazione, riduttiva
del danno patito (v. Cass. 17 novembre 2010 n. 23226).

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deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con

Ma va inoltre osservato che l’allegazione dell’a/iunde perceptum è
assolutamente generica e la ricorrente si è limitata a sostenere di averne
eccepito la deducibilità nei precedenti gradi del giudizio (v. pag. 34 del
ricorso), affermando di avere rappresentato sin dal primo grado tale

non avrebbe lavorato nel periodo di tempo trascorso dalla cessazione del

contratto a termine, sì come oggetto della domanda risarcitoria , il giudice
voglia assumere informazioni ex art. 213 c.p.c. presso l’Ufficio di collocamento
– senza però specificare di averla reiterata in appello. Infatti, nel presente
ricorso (v. sempre pag. 34) a proposito della riproposizione dell’eccezione, si
afferma che in appello l’azienda si era così espressa: Per mero tuziorismo

difensivo, si reiterano tutte le richieste istruttorie già formulate in primo grado
sugli stessi capitoli e con gli stessi testi ivi indicati, frase che fa riferimento
ad una prova testimoniale su circostanze che qui non sono state affatto
precisate, contro il principio di specificità dei motivi di censura, per cui non
può desumersi che la parte avesse voluto riferirsi all’eccezione innanzi
indicata.
Ed a parte ogni questione sul presupposto dell’impossibilità per la
parte di produrre o fornire le certificazioni dell’Ufficio di collocamento
attestanti la rioccupazione della lavoratrice, l’omessa specificazione della
richiesta in sede di gravame delle informazioni di cui all’art. 213 cod. proc.
civ. è sufficiente per escludere l’obbligo della Corte distrettuale di disporre le
informative all’Ufficio di collocamento, cui fa riferimento la ricorrente con il
motivo in esame.

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richiesta – Si chiede che, ove venga specificamente dedotto dal ricorrente che

L’inammissibilità dei motivi dal sesto al nono, che si incentrano sulle
conseguenze economiche derivanti dalla illegittimità della clausola di
apposizione del termine, precludono l’applicabilità dello ius superveniens,
rappresentato dall’art. 32, commi 5°, 6° e 7 0 della legge 4 novembre 2010 n.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via
di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel
giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia
retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che
quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto
di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il
cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio
2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che
investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina
sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la
disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.),
condizione che qui non sussiste.
In conclusione, il ricorso va rigettato e la società ricorrente, per il
principio della soccombenza, è tenuta al pagamento in favore della Curino
delle spese del giudizio di cassazione, che, in considerazione dell’attività
difensiva svolta e del valore della controversia, e in applicazione dei
parametri di cui al d.m. 20 luglio 2012 n. 140, sono liquidate come in
dispositivo.

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183, invocato dall’azienda con la memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

P. q. m.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al
pagamento, in favore di Francesca Lucia Curino delle spese del presente
giudizio, liquidate in euro 50,00 (cinquanta/00) per esborsi e in euro

accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 maggio 2013.

3.500,00 (tremilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre

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