Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18194 del 16/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 16/09/2016, (ud. 06/07/2016, dep. 16/09/2016), n.18194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28060/2013 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati MAURO RICCI, EMANUELA CAPANNOLO e CLEMENTINA PULLI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, C.F. (OMISSIS), in persona

del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA

DEI PORTOGHESI, 12;

– resistente –

e contro

A.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6450/2012 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 06/12/2012 R.G.N. 8513/09;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2016 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;

udito l’Avvocato CLEMENTINA PULLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza n. 6450/2012, depositata il 6.12.2012, la Corte d’Appello di Bari accoglieva il gravame proposto da A.A. contro la pronuncia del tribunale di Bari che aveva accolto la sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento soltanto con decorrenza dal 12.4.2007 e, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava l’INPS ad erogare l’indennità di accompagnamento con decorrenza dall’1.7.2003; ed al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio che liquidava in Euro 3350,00 per il primo grado ed in Euro 4020,00 per il grado di appello, con distrazione a favore del difensore anticipatario.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’INPS affidando le proprie censure a due motivi con i quali impugna la sola quantificazione delle spese effettuata dal giudice di appello. L’intimata non ha resistito al ricorso. Il Ministero Economia e Finanze non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo l’INPS lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 c.p.c., comma 2, dell’art. 1 e art. 6, comma 1 delle tariffe forensi approvate con D.M. n. 127 del 2004, del D.M. n. 140 del 2012, artt. 1, 4, 5, 11, emesso del D.L. n. 1 del 2012, ex art. 9, conv. in L. n. 27 del 2012 e della Tabella A) allegata al citato D.M. n. 140 del 2012, tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Con la presente articolata censura l’INPS addebita anzitutto alla liquidazione giudiziale delle spese processuali di aver indicato anche per il primo grado un importo unico, non tenendo conto della distinzione tra diritti ed onorari e di non aver indicato nemmeno la normativa e i criteri di riferimento, violando così il D.M. n. 127 del 2004, applicabile ratione temporis. Per le stesse spese processuali, riferite al primo grado di giudizio, la Corte avrebbe dovuto distinguere tra diritti ed onorari non potendo applicare il successivo D.M. n. 140 del 2012, in quanto la relativa attività difensiva si era esaurita prima della sua entrata in vigore. Inoltre, la sentenza avrebbe applicato uno scaglione superiore a quello corretto, non avendo considerato che il diritto era già stato parzialmente riconosciuto dal primo giudice e quindi le relative somme attribuite dal primo giudice per lo stesso periodo. L’appellante limitando la richiesta di riforma della sentenza al periodo precedente aveva fatto acquiescenza alla parte della sentenza relativa al riconoscimento del diritto dal 12.4.2007. L’oggetto del giudizio, perciò, era limitato alla richiesta di riforma per il periodo intermedio corrispondente a tre annualità e dieci mensilità per un importo che ammontava ad Euro 20.394,34; dovendosi così applicare lo scaglione compreso tra 5200,00 e 25900,01 Euro. Secondo un terzo rilievo, si sostiene che anche nella liquidazione delle spese del secondo grado la Corte ha violato i criteri di cui al D.M. n. 140 del 2012, applicabile ratione temporis nello scaglione fino ad Euro 25,000,00. Ed ancora che la Corte non avrebbe potuto operare un aumento dei valori medi non avendo indicato criteri, nè circostanze tali da spiegare un aumento dagli stessi valori di liquidazione di cui alla tabella A9 citata. Perciò, la Corte non ha provveduto ad effettuare correttamente la quantificazione delle spese che si rivela palesemente difforme dallo scaglione di riferimento il quale era quello da 5200,01 a 25.900,00 euRo ex D.M. n. 127 del 2004, ammontando la somma dovuta a Euro 20.394,34, ai sensi dell’art. 13 c.p.c. e del D.M. n. 127 del 2004, art. 16 (tenuto conto del criterio del decisum). Per la liquidazione delle spese del secondo grado, in base ai criteri di cui al D.M. n. 140 del 2012, operando l’aumento del 20%, trattandosi di appello, la Corte avrebbe potuto determinare nel massimo una liquidazione finale di Euro 2520,00 al posto di quella operata pari a 4020,00, tenuto sempre conto dello scaglione come sopra indicato.

2. Con il secondo motivo il ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 140 del 2012, artt. 4 e 11, emesso del D.L. n. 1 del 2012, ex art. 9, conv. in L. n. 27 del 2012 e della Tabella A) allegata al citato D.M. n. 140 del 2012, tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto il giudice d’appello non aveva ritenuto di dar conto delle circostanze concrete e della natura e della difficoltà della causa, per poter operare un aumento del compenso; in difetto delle quali la liquidazione risultava effettuata in violazione dei parametri specifici della tabella e dei valori medi di liquidazione.

3. I motivi possono essere valutati unitariamente essendo entrambi diretti a censurare la legittimità e la congruità della liquidazione delle spese processuali effettuata dal giudice di appello nella sentenza impugnata.

Il primo motivo è fondato, nei limiti di seguito precisati. In effetti per il primo grado di giudizio – che si era concluso con la sentenza del 30.6.2009 – andavano applicati i criteri di cui al D.M. n. 127 del 2004 e pertanto andava distinto tra onorari e diritti in modo da consentire la verifica della correttezza dei parametri utilizzati ed il rispetto delle relative tabelle. Ciò si evince dal consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che, sulla scorta della sentenza delle Sez. Unite n. 17405 del 12/10/2012, ha affermato che il giudice che deve liquidare le spese processuali relative ad un’attività difensiva ormai esaurita deve applicare la normativa vigente al tempo in cui l’attività stessa è stata compiuta, sicchè, per l’attività conclusa nella vigenza del D.M. n. 127 del 2004, deve applicare le tariffe da questo previste e non i parametri sopravvenuti ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, art. 41. Pertanto, in tema di spese processuali, agli effetti del D.M. n. 140 del 2012, art. 41, i nuovi parametri, in base ai quali vanno commisurati i compensi forensi in luogo delle abrogate tariffe professionali, si applicano in tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto purchè, a tale data, la prestazione professionale non sia ancora completata, sicchè non operano con riguardo all’attività svolta in un grado di giudizio conclusosi con sentenza prima dell’entrata in vigore, atteso che, in tal caso, la prestazione professionale deve ritenersi completata sia pure limitatamente a quella fase processuale (Cass. sez. 3, sentenza n. 23318 del 18/12/2012; e negli stessi termini Cass. Sez. 6, sentenza n. 2748 del 11/02/2016, Sez. 6 L, ordinanza n. 6306 del 31/03/2016).

4.- Non può accogliersi invece il rilievo secondo cui ai fini dell’individuazione dello scaglione doveva considerarsi che in primo grado il diritto era stato riconosciuto dal 12.4.2007, ed in secondo grado dalla domanda amministrativa del 24.6.2003; con una differenza di tre anni e dieci mensilità e per un importo di euro 20.234,34 che avrebbe dovuto costituire il valore in base al quale determinare lo scaglione per la liquidazione delle spese.

Si tratta di un rilevo infondato, perchè a seguito della corretta individuazione della data di decorrenza della prestazione all’avente diritto è stata attribuita in appello una prestazione unica conforme alla domanda iniziale, il cui valore complessivo deve essere invece tenuto in considerazione per la corretta determinazione delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio tanto ai sensi del D.M. n. 127 del 2004, tanto ai sensi del D.M. n. 140 del 2012.

Nè può sostenersi in proposito che l’appellante, chiedendo la riforma parziale della pronuncia, avesse fatto acquiescenza alla liquidazione già effettuata, sia perchè non di acquiescenza si tratta ma della naturale direzione dell’impugnazione rivolta a conseguire la parte della domanda non accolta. Sia perchè, come risulta dalla sentenza impugnata, l’appellante non aveva fatto alcuna acquiescenza avendo chiesto la riforma della sentenza anche in punto di spese domandando una nuova liquidazione di quelle del doppio grado del giudizio. E dunque correttamente la sentenza ha disposto la liquidazione delle spese a carico dell’INPS in considerazione della totale soccombenza. Ai fini della liquidazione delle spese non poteva pertanto tenersi conto del solo valore della prestazione discendente dalla pronuncia di appello e non di quello complessivo conseguito in base allo stesso appello, quasi che l’INPS sia stato soccombente solo nel processo di appello. Mentre l’Istituto, in seguito alla riforma in appello, deve essere ritenuto totalmente soccombente fin dal primo grado e per l’intera valore della prestazione da corrispondere in accoglimento della domanda iniziale. Anche sul punto si registra un conforme orientamento di questa Corte, avendo la giurisprudenza di legittimità statuito che (Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 6259 del 18/03/2014). “Il giudice di appello, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poichè la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicchè viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado”. E’ stato inoltre, ancora più specificamente, affermato da questa Corte (Cass. Sez. L, Sentenza n. 26985 del 22/12/2009) che “in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d’appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese”. Ne tale orientamento contraddice quello (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3903 del 29/02/2016) secondo cui ai fini della liquidazione delle spese occorre assumere a riferimento non la somma oggetto della domanda (criterio del “disputatum”), bensì quella ad essa concretamente attribuita (criterio del “decisum”), atteso che la stessa somma va individuata, appunto, senza alcuna parcellizzazione, in relazione all’esito complessivo della lite.

5.- Nella determinazione dello scaglione occorre invece tener conto della pronuncia delle Sez. Unite (sentenza n. 10455 del 21 maggio 2015) che risolvendo il contrasto determinatosi in relazione al criterio per determinare il valore della causa ai sensi del primo o dell’art. 13 c.p.c., comma 2, ha affermato il seguente principio di diritto: “ai fini della determinazione del valore della causa per la liquidazione delle spese di giudizio, nelle controversie relative a prestazioni assistenziali va applicato il criterio previsto dall’art. 13 c.p.c., comma 1, per cui, se il titolo è controverso, il valore si determina in base all’ammontare delle somme dovute per due anni”.

6. Per quanto concerne l’asserito vincolo del giudice alla determinazione media del compenso professionale ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, salva indicazione di concrete circostanze; si tratta di motivo che non trova fondamento nella normativa, secondo la quale, al contrario, (art. 1, art. 7, comma, 4 e art. 11) il giudice è tenuto soltanto a liquidare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, senza essere tenuto ad alcuna specifica motivazione (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 22983 del 29/10/2014); mentre l’indicazione di concrete circostanze è richiesta per derogare ai minimi ed ai massimi stabiliti dal D.M. (cfr. Cass. Sez. 6, Ordinanza n. 18167 del 16/09/2015: “Nel caso di liquidazione delle spese processuali sulla base delle tariffe approvate con il D.M. n. 140 del 2012, in difetto di specifica indicazione, non può presumersi che la somma liquidata sia stata parametrata dal giudice ai valori medi, rilevando unicamente che la liquidazione sia contenuta entro i limiti, massimo e minimo, delle tariffe medesime, peraltro nemmeno vincolanti, come si desume dall’art. 1, comma 7, del menzionato decreto”).

7.- Infine va pure disatteso il rilievo secondo cui per il secondo grado si sarebbe dovuto operare soltanto un aumento del 20% del valore medio di liquidazione, non essendo il giudice tenuto al rispetto del valore medio bensì soltanto al rispetto dei valori minimi e massimi della tariffa forense.

8- Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di accogliere il ricorso per quanto di ragione; con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla stessa Corte territoriale, in diversa composizione, che si atterrà ai principi richiamati. Il giudice del rinvio provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 385 c.p.c.. Non sussistono i presupposti per il raddoppio del c.u. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2016

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