Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18196 del 16/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 16/09/2016, (ud. 21/07/2016, dep. 16/09/2016), n.18196

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6606/2014 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

EUROPA 190 – presso AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO DI POSTE

ITALIANE, rappresentata e difesa dagli avvocati ROSSANA CLAVELLI e

MARCO MELE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DELLA GIULIANA 85, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO TALLADIRA,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO ROSARIO BONGARZONE,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5735/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/09/2013, R.G. N. 3296/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/07/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato ROBERTA AIAZZI per delega verbale MARCO MELE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 16 settembre 2013), in accoglimento dell’appello proposto da S.A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 1281/2001 – recte: Tribunale di Frosinone n. 1281/2011 – riforma la sentenza appellata e dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato al S. da Poste Italiane s.p.a.. Per l’effetto condanna la suddetta società: 1) a reintegrare il dipendente nel proprio posto di lavoro e a corrispondergli una indennità commisurata all’importo delle retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegra, oltre agli accessori di legge; 2) al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegra; 3) al pagamento delle spese giudiziali dei due gradi di merito del giudizio, liquidate nella misura indicata nel dispositivo.

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello della assimilabilità del licenziamento per superamento del periodo di comporto non al licenziamento disciplinare, ma a quello per giustificato motivo oggettivo;

b) peraltro, è altrettanto pacifica l’applicabilità delle regole dettate dalla L. n. 604 del 1966, art. 2 (modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 2) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, poichè nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall’art. 2110 c.c.;

c) pertanto, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, esigenza particolarmente avvertita nel caso di comporto per sommatoria;

d) nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge alla suddetta richiesta, di tali assenze non può tenersi conto ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto, salva restando la possibilità per il datore di lavoro di offrire in giudizio le suddette specificazioni qualora il lavoratore abbia direttamente impugnato il licenziamento;

e) nella specie, la nota di Poste Italiane in data 28 ottobre 2008, di risposta alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi di recesso, si presenta molto lacunosa non contenendo – al pari dell’atto di intimazione del licenziamento – la dettagliata e specifica indicazione dei giorni di assenza computati nel numero globalmente indicato, come era stato domandato ai sensi della L. n. 604 del 1966 , art. 2;

f) questo determina l’illegittimità dell’intimato licenziamento, con le suindicate consequenziali pronunce.

2.- Il ricorso di Poste Italiane s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, S.A..

Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Profili preliminari.

1. Preliminarmente va precisato che l’erronea indicazione, come sentenza di primo grado, della sentenza del Tribunale di Roma n. 1281/2001 – anzichè della sentenza del Tribunale di Frosinone n. 1281/2011 – peraltro presente soltanto nella intestazione della sentenza della Corte d’appello di Roma impugnata e nella prima pagina della sentenza stessa (relativa allo svolgimento del processo), si deve considerare del tutto ininfluente, ai fini del presente giudizio, come è dimostrato anche dal fatto che le parti, correttamente, non se ne sono dolute, visto che si tratta di un errore che, in linea generale, è inidoneo a determinare un concreto pregiudizio alle parti.

Del resto, è jus receptum che tale tipo di errore è da qualificare come un mero lapsus calami, frutto di una evidente svista, che in quanto tale non impedisce di comprendere l’effettiva portata precettiva della decisione (vedi: Cass. 6 maggio 2015, n. 9004; Cass. 9 maggio 2007, n. 10637), non determinando alcuna assoluta incertezza sul contenuto e sulla portata della decisione stessa e pertanto sul concreto comando giudiziale (vedi: Cass. 15 luglio 2009, n. 16448), essendo eventualmente emendabile soltanto con la procedura prevista dagli artt. 287 e 288 c.p.c. (vedi, fra le tante: Cass. 8 ottobre 2014, n. 21235; Cass. 20 marzo 2015, n. 5660; Cass. 18 dicembre 2015, n. 25550).

2 – Sintesi dei motivi di ricorso.

2. Il ricorso è articolato in tre motivi.

2.1. Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 2 (come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 2), dell’art. 43 del CCNL del 2007; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si assume che sarebbe contraddittoria e in contrasto con l’art. 2110 c.c. e con la L. n. 604 del 1966, art. 2, la statuizione della Corte d’appello secondo cui, pur essendo il licenziamento per superamento del periodo di comporto assimilabile non al licenziamento disciplinare ma a quello per giustificato motivo oggettivo – come affermato dalla giurisprudenza di legittimità – tuttavia si è ritenuta altrettanto pacifica l’applicabilità delle regole dettate dalla L. n. 604 del 1966, art. 2 (modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 2) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, poichè nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall’art. 2110 c.c..

Si aggiunge che sarebbe erronea anche la valutazione – effettuata dalla Corte territoriale in applicazione del contestato presupposto dell’applicabilità nella specie della L. n. 604 del 1966, art. 2 – di illegittimità del licenziamento sull’unica base della estrema genericità sia della lettera di licenziamento sia della nota di risposta della società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi di recesso.

2.2. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del CCNL del 2007; b) travisamento dei fatti per erronea qualificazione della presente fattispecie come licenziamento del periodo di comporto c.d. per sommatoria, invece che c.d. secco; c) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sostiene che la Corte territoriale, a causa della erronea interpretazione del richiamato art. 43 CCNL, avrebbe qualificato la fattispecie sub judice come comporto per sommatoria, mentre si tratta di un comporto c.d. secco.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere la Corte d’appello tenuto conto, nella quantificazione del danno, dell’aliunde perceptum o, comunque, della possibilità per il lavoratore di ridurre o evitare il danno con l’ordinaria diligenza.

3- Esame delle censure.

3. L’esame congiunto di tutti i motivi di censura – reso opportuno dalla loro intima connessione – porta alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, per plurime, concorrenti ragioni.

4. In primo luogo deve essere rilevata l’inammissibilità di tutte le censure proposte – in parte del primo e del secondo motivo e nell’integralità del terzo motivo – per prospettati vizi di motivazione, in quanto esse risultano formulate, nella forma e nella sostanza, in modo non conforme all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis – in base al quale la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928).

5. Peraltro, anche a volere – in via meramente ipotetica – prescindere dalla suindicata novità normativa il primo motivo risulta, nella sua integralità, inammissibile in quanto, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella prima parte dell’intestazione del motivo, tutte le censure in esso proposte si risolvono nella denuncia di errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi finiscono con l’esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello, che risultano sorrette da una motivazione nella quale l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione, sicchè la sentenza non meriterebbe comunque alcuna delle censure formulate dalla ricorrente.

6. A ciò può aggiungersi che le censure stesse risultano anche prospettate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e all’art. 369 c.p.c., n. 4 (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

In particolare, è “jus receptum” che, in base al suindicato principio – che va inteso alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – il ricorrente che denunci il difetto o l’erroneità nella valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569).

7. Nella specie la Corte d’appello – nell’uniformarsi al consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, a fronte della richiesta del lavoratore di conoscere i periodi di malattia, il datore di lavoro deve provvedere ad indicare i motivi del recesso della L. 15 luglio 1966, n. 604, ex art. 2, comma 2 (modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 2), in quanto le regole ivi previste sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso si applicano anche al suddetto licenziamento, non essendo dettata nessuna norma speciale al riguardo dall’art. 2110 c.c. (vedi, per tutte: Cass. 24 gennaio 1997, n. 716; Cass. 13 luglio 2010, n. 16421; Cass. 10 dicembre 2012, n. 22392; Cass. 13 gennaio 2014, n. 471; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2554) – ha affermato la lacunosità della nota di Poste Italiane, in data 28 ottobre 2008, di risposta alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi di recesso, al pari dell’atto di intimazione del licenziamento.

La ricorrente, senza rispettare il suddetto principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, ha solo formalmente e apoditticamente affermato l’erroneità di tale ultima, fondamentale, statuizione.

8. Anche il secondo motivo – a parte la rilevata erronea formulazione delle censure riferite all’art. 360 c.p.c., n. 5 – è inammissibile.

Infatti – a prescindere dalla considerazione secondo cui il riferimento al comporto c.d. per sommatoria è da considerare come il frutto di una semplice riproduzione del contenuto di molte delle massime delle sentenze citate cui la Corte romana si è uniformata che non si è tradotto nella qualificazione della presente fattispecie come comporto c.d. per sommatoria peraltro, il licenziamento in oggetto, come si è detto, è stato dichiarato illegittimo per il mancato rispetto delle regole previste dalla L. n. 604 del 1966, art. 2, sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso.

Ne consegue che il suddetto isolato riferimento, essendo eccedente rispetto alla necessità logico-giuridica della decisione, si deve considerare un “obiter dictum”, improduttivo di effetti giuridici e, come tale, non suscettibile di gravame, nè di censura in sede di legittimità (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1815; Cass. 8 ottobre 1997, n. 9796). Infatti, per “diritto vivente”, il motivo di ricorso per cassazione che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, e pertanto non costituente “ratio decidendi” della medesima è inammissibile (vedi, per tutte: Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 9 luglio 2015, n. 14347).

9. Quanto al terzo motivo, in aggiunta a quanto si è detto sopra (vedi punto 4) si può ricordare, con riguardo alla quantificazione del danno, che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ritiene che l’eccezione con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte.

Pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (ex multis: Cass. S.U. 3 febbraio 1998, n. 1099).

E’ stato, tuttavia, anche precisato che, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore ingiustamente licenziato è necessario che risulti la prova, da qualsiasi parte provenga, non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (fra le tante: Cass. 5 aprile 2004, n. 6668).

In ogni caso, spetta al datore di lavoro il relativo onere probatorio, quantomeno in punto di negligenza del lavoratore nel cercare altra proficua occupazione (vedi, fra le molte: Cass. 9 febbraio 2004, n. 2402 e 2.9.03 n. 12798).

Nel caso di specie, a fronte del silenzio sul punto della sentenza impugnata, la società ricorrente avrebbe dovuto dimostrare – facendo applicazione del citato principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione – di avere prospettato tempestivamente e ritualmente la relativa censura, il che non è avvenuto.

4 – Conclusioni.

10. In sintesi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, Euro 4000,00 (quattriomila/00) per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 21 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2016

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