Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18171 del 16/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 16/09/2016, (ud. 15/03/2016, dep. 16/09/2016), n.18171

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28255/2013 proposto da:

CAMERA di COMMERCIO, INDUSTRIA, ARTIGIANATO E AGRICOLTURA di TORINO

(OMISSIS), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DEL VIMINALE 43, presso lo studio

dell’avvocato FABIO LORENZONI, che la rappresenta e difende giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Z.J.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3363/2013 del TRIBUNALE di TORINO del

13/05/2013, depositata il 17/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/03/2016 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

Fatto

CONSIDERATO IN FATTO

Con ordinanza ingiunzione n. 25314 del 18 maggio 2011, la CAMERA DI COMMERCIO di Torino contestava a Z.J. l’inadempimento degli obblighi informativi imposti dal D.Lgs. 206 del 2005, artt. 6 segg., (c.d. Codice del Consumo), in particolare l’omessa indicazione dell’importatore e dei materiali impiegati per la realizzazione di alcune “parrucche fermacapelli”.

Con ricorso del 16 giugno 2011, Z.J. proponeva opposizione dinanzi al Giudice di Pace di Torino, il quale, con ordinanza del 14 ottobre 2011, nella resistenza della controparte, convalidava il provvedimento della CCIAA. Avverso tale decisione lo Z. esperiva gravame dinanzi al Tribunale di TORINO, il quale, nella resistenza della controparte, con sentenza n. 3363 del 2013, depositata il 17 maggio 2013 e non notificata, accoglieva le domande attoree, annullando l’ordinanza ingiunzione per carenza dell’elemento oggettivo e soggettivo dell’illecito.

Con ricorso dell’11 dicembre 2013, la CAMERA DI COMMERCIO di Torino ha domandato la cassazione della sentenza d’appello adducendo tre motivi.

Con il primo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 11 e 12.

Con il secondo motivo ha dedotto la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3.

Con l’ultimo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 6, lett. b), c) ed e).

Z.J. non ha svolto difese nella presente fase di legittimità.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., proponendo l’accoglimento del ricorso.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta: “La ricorrente impugna la sentenza del giudice de quo, ritenendo sussistente tanto l’elemento soggettivo quanto l’elemento oggettivo dell’illecito ex art. 12 Cod. cons., relativo alla violazione degli obblighi informativi prescritti dagli artt. 6 segg. a tutela della libertà di autodeterminazione del consumatore e del buon andamento del mercato europeo.

In particolare, con il primo motivo, afferma che la normativa consumeristica, in virtù della ratio protettiva che la contraddistingue, debba essere interpretata nel senso che anche il distributore, quale protagonista finale della filiera produttiva, destinato a relazionarsi direttamente con il consumatore, debba garantire che la confezione, l’etichetta o l’ulteriore documentazione illustrativa allegata alla merce, riportino le informazioni prescritte dalla legge, non potendosi ritenere circostanza esimente l’aver acquistato i prodotti contestati presso rivenditori o grossisti autorizzati.

Tale censura appare suscettibile di accoglimento, in quanto un’interpretazione sistematica della normativa in materia di sicurezza ed etichettatura delle merci, pur nel silenzio del Codice del consumo, permette di delimitare con precisione la portata soggettiva degli obblighi di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 6 segg., estendendola anche al distributore dettagliante.

Difatti, nel complesso settore in discussione, caratterizzato dal susseguirsi di normative gratificate e da più recenti tentativi di omogeneizzazione, gli artt. 5 segg. del Codice del consumo, come evidenziato dal successivo art. 8, sono destinati a svolgere il ruolo di fonte sussidiaria e residuale, operando nei confronti di prodotti e questioni non puntualmente disciplinati dalle pur capillari leggi speciali, concernenti singole categorie merceologiche. Tale carattere residuale e sussidiario rispecchia la stessa ispirazione codicistica del D.Lgs. n. 206 del 2005, le cui regole rivelano altrettanti principi generali, idonei a colmare i vuoti normativi eventualmente emersi al momento dell’applicazione della legislazione speciale. Allo stesso tempo, tuttavia, è opportuno evidenziare che la cronistoria del diritto consumeristico, sorto nel segno della frammentazione settoriale, e solo in seguito colpito da interventi d’ispirazione unitaria, rivela il carattere non solo univoco, bensì biunivoco, dei rapporti ermeneutici intercorrenti tra la normativa generale e quella speciale, suggerendo all’interprete di cogliere i tratti di omogeneità delle leggi di settore, per poterne trarre principi utili al fine di affrontare anche i numerosi silenzi del legislatore codicistico.

A tal fine è irrinunciabile un’analisi delle fonti europee e nazionali in materia di alimenti (da ultimo il Reg. n. 1169 del 2011), di prodotti tessili (Reg. n. 1007 del 2011), di calzature (Dir n. 94/1110E, recepita dal D.M. 11 aprile 1996), di cosmetici (Reg. n. 1223 del 2009) e di giocattoli (D.Lgs. n. 313 del 1991), le quali possono essere suddivise in due distinti gruppi, ciascuno connotato da un diverso grado di esplicitazione.

Il primo insieme comprende le fonti sull’etichettatura e marcatura dei prodotti tessili, dei cosmetici e dei giocattoli, le quali considerano esplicitamente gli obblighi e le responsabilità del distributore (inteso come colui che, immettendo le merci sul mercato, è destinato a entrare in diretto contatto con il consumatore), esponendolo a possibili sanzioni, oltre che all’eventuale ritiro delle merci.

Il secondo gruppo comprende invece le ulteriori norme in tema di alimenti e di calzature, le quali, pur non occupandosi specificamente del distributore, esplicitano la propria ratio con riferimento all’esigenza di tutelare i consumatori e il buon andamento del mercato, attribuendo all’interprete gli strumenti necessari per procedere a un’interpretazione costituzionalmente orientata e teleologica della normativa, che tenga conto del ruolo svolto dal dettagliante nell’ambito della filiera produttiva, delimitandone gli opportuni profili di responsabilità. In tal senso, si è espressa anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale, con sentenza del 23 novembre 2006, pronunciata nella causa C-315/05, ha affermato che un’interpretazione letterale, sistematica e teleologica della Dir. 2000/13/CE, relativa alle informazioni sugli alimenti, impone di riconoscere la conformità al diritto europeo di una disciplina nazionale interpretata nel senso della responsabilità del distributore per aver posto in vendita una bevanda alcoolica prodotta in altro Paese membro, di volume alcolumetrico inferiore rispetto a quello riportato in etichetta.

Pertanto, l’interpretazione della normativa speciale rivela, quando implicitamente quando esplicitamente, l’esistenza di un generale principio di responsabilità del distributore, espressione di una ratio protettiva volta a garantire la piena autodeterminazione del consumatore e la piena concorrenzialità del mercato interno.

Un medesimo approccio ermeneutico, attento allo spirito della norma e al contesto legislativo in cui essa è inserita, si impone anche al giudice che sia chiamato a valutare la responsabilità del distributore di prodotti non disciplinati da norme speciali, e dunque rientranti nell’ambito applicativo della disciplina generale di cui del D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 5 e segg..

In particolare, gli artt. 11 e 12 del Codice del consumo, prevedendo una sanzione amministrativa in capo a quanti, genericamente, si dedichino al “commercio” di prodotti che non riportino, in modo visibile e leggibile, le indicazioni di cui all’art. 6, si prestano a essere interpretati sistematicamente alla luce del combinato disposto degli artt. 5, 7 e 13 del medesimo Codice, i quali non solo rivelano la ratio protettiva della norma, ma forniscono anche indizi ermeneutici bastevoli a far ritenere che il legislatore, nell’adoperare il termine “commercio” (art. 11), abbia voluto far riferimento al rapporto intercorrente tra dettagliante e consumatore, essendo questa la soluzione più conforme allo spirito e allo scopo della norma.

Ne deriva che anche nel caso di specie, pur mancando l’esplicita previsione legislativa della responsabilità del distributore, quest’ultimo debba ritenersi comunque responsabile per aver omesso le indicazioni di cui all’art. 6, lett. b), c) ed e), dato che egli non svolge un ruolo meramente “passivo” nella commercializzazione del prodotto, ma anzi opera nella fase in cui più forte è l’esigenza di tutelare la libera autodeterminazione del consumatore, garantendo a quest’ultimo la più completa, veritiera e trasparente informazione.

La rilevata fondatezza della censura appena esposta suggerisce la prospettiva da adottare nello scrutinio del secondo mezzo di gravame, anch’esso suscettibile di accoglimento, in quanto incentrato sulla sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito ex art. 12 cod. cons., escluso invece dal giudice d’appello sul presupposto che il distributore avrebbe fatto affidamento sulla regolarità dei prodotti acquistati, in conformità alla legge, da un grossista autorizzato.

Difatti, riconosciuto in via ermeneutica l’obbligo del distributore di non immettere sul mercato prodotti privi delle informazioni prescritte, l’eventuale omissione dei controlli necessari, giustificata attraverso il riferimento alla buona fede dell’obbligato, perfeziona un errore di diritto, da valutarsi in base al parametro dell’inevitabilità dell’errore, come sostenuto, in primis, dal Giudice costituzionale (sent. n. 364 del 1988).

Sul punto, è importante ribadire anche l’orientamento consolidato di questa Corte, la quale ha contribuito a specificare ulteriormente le coordinate del Giudice delle Leggi, evidenziando che per integrare l’elemento soggettivo delle sanzioni amministrative, assimilabili in parte qua alle contravvenzioni penali, è sufficiente la mera colpa dell’agente, la quale non può essere esclusa dal solo errore sull’illiceità della condotta, genericamente celato sotto il velo della “buona fede”, salvo che quest’ultimo risulti essere cagionato da circostanze esterne non imputabili a titolo di negligenza (così, Cass., sez L, n. 16320/2010; sez. 1, nn. 10477/2006 e 11253/2004). Tale giudizio di inevitabilità, ovviamente, non può prescindere da un attento apprezzamento delle competenze e della professionalità dell’agente, dovendosi valutare anche gli obblighi di conoscenza della legge e i doveri d’informazione gravanti sullo stesso, influendo questi ultimi sulla definizione dei livelli di diligenza domandati al professionista (in tal senso, Cass., sez. 62, n. 18471/2014, sez. 2, n. 10621/2010).

Pertanto, in base ai suddetti parametri, appare opportuno disporre l’accoglimento del motivo in discussione, potendosi rilevare il carattere colpevole dell’omissione del distributore, il quale è incorso in errore di diritto del tutto evitabile, soprattutto considerata la semplicità degli adempimenti imposti dalla legge, i quali richiedono una conoscenza minima delle normative nazionali ed europee, indispensabile per lo svolgimento dell’attività professionale del dettagliante.

L’ultima censura articolata dalla ricorrente, relativa alla corretta interpretazione dell’art. 6, lett. b), c) ed e), appare anch’essa suscettibile di accoglimento.

Relativamente alle lettere b) e c) della norma, il giudice d’appello esclude che esse prescrivano l’indicazione dell’importatore laddove l’etichetta faccia menzione del paese d’origine del prodotto. In realtà, il combinato disposto delle due lettere si presta a essere interpretato in conformità alla ratio protettiva della norma, il cui fine ultimo è quello di consentire al consumatore l’individuazione dei destinatari di eventuali ricorsi, quali il produttore residente in un Paese membro o l’importatore di meni prodotte al di fuori dei confini dell’Unione.

Ne deriva, pertanto, che l’indicazione del paese di origine configura un’informazione aggiuntiva, e non sostitutiva, rispetto a quella relativa all’importatore, la cui indicazione resta necessaria ogniqualvolta il bene sia stato prodotto in un paese extraeuropeo. In tal caso, infatti, l’indicazione dell’importatore è uno strumento di garanzia fondamentale per il consumatore, il quale non può certo far affidamento sulla possibilità di far valere la responsabilità del produttore extracomunitario, di difficile reperibilità e soggetto alle regole di un diverso ordinamento.

Infine, relativamente alla lettera e) dell’art. 6, è opportuno rilevare che le stesse a affermazioni del giudice del merito rivelano l’omissione delle informazioni minime prescritte dalla norma, la cui finalità è quella di garantire la piena e libera autodeterminazione del consumatore, il quale deve essere posto in condizioni tali da poter operare razionalmente sul mercato, perchè provvisto delle informazioni necessarie al fine di orientare consapevolmente la propria condotta economica. Scopo della norma è dunque quello di rendere edotto il consumatore delle caratteristiche e della qualità dei beni cui egli è interessato, valutando non solo l’idoneità degli stessi ai fini cui saranno destinati, ma anche l’eventuale impatto che questi potrebbero avere sulla sua salute, soprattutto quando, come nel caso concreto, il prodotto è destinato, secondo il suo uso ordinario, ad entrare in contatto con la pelle e a permanervi a lungo, creando l’occasione di possibili reazioni allergiche.

Ciò motivato, il relatore ritiene opportuno procedere in camera di consiglio ai sensi del combinato disposto degli artt. 375 e 380 bis, per poter ivi dichiarare la manifesta fondatezza del ricorso esaminato”.

Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, e alla quale non sono state rivolte critiche di sorta, sono condivisi dal Collegio, ragione per la quale la sentenza impugnata va cassata e sussistendo le condizioni per decidere nel merito, l’opposizione originariamente proposta dallo Z. va rigettata.

Le spese dell’intero giudizio seguono la soccombenza, con esclusione di quelle di primo grado per essersi la Camera di Commercio costituita a mezzo di proprio funzionario.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso;

cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, rigetta l’originaria opposizione;

condanna l’intimato Z. alla rifusione delle spese processuali in favore della ricorrente che liquida per il giudizio di appello in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, e per il giudizio di legittimità in Euro 1.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte di Cassazione, il 15 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2016

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