Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18175 del 24/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 24/06/2021, (ud. 12/04/2021, dep. 24/06/2021), n.18175

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22195/13 R.G. proposto da:

NEW TRAVEL TRANS S.A.S., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso,

dall’avv. Valerio Freda, con domicilio eletto c/o Assonime (avv.

Nicola Pennella), in Roma, Piazza Venezia, n. 11;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania n. 185/2/12 depositata in data 20 giugno 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 aprile

2021 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

e sul ricorso iscritto al n. 22196/13 R.G. proposto da:

D.C.N., rappresentato e difeso, giusta procura a

margine del ricorso, dall’avv. Valerio Freda, con domicilio eletto

c/o Assonime (avv. Nicola Pennella), in Roma, Piazza Venezia, n. 11;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania n. 186/2/12 depositata in data 20 giugno 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 aprile

2021 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

e sul ricorso iscritto al n. 22197/13 R.G. proposto da:

D.C.A., rappresentata e difesa, giusta procura a

margine del ricorso, dall’avv. Valerio Freda, con domicilio eletto

c/o Assonime (avv. Nicola Pennella), in Roma, Piazza Venezia, n. 11;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente avverso la sentenza della Commissione tributaria

regionale della Campania n. 187/2/12 depositata in data 20 giugno

2012

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 aprile

2021 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La New Travel Trans s.a.s., esercente attività di commercio di autoveicoli, ed i soci D.C.N. e D.C.A. impugnarono, con distinti ricorsi, gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate rispettivamente a carico della società, ai fini del recupero di maggiori IRAP, IRPEG ed I.V.A., ed a carico dei soci di maggior reddito di partecipazione ai fini Irpef, in relazione all’anno d’imposta 2003.

La Commissione tributaria provinciale, con distinte pronunce, rigettò i ricorsi, rilevando che l’Amministrazione finanziaria aveva accertato che la dichiarazione dei redditi annuale presentata dalla società contribuente non indicava i dati contabili e il volume d’affari.

2. Proposte autonome impugnazioni, la Commissione tributaria regionale della Campania, con distinte decisioni in epigrafe richiamate, confermò le sentenze di primo grado.

In particolare, con la sentenza n. 185/2/12 pubblicata il 20 giugno 2012, motivò, con riguardo all’atto impositvo emesso a carico della società, che l’accertamento risultava legittimo alla luce della metodologia seguita dall’Ufficio che si era avvalso di dati matematici corretti sulla base dei quali aveva ricostruito analiticamente i componenti di costo ed i ricavi non contabilizzati; evidenziò che le maggiori imposte dovute trovavano riscontro nel processo verbale di constatazione che conteneva una descrizione dettagliata dei fatti e dei documenti contabili raccolti, avendo l’Ufficio finanziario riscontrato che la società aveva omesso di indicare nella dichiarazione annuale i dati contabili ed il volume di affari, in assenza dei quali si poteva procedere induttivamente alla rideterminazione dei costi e dei ricavi.

Con le sentenze n. 186 e n. 187 del 2012 respinse le impugnazioni dei soci in ragione dell’avvenuto rigetto dell’appello presentato dalla società concernente l’avviso di accertamento da cui era scaturito il maggior reddito accertato ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5.

3. La società ed i soci hanno proposto autonomi ricorsi per la cassazione delle suddette decisioni d’appello, affidandosi a quattro motivi. L’Agenzia delle entrate resiste con autonomi controricorsi.

4. A seguito di fissazione dell’adunanza camerale del 17 settembre 2015, la Sezione sesta civile, ritenuti non sussistenti i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c., ha rimesso le cause alla Sezione Quinta civile per la trattazione in pubblica udienza.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente, va disposta la riunione dei ricorsi iscritti ai nn. 22196/13 e 22197/13 R.G. al ricorso n. 22195/13 R.G., di iscrizione più risalente, atteso che, pur avendo tali ricorsi ad oggetto l’impugnazione di distinte sentenze, essi scaturiscono dal medesimo accertamento svolto a carico della società di persone e dei soci in relazione all’anno d’imposta 2003 e le sentenze impugnate sono fondate sulle medesime statuizioni.

1.1. Deve, infatti, farsi applicazione, nella specie, del temperamento adottato dalla Corte qualora gli avvisi di accertamento collegati siano stati impugnati autonomamente dai soci e dalla società e, nei gradi di merito, i giudizi relativi, sebbene celebrati separatamente – nonostante il litisconsorzio tributario (Cass., sez. U, 4/06/2008, n. 14815; Cass., sez. U, 20/06/2012, n. 10145) – siano stati esaminati dallo stesso giudice e siano stati decisi con identica motivazione, sì da potersi escludere ogni rischio di contrasto di giudicati; in tal caso, la Corte può disporre la riunione dei procedimenti, per connessione oggettiva ex art. 274 c.p.c., e non disporre l’annullamento delle sentenze di merito, dovendo ritenersi rispettata la ratio del litisconsorzio (Cass.” sez. 5, n. 2907 del 18/2/2010; Cass., sez. 5, 25/03/2011, n. 6936; Cass., sez. 5, 10/11/2017, n. 26648; Cass., sez. 6-5, 15/02/2018, n. 3789).

La ricomposizione dell’unicità della causa innanzi a questa Corte attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), in quanto evita che con la declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito si determini un dispendio di energie processuali, non giustificato dalla esigenza di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio.

1.2. Nella fattispecie in esame ricorrono i presupposti richiamati nel paragrafo 1.1.), giacchè i ricorsi in primo grado separatamente esperiti dai soci e dalla società, pur non essendo stati cumulativamente proposti, sono stati tutti depositati contemporaneamente ed hanno trovato una trattazione simultanea sia in primo che in secondo grado, risultando decisi da organi giudiziari di merito nella stessa composizione e alla medesima udienza; inoltre similari sono stati i contenuti delle tre pronunzie a favore della società e dei due soci sia in primo che in secondo grado.

1.3 L’inosservanza della C.T.P. all’obbligo di riunire in unico procedimento, già in primo grado, tutti i ricorsi separatamente proposti in fattispecie fiscale d’imputazione per trasparenza, non spiega effetti quando, nonostante la mancanza di un formale provvedimento di riunione, dette impugnazioni abbiano sostanzialmente avuto uno svolgimento unitario, in quanto chiamate nello stesso giorno, nonchè contestualmente discusse e decise dallo stesso collegio con il medesimo relatore, poichè si resta nell’ambito della mera redazione separata di più pronunce per una decisione di tipo praticamente unitario.

Dunque, la ricomposizione in questa sede dell’unicità della causa, che avrebbe già dovuto trovare attuazione in primo grado e poi in appello, consente di evitare un inutile declaratoria di nullità dei pregressi gradi del giudizio, non giustificata dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio (Cass., sez. 5, 18/02/2010, n. 3830), dal momento che tale provvedimento conseguirebbe unicamente l’effetto di ritardare la decisione della controversia.

Infatti, è una regola generale quella per cui le norme processuali devono essere interpretate e applicate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti regressivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale e solo in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Corte dei diritti dell’Uomo, 24 febbraio 2009, C.G.I.L. e Cofferati c. Italia).

La simultanea trattazione dei giudizi nei gradi di merito e da parte della medesima Commissione tributaria, che ha reso pronunce sostanzialmente identiche nel contenuto, consente, dunque, di disporre la riunione dei processi.

2. Ricorso n. 22195/13 R.G.: Con il primo motivo, denunciando error in procedendo, la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, in relazione al combinato disposto degli artt. 354 e 102 c.p.c., ravvisando un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra società di persone e soci, e censura la sentenza per avere omesso di rilevare la nullità del giudizio per mancata integrazione del contraddittorio.

3. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 e del D.P.R. n. 633 del 1973, art. 54.

Secondo la prospettazione della ricorrente, la modalità di accertamento adottata dall’Ufficio negli atti impositivi risulta fondata su dati desunti dalle scritture aziendali della società, con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione, nel caso di specie, non l’accertamento induttivo, ma piuttosto l’accertamento analitico-induttivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1; inoltre, l’Ufficio ha calcolato la percentuale di ricarico del 30 per cento omettendo la determinazione di una media e richiamando differenti elementi, che sono rimasti privi di qualsiasi fondamento; l’unico elemento a supporto della determinazione della percentuale di redditività – fissata nella misura del 20 per cento – è che tale percentuale sia stata ricostruita “con ampio criterio di moderazione”, ossia senza alcuno specifico parametro di riferimento.

Pone in evidenza, ai fini dell’ammissibilità del mezzo in esame, che la questione è stata formulata nelle fasi di merito ed oggetto di discussione tra le parti e che sussiste un necessario nesso causale tra vizio denunciato e pronuncia, in quanto la C.T.R. ha confermato la ricostruzione del maggior volume di affari e dei maggiori ricavi determinati dall’Ufficio attraverso l’applicazione di una percentuale di ricarico e di redditività quantificati in modo arbitrario e senza alcun legittimo parametro di riferimento.

4. Con il terzo motivo, con il quale si censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2 e del D.P.R. n. 633 del 1973, art. 55, la ricorrente assume che, seppure è vero che l’accertamento induttivo extracontabile legittima l’utilizzo di elementi indiziari privi dei requisiti della gravità, precisione e concordanza, è anche vero che tali elementi devono comunque rispondere ad una sufficiente logica sia fattuale che giuridica e non possono fondarsi su “mere congetture dei verificatori”.

Nel caso di specie il presunto maggior imponibile era stato ricostruito induttivamente applicando una percentuale di ricarico del 30 per cento, omettendo la determinazione di una media, sia essa aritmetica ovvero ponderale, e richiamando differenti ed ulteriori elementi, che erano però rimasti mere affermazioni. L’unico elemento a sostegno della percentuale di redditività era stato che essa era stata ricostruita “con ampio criterio di moderazione”.

La questione era stata oggetto di dibattito tra le parti ed aveva rilevanza, dal momento che la C.T.R. aveva confermato la ricostruzione del maggior volume di affari e dei maggiori ricavi determinati dall’Ufficio.

5. Con il quarto motivo, deducendo motivazione omessa o insufficiente circa un punto decisivo della controversia, la società ricorrente imputa alla C.T.R. di non avere chiarito le ragioni che l’avrebbero indotta a condividere la percentuale di ricarico e di redditività determinate dall’Ufficio.

6. Ricorso n. 22196/13 R.G. e Ricorso n. 22197/13: Con il primo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e degli artt. 157 e 161 c.p.c., in relazione all’art. 111 Cost..

Lamentano che la C.T.R. è pervenuta alla pronuncia di rigetto della impugnazione ritenendosi dispensata dall’enumerare le plurime e specifiche contestazioni mosse e limitandosi a fare propria la motivazione di altra sentenza, peraltro neppure indicata, senza esporre le ragioni per le quali era a suo avviso da condividere la valutazione dei giudici di primo grado.

7. Con il secondo motivo, denunciando motivazione omessa o insufficiente circa un punto decisivo della controversia, lamentano che la C.T.R., nell’invocare per relationem la motivazione di altra sentenza, avrebbe completamente disatteso l’onere motivazionale, non consentendo in tal modo di comprendere se il giudizio di condivisione poggia su un esame critico del gravame.

8. Con il terzo motivo deducono motivazione omessa o insufficiente circa un punto decisivo della controversia.

Evidenziano che la sentenza dovrebbe comunque essere cassata per vizio di motivazione anche nell’ipotesi in cui si dovesse ritenere che le questioni oggetto del giudizio a carico del socio siano unite da un vincolo di “consequenzialità necessaria” con quelle affrontate nella sentenza richiamata per relationem, tenuto conto della concreta possibilità di una riforma della decisione alla quale è stato operato il rinvio.

9. Con il quarto motivo (erroneamente indicato nei ricorsi come primo mezzo) denunciano violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, in relazione al combinato disposto degli artt. 354 e 102 c.p.c., eccependo che la sentenza di appello è affetta da nullità assoluta, essendo configurabile un caso di litisconsorzio necessario originario tra società e soci.

10. Il primo motivo del ricorso proposto dalla società ed il quarto motivo dei ricorsi proposti dai soci possono essere trattati unitariamente perchè vertono sulla medesima questione e denunciano un error in procedendo.

I motivi vanno dichiarati inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse perchè la disposta riunione dei giudizi, separatamente introdotti in primo grado dalla società e dai soci, per le ragioni già esposte nei paragrafi da 1.1.) a 1.3.), consentendo la ricomposizione della unicità della causa, assicura il rispetto effettivo del principio del contraddittorio.

11. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso della società, che vanno scrutinati congiuntamente perchè sono volti a censurare la metodologia di accertamento di cui si è avvalso l’Ufficio ai fini della ricostruzione della maggiore materia imponibile, sono inammissibili.

11.1. La Commissione tributaria regionale, nel confermare integralmente l’avviso di accertamento notificato alla società, ha ritenuto del tutto legittima la metodologia seguita dall’Ufficio per la ricostruzione dei costi e dei ricavi non contabilizzati, richiamando a supporto del proprio convincimento le risultanze emergenti dal processo verbale di constatazione, nel quale è stato evidenziato che la verifica svolta ha fatto emergere che, pur presentando la dichiarazione annuale mod. Unico SP, la società aveva omesso di indicare i dati contabili ed il volume di affari ai fini della determinazione delle imposte dovute, in tal modo non consentendo il controllo della stessa dichiarazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

11.2. In effetti, dalla lettura dell’avviso di accertamento, prodotto unitamente al ricorso per cassazione e trascritto nello stesso ricorso, emerge che i verbalizzanti, in sede di accesso, hanno reperito documentazione “relativa ad un impianto contabile limitato riguardo i fatti gestionali”, dal momento che i bilanci esibiti riportavano solo alcune movimentazioni economico-patrimoniali, non indicavano alcun valore di giacenza merce, sebbene nel periodo esaminato alcuni beni acquistati in esercizi precedenti risultassero ceduti e la società avesse acquistato beni da operatori comunitari senza presentare la dichiarazione “INTRA”.

Nell’atto impositivo si pone, quindi, in rilievo che la società aveva redatto in modo incompleto le scritture contabili omettendo sia di emettere e di contabilizzare le fatture relative alla cessione dei beni commercializzati, sia di registrare i componenti negativi di reddito e che, proprio in ragione della irregolare tenuta della contabilità, si è proceduto ad un accertamento induttivo del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, anzichè ad un accertamento analitico induttivo.

11.3. Le omissioni o inesatte indicazioni accertate e, comunque, le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dalla motivazione dell’atto impositivo sono gravi e numerose e, quindi, tali da rendere del tutto inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica e giustificano, di conseguenza, l’utilizzo, da parte dell’Ufficio finanziario, del metodo induttivo che, come è noto, consente all’Amministrazione di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili e di utilizzare presunzioni “semplicissime”, ossia prive dei caratteri della gravità, precisione e concordanza.

11.4. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la differenza tra l’accertamento analitico-induttivo e quello induttivo o extracontabile sta nel fatto che in entrambi i casi – fermo l’obiettivo della ricostruzione di un reddito “effettivo” – si procede ad un accertamento basato su presunzioni, ma mentre nel primo caso si rettificano singole poste di costi o di ricavi, nel secondo caso, invece, si rettificano i ricavi ed i costi complessivi per poi addivenire al reddito.

Il discrimine tra i due metodi di accertamento va, dunque, ricercato rispettivamente nella “parziale” od “assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili (Cass., sez. 5, 2/07/2014, n. 15028; Cass., sez. 5, 8/03/2019, n. 6861; Cass., sez. 5, 18/12/2019, n. 33604; Cass., sez. 5, 21/03/2018, n. 7025). Infatti, nel primo caso, la incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati non consente di prescindere dalle scritture contabili, essendo l’ufficio accertatore legittimato a “completare” le lacune riscontrate utilizzando anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti di cui all’art. 2729 c.c.; nel secondo caso, invece, le omissioni o le false ed inesatte indicazioni risultano talmente gravi da inficiare l’attendibilità e, dunque, l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento, anche degli altri dati contabili apparentemente regolari, con la conseguente possibilità di prescindere dalle scritture contabili e di avvalersi di elementi indiziari anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c..

11.5. Nel caso in esame, la totale inattendibilità della contabilità tenuta dalla società rende del tutto legittimo l’utilizzo da parte dell’Amministrazione finanziaria del metodo induttivo, come correttamente rilevato dai giudici d’appello, stante la sussistenza dei presupposti per il ricorso a tale metodologia di accertamento.

Inoltre, le doglianze poste dalla ricorrente a sostegno dei motivi di impugnazione, in assenza della indicazione delle contestazioni rivolte all’avviso di accertamento con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, di cui è stato riportato in ricorso solo uno stralcio, non risultano improntate al rispetto del canone di autosufficienza perchè non permettono di valutare se le questioni sollevate – afferenti alla ricostruzione della percentuale di ricarico e della percentuale di redditività – fossero state già avanzate in primo grado e reiterate in grado di appello e, quindi, se siano state ritualmente sollevate in sede di legittimità, nè tanto meno di apprezzarne la rilevanza concreta ai fini della decisione.

12. Neppure le censure svolte dalla ricorrente possono essere ricondotte nella categoria del vizio motivazionale di cui all’art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 5, ratione temporis applicabile, in quanto la censura dedotta con il quarto motivo, così come formulata, non individua alcun “fatto decisivo”, già oggetto del contraddittorio processuale, di cui il giudice di merito avrebbe trascurato l’esame, essendosi piuttosto la società contribuente limitata a criticare l’insufficienza della motivazione della decisione impugnata.

Infatti, come ripetutamente affermato da questa Corte (ex multis, Cass., sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass., sez. 5, 23/05/2018, n. 12676), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo applicabile ratione temporis) deve essere dedotto mediante esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c. (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale).

Inoltre, secondo altrettanto consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass., sez. 5, 4/08/2017, n. 19547), la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.

Nella specie, con il mezzo non si individuano specificamente fatti storici decisivi il cui esame da parte della Commissione regionale sarebbe stato insufficiente.

13. Il primo ed il secondo motivo dei ricorsi proposti dai soci, che possono essere trattati congiuntamente, perchè entrambi denunciano la nullità delle sentenze impugnate per difetto assoluto di motivazione, sono inammissibili.

13.1. Con le sentenze n. 186/2/12 e n. 187/2/12 i giudici regionali, dando atto che in pari data avevano rigettato il ricorso in appello proposto dalla società avverso l’atto presupposto da cui era scaturito il maggior reddito imputato a ciascun socio, hanno sostanzialmente adeguato il reddito di partecipazione dei soci a quello accertato in capo alla società, facendo in tal modo applicazione del principio dell’automatica efficacia operante in ordine ai redditi imputabili ai soci di società di persone. Pertanto, l’unica ragione posta a fondamento delle decisioni impugnate è quella dell’automatica efficacia dei maggiori redditi accertati in capo alla società partecipata sulla determinazione dei redditi dei soci, che peraltro, non risulta abbiano opposto motivi personali o diversi da quelli della società.

13.2. Tale ragione costituisce espressione del principio di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5, secondo cui “i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”, che ha ispirato la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 14815 del 4 giugno 2008; il che comporta, diversamente da quanto sostenuto dai soci, che le sentenze impugnate non sono affette da nullità per motivazione apparente, dal momento che il procedimento logico-giuridico adottato dai giudici di merito per pervenire alle conclusioni assunte con tali decisioni non solo è sussistente, ma è anche chiaramente individuabile nell’affermazione delle inevitabili conseguenze, imposte dal legislatore, tratte dal fatto noto costituito dalla statuizione adottata dalla medesima Commissione tributaria sull’accertamento del reddito effettuato, con riguardo al medesimo anno d’imposta, nei confronti della società partecipata, ossia da un fatto produttivo di effetti in sè, che costituisce presupposto per la imputabilità ai soci del reddito della società (Cass., sez. 5, 29/10/2010, n. 22122).

13.3. Parimenti irrilevante risulta qualsiasi precisazione circa il contenuto e la motivazione della sentenza adottata nei confronti della società partecipata e non risulta pertinente l’osservazione dei soci ricorrenti secondo cui il rinvio alle argomentazioni di altra decisione (cd. motivazione per relationem) non sarebbe ammissibile, stante l’implicito giudizio di superfluità del loro esame per coerenza logica con l’applicazione della norma dettata dal richiamato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 5 e con l’applicazione del principio di economia processuale, considerato che, per quanto emerge dalle stesse sentenze impugnate, i soci hanno svolto difese identiche a quelle della società, sulle quali i giudici regionali si sono pronunciati con la sentenza d’appello pronunciata nei confronti della società partecipata alla quale essi fanno espresso rinvio, in ragione della stretta connessione ed indissolubile interdipendenza tra la decisione assunta sul ricorso della società e quella invocata dal socio della stessa.

Sul punto, peraltro, soccorre il principio affermato da questa Corte (in fattispecie relativa a cause concernenti l’una l’accertamento del reddito di una società e l’altra l’accertamento del reddito di partecipazione del socio) secondo cui “In tema di contenzioso tributario, qualora il medesimo organo giudicante si trovi a pronunciare contestualmente più decisioni relative a questioni legate tra loro da un vincolo di conseguenzialità necessaria, è consentito che la motivazione di una decisione consista nel rinvio alle argomentazioni svolte nell’altra, poichè in tal caso non si ha tanto la motivazione di una sentenza per relationem, ma piuttosto la constatazione che la decisione in un certo senso di una delle controversie comporta necessariamente l’identica conclusione per l’altra (Cass., sez. 5, 4/02/2003, n. 1634; Cass., sez. 5, 15/12/2003, n. 19155)

14. Non si sottrae alla declaratoria di inammissibilità il terzo motivo dei ricorsi proposti dai soci, con il quale si censurano le sentenze sotto il profilo motivazionale, valendo al riguardo le considerazioni già svolte al p. 12.) con riferimento al quarto motivo del ricorso della società.

15. In conclusione, i ricorsi proposti dalla società e dai soci vanno dichiarati inammissibili, con conseguente condanna delle parti ricorrenti al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese dei giudizi di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi proposti dalla società e dai soci.

Condanna la società ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Condanna D.C.N. al rimborso in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Condanna D.C. Angelina al rimborso in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2021

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