Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18182 del 05/07/2019

Cassazione civile sez. I, 05/07/2019, (ud. 31/05/2019, dep. 05/07/2019), n.18182

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26012/2016 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Ludovisi n.

35, presso lo studio dell’avvocato Ridola Mario G., che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati Cerri David, Giorgi

Nicola Luigi, Menchini Sergio, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

Intesa Sanpaolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Cavour n. 19,

presso lo studio dell’avvocato De Luca Tamajo Raffaele, che la

rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e

ricorso incidentale condizionato;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Ludovisi n.

35, presso lo studio dell’avvocato Ridola Mario G., che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati Cerri David, Giorgi

Nicola Luigi, Menchini Sergio, giusta procura in calce al ricorso

principale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 605/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 14/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

31/05/2019 dal cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione del ricorso principale, inammissibilità o in subordine

rigetto dell’incidentale;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Mario Giuseppe Ridola, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso principale, rigetto

dell’incidentale;

udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato

Benedetta Garofalo, con delega orale dell’avv. Tamajo, che ha

chiesto il rigetto del principale, accoglimento dell’incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 14 aprile 2016 la Corte d’appello di Torino, riformando sul punto la decisione di primo grado, ha dichiarato non prescritto il diritto di M.A. al risarcimento del danno per la revoca senza giusta causa dalla carica di consigliere di amministrazione della Banco di Napoli International s.a., società di diritto lussemburghese controllata da Banco di Napoli s.p.a., deliberata dall’assemblea della prima il 25 marzo 1997, ma ha ritenuto la domanda infondata nel merito.

In particolare, la corte territoriale ha affermato che:

a) non è fondata l’eccezione di prescrizione del diritto azionato, posto che fu notificato alla società tempestivo atto di costituzione in mora in data 11 marzo 2002;

b) la domanda non merita tuttavia accoglimento, perchè il contratto denominato “Accordo di regia” – concluso tra la controllante Banco di Napoli s.p.a. e la controllata (all’epoca, per il 99,99% del capitale), in esecuzione del quale la prima con le deliberazioni del 19 luglio 1994 e del 14 dicembre 1995 aveva assunto l’obbligo di pagare il compenso e l’indennizzo per l’eventuale revoca senza giusta causa ai consiglieri di amministrazione della seconda (che, peraltro, coincidevano con quelli del Banco di Napoli s.p.a.) – si è risolto nel momento in cui quest’ultima ha ceduto in data 30 dicembre 1996 l’intero pacchetto azionario alla S.G.A. s.p.a. (sua partecipata totalitaria), in virtù della clausola risolutiva espressa contenuta nell’art. 3 del predetto accordo, secondo la quale l’obbligo sarebbe cessato, fra l’altro, in caso di trasferimento di tutte le azioni “ad altra entità economica”. Ed in data 6 marzo 1997 il Banco di Napoli s.p.a. ha comunicato a Banco di Napoli International s.a. la risoluzione del c.d. accordo di regia, decisione mai impugnata e, dunque, implicitamente assentita.

La detta cessione del pacchetto azionario, inoltre, integra la giusta causa di revoca, palesando il venir meno del vincolo fiduciario, in quanto si tratta ormai di due soggetti distinti.

Infine, anche qualora fosse stato a suo tempo concluso un contratto a favore di terzo (come prospettato nell’atto di citazione del M.), esso sarebbe sempre da individuare nello stesso accordo di regia, ormai risolto; mentre la nuova prospettazione (contenuta nella comparsa conclusionale in primo grado) quale negozio atipico con assunzione diretta dell’obbligo verso il M. non è condivisibile, in quanto fonte dell’obbligo non potrebbero essere le due deliberazioni del 19 luglio 1994 e del 14 dicembre 1995, meri atti unilaterali inidonei, senza il collegamento al predetto accordo negoziale, al sorgere dell’obbligo di pagamento del compenso.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione da M.A., affidato a sette motivi.

Si difende Intesa Sanpaolo s.p.a. con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale per un motivo, cui resiste controparte con controricorso.

Le parti hanno depositato anche la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – I motivi. Il ricorso principale espone motivi che possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 1, artt. 1363,1366 e 1369 c.c. e dei corrispondenti artt. 1156, 1158 e 1161 code civil luxembourgeois, con riguardo alla clausola n. 3 dell’accordo contrattuale fra le due società, il quale non presupponeva affatto la perduranza del controllo societario diretto, ma unicamente la continuità di appartenenza al medesimo gruppo economico (“altra entità economica”), ossia del potere di direzione e coordinamento, che è cosa diversa dal puro controllo; come è avvenuto nel caso di specie, attesa la partecipazione totalitaria del Banco di Napoli s.p.a. in S.G.A. s.p.a., cessionaria dell’intero pacchetto azionario dalla prima detenuto nella B.N.I. s.a.;

2) violazione dell’art. 2697 c.c., in quanto, a fronte della revoca dell’amministratore, è la società a dover provare la giusta causa per esonerarsi dall’obbligo di pagamento di un’indennità, onde era sulla controparte l’onere di dimostrare la sussistenza di un distinto centro di interessi;

3) omesso esame di fatto decisivo, consistente nel controllo totalitario di S.G.A. s.p.a. in capo a Banco di Napoli s.p.a., essendo la prima una società appartenente al medesimo gruppo bancario;

4) violazione o falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., perchè, una volta qualificato l’accordo di regia come contratto a favore di terzi, non era possibile la risoluzione per mutuo dissenso con effetti anche verso il terzo, nonostante l’avvenuta risoluzione del “patto di regia”;

5) violazione e falsa applicazione dell’art. 2383 c.c., comma 3, con riguardo alla clausola n. 3 del negozio medesimo, posto che il Banco di Napoli s.p.a. si era obbligato a corrispondere agli amministratori della controllata l’indennità di cui alla norma predetta per il caso di revoca anticipata senza giusta causa, mentre la situazione indicata non integra di per sè, come invece affermato dalla sentenza impugnata, la giusta causa di revoca;

6) violazione e falsa applicazione dell’art. 2383 c.c., comma 3, in quanto le mere esigenze organizzative della società capogruppo non escludono il diritto all’indennizzo per la revoca dell’amministratore;

7) violazione dell’art. 2359 c.c. e art. 2383 c.c., comma 3, perchè la corte del merito non ha considerato come anche il controllo indiretto possa rilevare ai fini di stabilire una influenza dominante su altra società, onde non può dirsi che, nella specie, Banco di Napoli s.p.a. avesse perduto il controllo su BNI s.a. solo per averla ceduta alla S.G.A. s.p.a., dalla prima comunque controllata al 100%.

1.2. – Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato, Intesa Sanpaolo s.p.a. deduce, con riguardo al rigetto della propria eccezione di prescrizione, l’omesso esame di fatto decisivo, consistente nell’avere la corte del merito omesso di pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità del motivo di appello avverso, in quanto il Banco di Napoli s.p.a. aveva di fatto disconosciuto l’avviso di ricevimento, privo di sottoscrizione, onde controparte per potersene avvalere avrebbe dovuto proporre istanza di verificazione ex art. 216 c.p.c. entro il termine di legge.

2. – La sentenza impugnata. Come ricordato, la corte d’appello ha ritenuto che non spetti al M. nessun compenso per la revoca anticipata dalla carica, in quanto il c.d. accordo di regia concluso tra la capogruppo Banco di Napoli s.p.a. e la controllata BNI s.a. – in forza del quale la prima si obbligò a corrispondere sia il compenso agli amministratori della seconda, sia l’eventuale risarcimento per recesso dal rapporto senza giusta causa – si è risolto in virtù della clausola risolutiva espressa, contenuta nell’art. 3, allorchè Banco di Napoli s.p.a. cedette l’intero pacchetto azionario alla S.G.A. s.p.a., da essa interamente partecipata, con conseguente venir meno dell’obbligo contrattualmente assunto dalla capogruppo, in seguito alla comunicazione di volersene avvalere operata dalla capogruppo medesima con lettera del 6 marzo 1997, non contestata dalla controparte.

Inoltre, la corte del merito, seppure in modo a volte intrecciato e discontinuo, ha aggiunto di reputare integrato il venir meno del vincolo fiduciario quale giusta causa di revoca degli amministratori da parte della società controllata, attesi il peculiare rapporto con la controllante e la detta cessione azionaria.

Orbene, entrambe queste argomentazioni – costituenti autonome rationes decidendi e come tali contrastate dai motivi del ricorso – non colgono nel segno.

Giova ricordare che la vicenda è già venuta all’esame di questa Corte, con riguardo all’azione proposta da altro amministratore revocato, e che pure ivi la sentenza impugnata, pronunciata dalla Corte d’appello di Napoli il 4 febbraio 2011, conteneva due distinte ed autonome rationes: “l’una consistente nel riconoscimento di una giusta causa di revoca dell’amministratore, l’altra consistente nella esclusione comunque di un obbligo della banca controricorrente di versare all’amministratore il compenso che avrebbe maturato sino alla scadenza naturale del mandato” (cfr. Cass. 10 settembre 2015, n. 17899). Peraltro, essendo in quel caso le questioni giuridiche sottoposte al vaglio di legittimità affatto diverse, non si tratta di un precedente in senso tecnico.

3. – I fatti. In punto di fatto, afferma la sentenza impugnata che sulla base del predetto “accordo di regia” la capogruppo assunse, approvando le deliberazioni del 19 luglio 1994 e del 14 dicembre 1995 (la prima consiliare, la seconda di cui non si precisa – neppure dalle odierne parti – l’organo deliberante), l’obbligo diretto di pagare il compenso, come pure l’eventuale risarcimento in caso di revoca anticipata ingiustificata, agli amministratori della partecipata società lussemburghese.

E’, dunque, incontestato fra le parti sia il diritto dell’odierno ricorrente di percepire un compenso per la carica (che nessuno assume fosse stata assunta con rinuncia preventiva del diritto al compenso e, quindi, in via gratuita), nonchè il risarcimento in caso di anticipata revoca senza giusta causa; sia l’esistenza di un patto, che prevedeva la corresponsione di tali compenso e risarcimento direttamente da parte della capogruppo (la quale, come emerge dalla deliberazione assunta dalla medesima il 14 dicembre 1995, riportata sul punto in ricorso, avrebbe poi “addebitato a BNI, tra gli altri, gli oneri sostenuti dal Banco di Napoli S.p.A. a norma del capo a) che precede, in conformità a quanto previsto nell’accordo di regia in essere…”).

Altrettanto pacifico, infine, il contenuto della clausola negoziale, di cui all’art. 3 dell’accordo, riportata nel ricorso in ossequio al principio di specificità: “(i)n caso di fusione, incorporazione o trasferimento di tutte le azioni di BNI SA ad un’altra entità economica, il presente contratto cessa automaticamente”.

Si tratta di un patto di accollo, quale contratto a favore di terzo, di natura cumulativa ed esterna, costituendo esso un obbligo anche verso il creditore, il quale può quindi pretendere l’adempimento dell’obbligazione, con la conseguenza che, nel caso di mancata osservanza dell’obbligo, l’accollante risponde dell’inadempimento anche nei confronti del creditore.

4. – Motivi vertenti sulla sopravvenuta inefficacia dell’accordo di regia”. I primi quattro motivi del ricorso, come pure il settimo, pongono questioni connesse, afferenti il ritenuto venir meno dell’efficacia dell’accordo concluso tra capogruppo e partecipata, fondante in capo alla prima l’obbligo di pagamento del compenso e dell’eventuale indennità per l’anticipata revoca illegittima.

4.1. – Il primo, il secondo ed il settimo motivo vanno accolti, per le ragioni che seguono.

Dall’inefficacia sopravvenuta del c.d. patto di regia concluso nel 1994, in virtù della cessione del pacchetto azionario, la corte territoriale ha fatto discendere l’insussistenza di qualsiasi diritto risarcitorio in capo all’amministratore anticipatamente revocato: in tal modo, essa non ha tuttavia fatto buon governo dei principi dell’interpretazione negoziale e di quello dell’onere della prova.

4.1.1. – Sotto il primo profilo, la corte del merito non ha correttamente applicato i criteri di cui agli artt. 1156, 1158 e 1161 code civil luxembourgeois, corrispondenti agli artt. 1362,1366 e 1369 c.c., dal ricorrente invocati, laddove essa in modo apodittico si limita ad affermare la diversa soggettività giuridica dei due enti (capogruppo ed altra società del medesimo gruppo, cessionaria del pacchetto azionario), senza però approfondire – sulla base della logica dell’intero accordo, delle altre clausole del medesimo che palesino gli interessi sottesi ed, in una, della causa concreta in esso oggettivamente espressa – quale fosse l’esatta portata dell’espressione “altra entità economica”, contenuta nella menzionata clausola n. 3 del c.d. accordo di regia: vale a dire, se con essa si intendesse qualunque cessione ad un altro soggetto, o, invece, si volesse piuttosto pattuire l’inefficacia del patto di accollo del compenso (e dell’obbligo risarcitorio secondario per il caso di revoca illegittima dell’organo), contenuto nel più volte menzionato “accordo di regia”, solo in ipotesi di venir meno della unità economica dei due soggetti, appartenenti al medesimo gruppo imprenditoriale.

L’interpretazione del contratto costituisce giudizio di fatto, riservato al giudice del merito: ma le norme che la governano sono regole di diritto e, sulla base dell’interpretazione, il giudice qualifica il contratto, ne giudica della validità ed efficacia, sindaca l’inadempimento, in sostanza valuta ogni vicenda giuridica.

La regola base è quella contenuta nell’art. 1156 c.c. lussemburghese – legge applicabile al negozio ex art. 4 della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, adottata a Roma il 19 giugno 1980, ratificata dalla L. 18 dicembre 1984, n. 975 ed entrata in vigore dal 10 aprile 1991 – secondo cui, al pari dell’art. 1362 c.c., comma 1, si richiede di “ricercare qual è stata la comune intenzione delle parti contraenti anzichè fermarsi al senso letterale dei termini impiegati”.

Nell’ermeneutica contrattuale (a somiglianza dell’evoluzione verificatasi nella stessa interpretazione della legge), dall’originario richiamo al principio in claris non fit interpretatio – secondo cui l’interprete dovrebbe arrestare la propria attività interpretativa alla lettera del negozio, ove questa appaia univoca – si è progressivamente affermato il convincimento secondo cui è in ogni caso necessario indagare sulle reali intenzioni delle parti e sull’effettiva portata delle clausole all’interno del testo (cfr., fra le altre, Cass. 13 marzo 2015, n. 5102).

Nella specie, pertanto, a fronte della figura del gruppo societario, che pacificamente ricorreva, la corte territoriale avrebbe dovuto valutare se davvero la distinta soggettività della società del gruppo valesse ad integrare la nozione di diversa “entità economica”, utilizzata dalle parti: senza potersi, dunque, arrestare alla semplicistica considerazione della differente personalità giuridica, nozione estranea alle parole ed al contenuto del concetto utilizzati dalle parti.

Al riguardo, giova ricordare come nel gruppo bancario si contempla da tempo lo strumento del “regolamento di gruppo” (cfr. D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 61, comma 4); si considerino, altresì, gli artt. 2497-ter c.c., il quale presuppone le direttive della capogruppo, e 2497-septies c.c., se riferito anche al gruppo gerarchico; e si veda già una remota pronuncia di questa Corte, in cui veniva ricordato che “(l)’accordo, o la situazione di raggruppamento (in forma di partecipazioni incrociate, di controlli o di altri tipi di coordinamento o anche di dominio) è vicenda societaria diffusa, poichè consente di utilizzare il potenziale economico di varie imprese senza ricorrere allo strumento della fusione” (Cass. 8 maggio 1991, n. 5123).

Nella specie, con l’accollo alla capogruppo dell’obbligo di corrispondere agli amministratori della controllata il compenso, nonchè l’eventuale risarcimento per la revoca illegittima dalla carica, era dunque dato di realizzare, in una situazione di eterodirezione della controllata, il concreto apporto in favore di questa ad opera della controllante, che in tal modo, mediante la nomina dei medesimi amministratori ed il vincolo del loro compenso, realizzava la soggezione alle direttive programmatiche della capogruppo (sia pure sempre con il filtro del perseguimento dell’interesse della società amministrata, secondo il nuovo art. 2497 c.c.).

In sostanza, si realizzava così l’intento, già da questa Corte reputato legittimo, secondo cui le decisioni della capogruppo vengono attuate dalla società figlia, a condizione che siano fatte proprie dagli organi di questa – tanto più, dunque, quando siano le medesime persone fisiche – e non contrastino con l’interesse sociale (cfr. Cass. 15 giugno 2000, n. 8159; Cass. 13 febbraio 1992, n. 1759).

Simili accordi dunque permettono il perseguimento degli interessi di gruppo e di veicolare gli ordini che la capogruppo bancaria impartisce ai sensi delle leggi speciali (cfr. D.Lgs. 24 settembre 1993, n. 385, art. 23, comma 2, come riscritto nel 2003 e nel 2004, che, nel definire la “nozione di controllo”, di cui alla rubrica, lo reputa esistente, fra l’altro, oltre che quando il socio dispone della maggioranza dei voti per la nomina e la revoca degli organi, anche, come prevede il n. 4, in presenza di un “assoggettamento a direzione comune, in base alla composizione degli organi amministrativi”).

4.1.2. – Sotto il secondo profilo, questa Corte ha già affermato, in tema di onere della prova circa il diritto dell’amministratore al risarcimento del danno per la revoca anticipata dalla carica, come gravi sulla società, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037).

Nel caso di specie, il patto di pagamento di una “indennità” per il caso di revoca senza giusta causa (unico profilo che ora interessa, non parlandosi del diritto al compenso) fu convenzionalmente assunto dalla capogruppo, la quale tuttavia pretende di sottrarsene, allegando l’inefficacia sopravvenuta del negozio per il verificarsi della condizione, integrante la clausola risolutiva espressa, del passaggio del pacchetto azionario ad “altra entità economica”.

Costituendo fatto impeditivo del diritto al risarcimento del danno, l’esistenza di tale inefficacia per integrazione della condizione contrattuale predetta avrebbe dovuto essere provata, dunque, dal Banco di Napoli s.p.a., la quale aveva l’onere di dimostrare che, nonostante il controllo totalitario, la S.G.A. s.p.a. faceva capo ad un distinto aggregato di interessi economici: non potendosi il giudice di merito arrestare, invece, al mero, superficiale rilievo di una distinta soggettività giuridica.

A tale concreta vicenda va dunque esteso il principio appena ricordato, posto che la diversa fonte dell’obbligazione risarcitoria (la legge, con l’art. 2383 c.c., comma 3, o la volontà delle parti, in ipotesi di assunzione dell’obbligo da parte di un terzo accollante) e il diverso elemento di integrazione della fattispecie (la giusta causa di revoca o la risoluzione dell’accordo per clausola risolutiva espressa) non incidono sull’atteggiarsi degli oneri probatori a carico rispettivo delle parti.

Era, quindi, onere della società capogruppo provare che, a causa della cessione del pacchetto azionario detenuto in BNI s.a. ad una sua partecipata totalitaria, fosse stata integrata la condizione contemplata nella clausola risolutiva espressa, prevista dalle parti.

Ne deriva che la corte del merito non ha correttamente applicato la regola di cui all’art. 2697 c.c., addebitando al M. di non aver offerto la prova “in merito ai fatti ed alle circostanze utili a configurare, tra le due società, un unico centro di imputazione di interessi”. Ed invero, essa trascura del tutto il corretto atteggiarsi dell’onere della prova, come ora esposto, nonchè – sempre ai fini dell’onere predetto – la stessa previsione dell’art. 2497-sexies c.c., secondo cui si presume che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’art. 2359 c.c..

4.2. – Infondato, invece, è il terzo motivo, atteso che la corte del merito non ha mancato di considerare il fatto del controllo totalitario della stessa cessionaria del pacchetto azionario compravenduto, quanto piuttosto di trarne tutte le conseguenze giuridiche dovute.

4.3. – Il quarto motivo resta assorbito.

5. – Motivi vertenti sull’esistenza di una giusta causa di revoca. I rimanenti motivi quinto e sesto riguardano la giusta causa di revoca dell’odierno ricorrente dalla carica.

La seconda argomentazione contenuta nella decisione impugnata, sebbene non del tutto svolta, afferma, infatti, la sussistenza della giusta causa di revoca – la cui mancanza, in forza del menzionato accordo di regia, avrebbe comportato l’obbligo della capogruppo di pagare l’indennizzo – in ragione della stessa cessione del pacchetto azionario da parte della capogruppo, la quale aveva, in origine, propiziato la nomina dei propri amministratori a comporre il c.d.a. della controllata.

Poichè anche tale ratio fonda la decisione, la ricorrente l’ha impugnata con i motivi in esame.

Essi sono, del pari, fondati.

5.1. – La questione della legge applicabile alla revoca dell’amministratore della società di diritto lussemburghese non risulta trattata dalla sentenza impugnata, nè dalle parti. Ciò è verosimilmente dovuto al fatto che la stessa deliberazione del 14 dicembre 1995, assunta dal Banco di Napoli s.p.a., riferiva agitale società l’obbligo di corrispondere quanto dovuto agli amministratori della controllata, “ivi compreso quanto spettante agli stessi nell’ipotesi prevista dall’art. 2383 c.c., comma 3”.

Questa Corte ha già chiarito la portata del diritto dell’amministratore al risarcimento del danno per il caso di revoca anticipata dalla carica senza giusta causa, enunciando alcuni principi di diritto, qui rilevanti, secondo cui:

a) la giusta causa di revoca consiste nell’esistenza di circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, siano o no provocate dall’amministratore, le quali pregiudicano l’affidamento nelle sue attitudini e capacità, ossia il “rapporto fiduciario” (Cass. 23 marzo 2017, n. 7475;15 ottobre 2013, n. 23381; 14 maggio 2012, n. 7425; 5 agosto 2005, n. 16526; 7 agosto 2004, n. 15322; 21 novembre 1998, n. 11801; 22 giugno 1985, n. 3768); al riguardo il potere dell’assemblea non è illimitato, in ragione della dignità e del sacrificio economico imposto alle persone che rivestono la carica amministrativa (Cass. 15 aprile 2016, n. 7587, in motivazione);

b) nell’atteggiarsi degli oneri probatori ex art. 2697 c.c., grava sulla società quello di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037).

Orbene, richiamata la detta distribuzione dell’onere probatorio, occorre ora precisare che nella nozione di giusta causa di revoca non rientra la mera cessione del pacchetto azionario detenuto in BNI s.a. ad altra partecipata totalitaria.

Si noti che il giudizio se la fattispecie concreta – la cui esistenza è rimessa in via esclusiva al giudice del merito – vada sussunta sotto l’astratto paradigma legislativo è giudizio di diritto, controllabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (si vedano, proprio sulla revoca dell’amministratore, Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037; in tema di licenziamento per giusta causa, Cass. 10 gennaio 2019, n. 428; 19 gennaio 2018, n. 1374; 9 luglio 2015, n. 14324; 14 marzo 2013, n. 6501; 13 agosto 2008, n. 21575). Onde, ferma la ricorrenza in concreto della situazione nel caso di specie, riservata al giudice del merito, la sussunzione della singola ragione di revoca nell’ambito della nozione di giusta causa di cui all’art. 2383 c.c. è giudizio di diritto.

Al riguardo, non può ritenersi che il “vincolo fiduciario” sia in re ipsa venuto meno, secondo l’oggettiva nozione predetta, per la vicenda in fatto accertata dal giudice del merito. La ricorrenza di esigenze di auto-organizzazione della struttura societaria, costituente un motivo di natura oggettiva non pertinente alla condotta dell’amministratore, è invero reputata estranea alla nozione di giusta causa legittimante il recesso della società (Cass. 12 settembre 2008, n. 23557; Cass. 18 settembre 2013, n. 21342; Cass. 19 novembre 2008, n. 27512; Cass. 7 maggio 2002, n. 6526).

Tale principio va ora ribadito, dovendosi affermare che la cessazione dei componenti del consiglio di amministrazione, determinata dalla decisione della capogruppo di trasferire le azioni della controllante ad altra società del gruppo, non è sorretta da giusta causa, in mancanza di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore, che non può essere integrata dal mero nuovo assetto organizzativo del gruppo, il quale non è, di per sè, collegabile ad una rottura del pactum fiduciae.

6. – Il ricorso incidentale. L’unico motivo del ricorso incidentale condizionato è inammissibile.

Non sussiste, invero, integrazione della fattispecie dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la quale richiede che sia stato omesso l’esame di un fatto decisivo: al contrario, la ricorrente incidentale lamenta che la corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi su di un’eccezione dalla medesima banca sollevata, avente ad oggetto l’inammissibilità di avverso motivo di appello.

Ma tale vizio non è riconducibile alla fattispecie invocata.

La differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omesso esame di fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consiste nella circostanza che nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), mentre, nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione.

In particolare, questa Corte ha già chiarito – con principio che qui si intende ribadire – come l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile (Cass. 16 marzo 2017, n. 6835; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23930).

7. – In conclusione, la sentenza impugnata va cassata, in accoglimento dei motivi esposti, con rinvio alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, perchè decida la controversia in esame, applicando i seguenti principi di diritto:

“In tema di onere della prova circa il diritto dell’amministratore al risarcimento del danno per la revoca anticipata dalla carica, grava sulla società, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare il venir meno del diritto al risarcimento del danno, anche nell’ipotesi in cui il patto di pagamento di una “indennità” sia stato convenzionalmente assunto dalla capogruppo, che alleghi l’insussistenza del suo obbligo in ragione della cessione della società controllata ad altra, costituente un diverso aggregato di interessi economici”.

“Non è integrata la giusta causa di revoca dell’amministratore di società dalla mera ricorrenza di esigenze di auto-organizzazione della struttura societaria, quale la decisione della capogruppo di trasferire le azioni della controllante ad altra società del gruppo, ove la stessa non sia stata motivata sulla base di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto e tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore”.

Alla corte territoriale si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo, il quinto, il sesto ed il settimo motivo del ricorso principale, respinto il terzo ed assorbito il quarto; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 31 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2019

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