Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1817 del 28/01/2010

Cassazione civile sez. trib., 28/01/2010, (ud. 19/10/2009, dep. 28/01/2010), n.1817

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERARDI Sergio – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

s.a.s. ZANARDI Pietro & C., con sede in

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma alla Via Confalonieri n. 5 presso

lo studio dell’avv. MANZI LUIGI che la rappresenta e difende, “anche

disgiuntamente all’avv. Paolo CENTORE e all’avv. Emanuele COGLITORE”,

in forza della procura speciale rilasciata in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

(1) il MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del

Ministro pro tempore, e (2) l’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del

Direttore pro tempore, entrambi domiciliati in Roma alla Via dei

Portoghesi n. 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato che li

rappresenta e li difende;

– controricorrenti –

Avverso la sentenza n. 375/14/00 depositata il 21 novembre 2000 dalla

Commissione Tributaria Regionale della Lombardia;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 19 ottobre 2009

dal Cons. Dott. Michele D’ALONZO;

sentite le difese delle parti, perorate dall’avv. Emanuele COGLITORE,

per la ricorrente, e dall’avv. D’ASCIA (dell’Avvocatura Generale

dello Stato), per le amministrazioni pubbliche;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato al MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE e all’AGENZIA delle ENTRATE il 3 gennaio 2002 (depositato il 27 gennaio 2002), la s.a.s. ZANARDI Pietro & C. – premesso che con quattro atti “di rettifica” notificati il 20 ottobre 1997 il competente Ufficio dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), in base, alle risultanze del processo verbale di constatazione redatto in data 3 luglio 1997 dalla Guardia di Finanza, aveva contestato ad essa, per gli anni 1990, 1992, 1993 e 1994 (2) “l’omessa fatturazione di operazioni imponibili” e (2) “l’omessa auto fatturazione di acquisti imponibili” nonchè, per gli ultimi anni, (3) “l’indebita detrazione di imposta relativa a fatture per operazioni inesistenti” e, per il solo 1993, anche (4) “l’annotazione di acquisti effettuati presso operatori intracomunitari in tutto o in parte non fatturati” -, in forza di QUATTRO motivi, chiedeva di cassare “con ogni consequenziale…

statuizione anche in ordine alle spese di ogni grado” e con declaratoria (a) di “illegittimità e/o comunque… nullità integrale della pretesa tributaria” o, “in via subordinata”, (b) di non debenza dell'”imposta e… relative sanzioni sulle operazioni…

in acquisto… in applicazione dello jus superveniens D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 6, comma 8, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3″, la sentenza n. 375/14/00 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (depositata il 21 novembre 2000) che, previa riunione degli stessi, in parziale accoglimento dei suoi appelli avverso le decisioni (195/05/98, 196/05/98, 197/05/98 e 198/05/98) della Commissione Tributaria Provinciale di Pavia – la quale aveva respinto i sui ricorsi -, “ritenuta la continuazione degli illeciti contestati”, aveva rideterminato “le sanzioni in applicazione dei D.Lgs. n. 471 del 1997, e D.Lgs. n. 472 del 1997”.

Nel controricorso notificato il 1 febbraio 2002 (depositato il 15 febbraio 2002) il Ministero e l’Agenzia, con il “favore delle spese”, instavano per il rigetto dell’avversa impugnazione.

Il 12 ottobre 2009 la società depositava memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va disattesa la deduzione – formulata dalla società nelle memorie depositate – di “nullità dell’intero processo” (“con conseguente necessità di rimessione dello stesso in primo grado”), fondata sul “principio” (“così Corte di Cassazione…

19 giugno 2009 n. 14442”) secondo cui “l’unitarietà dell’accertamento, che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone” (“nel caso”, essa società e i suo soci P. e Z.V.) “e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili, devono riguardare inscindibilmente sia la società che tutti i soci” in quanto il principio invocato riguarda (ed è stato pronunciato) in riferimento alle dichiarazioni dei redditi mentre nel caso si verte in ipotesi di rettifica della dichiarazione dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), al cui rapporto sono del tutto estranei i soci anche di una società (come la s.a.s. ZANARDI) di persone.

2. Con la sentenza impugnata la Commissione Tributaria Regionale – ricordato che la contribuente aveva eccepito “la carenza di motivazione degli atti impugnati”, il “consequenziale mancato svolgimento di un adeguato contraddittorio” e “l’infondatezza nel merito delle contestazioni mosse” nonchè contestato “i rilievi degli accertatori” – ha, in parziale riforma della decisione di primo grado (che aveva rigettato i ricorsi riuniti), ritenuto (soltanto) la “continuazione degli illeciti contestati”.

Il giudice di appello ha osservato, “quanto al vizio di motivazione degli atti impugnati”, che:

– gli stessi “sono pienamente motivati e fondati” in quanto “la motivazione per relationem è pienamente valida (Cass., 6 dicembre 1985 n. 6142) è e soddisfa il precetto legislativo imposto dalla norma quando il richiamo sia non univoco e gli atti richiamati siano univoci e non contraddittori e… conoscibili dalla parte interessata”;

– “il richiamo al P.V.C., del 3 luglio 1997, della G. di. F., quale fondamento delle rettifiche non assume un valore di mera formalità, ma ha un valore sostanziale perchè del P.V.C., il contribuente ha avuto piena cognizione, quindi è stato posto in grado tempestivamente di apprestare le proprie difese; per di più il P.V.C., è stato notificato anteriormente agli avvisi di rettifica che fanno, al medesimo, riferimento” per cui “la… contribuente ha avuto dettagliata cognizione di tutti i rilievi di natura contabile – fiscale – extracontabile – bancaria, esposti analiticamente dai verificatori e facenti parte integrante degli avvisi impugnati” avendo l’Ufficio (a) “inserito nei propri provvedimenti gli argomenti esposti nel P.V.C., nonchè i dati e gli elementi numerosi ed analitici, tali da dimostrare una serie di movimentazioni in acquisto ed in vendita, avverso i quali la… contribuente non ha prodotto alcuna specifica giustificazione” e (b) “anche elaborato i dati e gli elementi stessi, offrendo alla controparte le indicazioni precise e circostanziate degli atti posti a fondamento delle pretese fiscali, onde renderne tempestiva conoscenza e poterle confutare” (“l’Ufficio”, quindi, “ha agito D.P.R. n. 638 del 1972, ex art. 5, comma 5, e segg., utilizzando quanto accertato dalla G. di F., portando ciò a conoscenza della… contribuente”);

– “il fatto che gli elementi probatori sono stati raccolti presso terzi non rileva, poichè tutto quanto reperito è stato portato a conoscenza della società, mediante numerosi e circostanziati allegati al P.V.C.”.

Il giudice di appello osserva ancora che “a fronte di fatti e circostanze numerosi, dettagliati, analitici, nulla oppone di altrettanto fondato e specifico la parte contribuente, che adduce motivazioni generiche ed improbate”: “quindi gli atti impugnati non sono per nulla induttivi, bensì provati con riferimento non solo a fatti e circostanze… ma anche ai numerosissimi dati contabili – fiscali menzionati nel PVC ed allegati allo stesso”.

“Quanto all’utilizzabilità di situazioni e/o informazioni assunte aliunde”, poi, la Commissione Tributaria Regionale “osserva”:

– “in sede di verifica dei movimenti rilevati dalla G. di F., sui conti correnti bancari dei soci e delle persone aventi con essi rapporti di parentela, non sono stati forniti chiarimenti validi e soddisfacenti, con supporti documentali adeguati, atti a giustificare le generiche motivazioni esposte dalla… contribuente, prive di prova anche nella presente sede”;

– “anche la documentazione extracontabile reperita dalla G. di F., con annotazioni di incassi, operazioni di compravendita, transazioni commerciali non è giustificata da documentazione adeguata da parte degli interessati e collegati alla società da strettissimi rapporti societari. I conti correnti analizzati dalla G. di F. risultano intestati ala società, ai singoli soci ed a soggetti strettamente legati da rapporti non solo di parentela ma bancari, con delega ad operare sui medesimi conti, mostrano movimentazioni prive di riscontro con le annotazioni contabili della società e di adeguate giustificazioni e motivazioni”;

– “risulta cartolarmente che, a fronte di una adeguata organizzazione societaria, nonchè a fronte di documentazione ufficiale, sussiste una contabilità accurata extracontabile, in cui risultano clienti, ordinazioni, movimentazioni di capi di bestiame, incassi e quant’altro concerne una vera e propria attività commerciale extracontabile”;

– “nessuna giustificazione viene fornita circa i rilievi dei primi giudici, relativamente a rapporti elusivi intrattenuti con ditte varie (Sanzogno, Bevilacqua, La Cassinese Carni, Gatti Alberto, la Sarniale Carni, Agrivit), di cui vi sono numerose tracce e veri e propri riscontri nella contabilità, definita in “nero”, cioè extra contabilmente”.

“Quanto alle penalità”, infine, il giudice di appello ha statuito che “le sanzioni vanno rideterminate… in applicazione dei disposti di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, e D.Lgs. n. 472 del 1997”, perchè “di fatto sussiste la continuazione degli illeciti contestati”.

3. La società investe tale decisione con quattro motivi.

A. Con il primo, la ricorrente denunzia, “in riferimento al vizio di motivazione degli atti impugnati”, “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 2”, nonchè “motivazione contraddittoria e/o insufficiente” sostenendo, in primo luogo, l'”insufficienza del richiamo al contenuto del PVC in riferimento alla motivazione dell’atto di accertamento”; secondo la società, infatti, “il semplice riferimento al processo verbale di contestazione, quale motivazione degli atti di accertamento, è stato riconosciuto” (“ex multis…, Cass., 1^, 6 dicembre 1985 n. 6142; …

26 marzo 1997 n. 9529”) “insufficiente ad assurgere a motivazione nell’ipotesi in cui questo sia assunto dall’Ufficio in modo del tutto acritico, cioè solo trasponendo gli elementi ed i dati che questo contiene” per cui “la motivazione per relationem è legittima se il contenuto del processo verbale è sufficiente ad individuare l’an (sotto il duplice profilo della violazione contestata e dell’elemento probatorio della pretesa tributaria) oltre che il quantum”; nel caso, invece, “l’Ufficio non ha aggiunto alcun elemento di sostegno della pretesa, limitandosi a far proprie le indicazioni” (“immotivate, lacunose e contraddittorie” avendo la Guardia di Finanza “desueto a priori la fittizi età delle relative operazioni” dalla “mera circostanza che alcuni clienti e fornitori non hanno restituito il questionario inviato”) “esistenti nel processo verbale” di tal che è “del tutto assente la benchè minima prova della pretesa infrazione”, non potendo “essere ritenuta sufficiente la semplice circostanza della fatturazione eseguita nei confronti di società asseritamente ritenute cartiere, per concludere sull’inesistenza delle operazioni effettuate”.

In secondo luogo, la ricorrente, affermata “l’assoluta carenza di elementi probatori rinvenienti dal PV di constatazione”, sostiene che “l’Ufficio… avrebbe dovuto esercitare una… minima istruttoria sulle risultanze” di detto PV “al fine di acquisire ulteriori elementi…a sostegno della pretesa” nei suoi confronti, “tali” da garantire ad essa “la difesa piena ed efficace” (e, pertanto, essendo “tale attività…, di fatto, mancata”, “il richiamo per relationem al suddetto PVC non può essere considerato legittimo… ai fini della validità degli atti impositivi”) ed aggiunge che “il processo verbale di constatazione non è redatto con i requisiti indispensabili della chiarezza, dello scrupolo e della completezza, necessari per consentire” ad essa di “conoscere con precisione le violazioni contestate e i relativi mezzi di prova assunti dall’Amministrazione Finanziaria”.

Questa, secondo la società – che, per le “diverse fasi di imposizione”, richiama la “sentenza n. 3988 del 3 aprile 2000” di questa Corte -, “ha l’obbligo di avviare una nuova fase istruttoria a fronte delle contestazioni mosse dai verificatori nel PV di constatazione, atteso che esclusivamente ad essa compete l’attività” (“indeclinabile ed in delegabile”) di “accertamento” “funzione che differisce dai poteri di verifica ed ispezione attribuiti…

indiscriminatamente alla polizia tributaria ed agli uffici finanziari”); nel caso, “le conclusioni riportate nell’atto impositivo risultano solo in apparenza adottate dall’Ufficio del potere accertativo” perchè “in realtà sono espresse da organi investigativi sprovvisti della potestà impositivi”: “l’omissione di tale attività istruttoria da parte dell’Ufficio”, pertanto, “inficia irrimediabilmente la legittimità degli atti impositivi de quo”.

La ricorrente, ancora, denunzia “contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione finanziaria in relazione alla medesima controversia” esponendo che “le controversie relative ai successivi anni di imposta 1995 e 1996” sono state decise con sentenze (“sulle quali non si è ancora formato il giudicato”) depositate dalla Commissione Tributaria Provinciale il 22 gennaio 2001, “aventi ad oggetto la medesima controversia sorta ai fini dell’IVA”, nelle quali quei giudici “hanno valutato il modus procedendi dell’Ufficio” (“lo stesso usato nell’odierna controversia”) “dichiarandone l’illegittimità” avendo riconosciuto che “la motivazione per relationem non può consistere in un mero ed acritico riferimento ai fatti ed alle circostanze riferite dalla Guardia di Finanza” e che “comunque l’onere della prova dei presupposti della pretesa erariale incombe all’Ufficio stesso”.

Per la società, infine, l'”assunto dei giudici di appello” secondo il quale essa ha avuto “avuto dettagliata cognizione di tutti i rilievi di natura contabile – fiscale – extracontabile – bancaria, esposti analiticamente dai verificatori”, è “del tutto erroneo” perchè il processo verbale di constatazione (cui rinvia l’Ufficio), “per le modalità ed i tempi con i quali viene stilato”, non è redatto nel rispetto dei “principi di chiarezza e completezza” di cui alla L. n. 212 del 2000, ma deve essere “integrato”, “a beneficio dei diritto di difesa del contribuente”, “da un successivo atto amministrativo che sia il risultato di un’attività valutativa, intellettiva e critica operata dall’Ufficio”.

B. Nella seconda doglianza la società – assunto che, in base ad una lettura organica e sistematica delle relative disposizioni, “la rettifica parziale non può non rispondere ai requisiti previsti per la rettifica normale” (per cui “la potestà rettificativa parziale ha accesso se e nella misura in cui le informazioni desunte dalle segnalazioni siano relative ad elementi certi di infrazione”) – denunzia, “in relazione alla illegittimità degli strumenti accertativi utilizzati” (“rappresentati dalla rettifica parziale D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54, comma 5”), “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51, comma 2, e art. 54, comma 5, e art. 2697 c.c.”, affermando che l'”assunto” del giudice di appello secondo cui “gli atti impugnati non sono per nulla induttivi, bensì provati con riferimento non solo a fatti e circostanze… ma anche ai numerosissimi dati contabili – fiscali menzionati nel PVC ed allegati allo stesso” è “del tutto erroneo” perchè “nel caso” (“come ampiamente dedotto… nei giudizi nanti le corti territoriali”) i “verificatori” e l’Ufficio non hanno ottemperato “all’obbligo di rigorosa indagine e di ricerca degli elementi posti a base della propria pretesa” posto “in capo all’Amministrazione” dalla norma regolante “l’attività di accertamento… normale”: per la ricorrente, infatti, “i rilievi contenuti negli atti impositivi… ed i riferimenti in essi esistenti ad elementi assunti aliunde” (“documenti extracontabili rinvenuti presso l’abitazione del socio”; “documentazioni bancarie relative a conti di altre persone”), quand’anche “idonei (e tali non sono) in linea astratta a provare l’effettiva fittizietà delle operazioni dedotte”, “da soli non potrebbero, comunque, sostenere la rettifica operata D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54, comma 2, in riferimento all’art. 2129 c.c.”, (“norma che richiede l’esistenza di elementi certi e diretti e non presuntivi”) perchè “il presupposto indefettibile dell’utilizzo di presunzioni gravi, precise e concordanti consiste nell’esistenza di un fatto noto dal quale ha origine il procedimento logico presuntivo”, in difetto del quale “non è concesso utilizzare surrettiziamente un fatto presunto e derivare da questa un’altra presunzione (… divieto della c.d. praesumptio de praesumpto)”; “nel caso”, secondo la società, “le contestazioni contenute nel PV” (“che rimandano a situazioni e informazioni assunte aliunde,… in una sfera giuridica estranea” alla sua) “non possono assurgere a elemento di presunzione” (“in quanto non sono nè gravi, cioè capaci di resistere a possibili obiezioni, nè precise, cioè specifiche e puntuali, nè… concordanti, cioè non configgenti tra loro”) ma hanno “natura di semplici indizi”.

La contribuente, di poi, sostiene che la “nuova formulazione” del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, (che “consente all’amministrazione finanziaria di richiedere agli istituti bancari informazioni sui conti intrattenuti con i clienti e di utilizzare i dati acquisiti nello svolgimento dell’attività accertativa” e che “stabilisce una presunzione legale iuris tantum, secondo la quale ad ogni movimentazione bancaria… corrisponderebbe un’operazione economica rilevante dal punto di vista fiscale, qualora il…

contribuente non riesca a dimostrare il contrario”), essendo stata introdotta dalla L. n. 413 del 1991, art. 18, ha “carattere innovativo” e, perciò, non si applica prima della sua entrata in vigore, quindi agli “accertamenti concernenti annualità di imposta anteriori al 1992”: “nel caso”, invece, l’Ufficio ha utilizzato detta “presunzione” anche “in relazione alla pretesa impositiva correlata all’anno d’imposta 1990”.

La ricorrente – affermato che “l’inversione dell’onere della prova…

ha accesso unicamente” quando “concorrano le seguenti condizioni”;

(a) “i rapporti bancari… debbono essere intrattenuti esclusivamente dal contribuente verificato”; (b) “effettiva instaurazione di contraddittorio con il contribuente titolare dei conti correnti verificati, sia al momento della verifica, sia, dopo, da parte dell’Ufficio impositore” – sostiene, ancora, che:

– “la presunzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, non può essere applicata se non ai rapporti bancari del soggetto inquisito” per cui “le movimentazioni contestate nel caso”, siccome “riguardanti rapporti bancari intrattenuti da soggetti terzi rispetto alla società” (“i soci ed i loro familiari”), “non possono essere utilizzati ai fini della rettifica” mancando ogni “elemento giustificativo di raccordo che consenta di riportare nella sfera di essa società le risultanze così desunte”;

– “nel richiedere i chiarimenti ai soggetti sopra indicati, la Polizia Tributaria non ha rispettato quanto disposto dall’art. 350 c.p.p., comma 2, …, e comma 3,” perchè “nel caso…, le sommarie informazioni sono state assunte senza la necessaria assistenza del difensore” (“di fiducia o d’ufficio”) di tal che “di tali notizie ed indicazioni acquisite senza la presenza del difensore, è vietata ogni documentazione e utilizzazione (art. 350 c.p.p., comma 6)”.

La società – assunto essere “riconosciuta da autorevole dottrina” la “vigenza del principio del contraddittorio nel procedimento tributario” -, infine deduce che il “giudici del gravame”, affermando la “conoscibilità” delle stesse da parte sua, hanno “ignorato” il “motivo di censura” con il quale essa, “in appello”, aveva eccepito l'”inutilizzabilità” delle “informazioni” “(presuntivamente)” “acquisite in sede di verifica presso terzi, cioè presso altre società” (“dei cui risultati” essa aveva assunto “notizia soltanto attraverso i sommar ed incompleti richiami eseguiti… dalla Guardia di Finanza nel processo verbale di constatazione”) essendo stata “posta in discussione” non “tanto la semplice conoscenza delle contestazioni mosse alle altre presunte società coinvolte” ma “il mancato contraddittorio su fatti che riguardano” essa ricorrente, “mancato contraddittorio su fatti solo enunciati” che “inficia alla radice la liceità della pretesa impositiva”.

C. Nei terzo motivo di ricorso la contribuente denunzia “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19”, e “omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia” affermando che “i giudici di appello hanno omesso di esaminare” il punto relativo “alla indebita detrazione di imposta conseguente alla ritenuta fittizietà delle operazioni di acquisto effettuate… per gli anni di imposta 1992, 1993 e 1994”.

La ricorrente – affermato che “la pretesa esistenza di operazioni di acquisto e vendita non contabilizzate” è stata “meramente desunta (o meglio ipotizzata) sulla scorta degli elementi assunti presso l’abitazione” del suo socio ” Z.P.” – sostiene, innanzi tutto, la “effettività degli acquisti”: per la società, “le operazioni contestate non sono assolutamente da considerarsi fattizie” in quanto:

(a) sono state “soddisfatte” tutte le “condizioni richieste dalla legge” (“le prestazioni esistono in quanto sono state interamente effettuate e pagate”; “ogni operazione è accompagnata dalla relativa bolla, che prova la consegna dei beni descritti in fattura”;

“l’imposta relativa a dette operazioni è stata assolta”; “le operazioni effettuate… sono inerenti all’attività di impresa esercitata”; “i controlli generali sulla sua contabilità non hanno rinvenuto alcun elemento riconducibile alla pretesa fittizi età delle operazioni de quibus”) e (b) “la presunta fittizietà… è stata smentita anche dall’indagine approfondita della documentazione aziendale compiuta dal perito” da essa “incaricato” nella “perizia tecnico-contabile prodotta nel giudizio di appello”.

Secondo la società, inoltre, “il comportamento non colposo nè doloso rileva non solo ai fini sanzionatori, penali e amministrativi, ma anche agli effetti sostanziali del tributo” per cui “sia l’Ufficio che le Corti territoriali”, “conformemente a quanto deciso” da questa Corte (sentenza n. 1348 del 19 febbraio 1999, “ove è posto come limite al diritto di detrazione dell’imposta l’esercizio fraudolento o quanto meno illegittimo del diritto di detrazione stesso”), “avrebbero dovuto svolgere un’indagine sull’elemento psicologico” (“indispensabile ai fini del riconoscimento o del disconoscimento del diritto di detrazione”), all’esito della quale “non avrebbero potuto non rilevare in capo ad essa… la carenza dell’elemento soggettivo dell’infrazione” (“con conseguente riconoscimento della legittimità della detrazione di imposta operata”), “carenza” dimostrata, “per tabulas”: (a) dalla “pacifica esistenza degli acquisti effettuati”;

(b) dalla “imponibilità, comunque, applicabile alle cessioni effettuate” in suo favore; (c) dall'”obbligo” (“D.P.R. n. 633 del 1972, ex art, 21, comma 1”) “per il prestatore del versamento dell’imposta, con il corrispondente e correlato diritto di detrazione” (“ex art. 19” del medesimo D.P.R.) “previsto a favore del committente”.

A conferma del corrispondente suo “diritto” la ricorrente – che richiama “un recente intervento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (sentenza del 19 settembre 2000, causa C-454/98), che ribadisce il principio generale della legittimità della detrazione a favore del cessionario a fronte e in dipendenza del pagamento dell’imposta da parte del cedente” – osserva che “la detrazione d’imposta da parte del cessionario, che trovi il suo titolo nell’esatto adempimento degli obblighi di fatturazione e di registrazione, è legittima, e resta indipendente dal comportamento dei soggetti coinvolti nella cessione (così Cass. 23 aprile 1993 n. 4767; Cass. 2 settembre 1995 n. 9274)”: secondo la società, poichè “l’obbligazione tributaria conseguente all’effettuazione di una operazione imponibile di cessione di beni sorge unicamente a carico del cedente e non coinvolge il cessionario, il quale resta estraneo al rapporto tra cedente e fisco e non risponde dell’eventuale inadempimento dell’obbligato al pagamento del tributo”, “l’esposizione, nella dichiarazione annuale del cessionario, di una detrazione d’imposta, che trovi titolo nell’esatto adempimento degli obblighi di fatturazione e di registrazione…, deve ritenersi conseguentemente legittima”, nè “dalla soluzione prospettata… può derivare alcun pregiudizio ai diritti dell’erario” avendo questo “il potere” di ottenere la realizzazione coattiva del “suo credito d’imposta nei confronti del cedente” (rendendosi “comunque applicabile il disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, laddove è prevista la debenza in capo a tale soggetto dell’imposta esposta in fattura”).

D. Nel quarto (ultimo) motivo la contribuente – assunto aver l’Ufficio, “richiamato il disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 5”, (“applicabile, secondo la tesi avversa, ratione temporis”), richiesto “conseguentemente il pagamento dell’IVA sull’ammontare imponibile determinato dalle movimentazioni (in uscita) ritenute non giustificate” ed irrogato “la relativa sanzione” – denunzia “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 5, e D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8”, nonchè “omessa motivazione circa un punto decisivo” assumendo che “la pretesa impositiva correlata alla omessa regolarizzazione”, da parte sua, “di presunti acquisti effettuati, la cui fornitura non sarebbe stata assoggettata ad IVA dal… cedente”, è “priva di fondamento giuridico” perchè detta norma del D.P.R. 633 del 1972, (per la quale era previsto, oltre che l’applicazione della sanzione, anche il “recupero dell’imposta in capo al cessionario/committente, renitente all’obbligo di autofatturazione”) è stata abrogata con effetto dal primo aprile 1998 e sostituito dall’indicato art. 6, comma 8, il quale “prevede l’applicazione della sanzione ma non dispone il recupero dell’imposta”.

La società, infine, per l’ipotesi in cui siano disattese le “ragioni di contrasto alla tesi impositiva dedotte retro”, chiede, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, commi 2 e 3, di applicare lo ius superveniens costituito dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, e art. 16, comma 1.

4. Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.

A. L’avviso d’accertamento motivato, quand’anche con riferimento “acritico”, ad atti o verbali formati dalla Guardia di Finanza (come da altri organi deputati alla fase investigativa), invero, non può considerarsi illegittimo in quanto l’obbligo di motivazione deve ritenersi assolto ogni qual volta il contribuente sia stato messo in grado di conoscere l’an e il quantum della maggior pretesa fiscale, a nulla rilevando (Cass., trib., 21 maggio 2001 n. 6888) l’apprezzamento critico dell’ufficio accertatore circa gli atti ed i verbali ai quali esso si è riferito nell’avviso, avendoli comunque fatti propri nel momento in cui ha deciso di rinviare, per i motivi dell’imposizione, al contenuto degli stessi: ricorrendo alla “motivazione per relationem”, infatti, l’Ufficio dimostra univocamente di condividere il complessivo procedimento accertativo degli inquirenti con le relative conclusioni e realizza unicamente una economia di scrittura, la quale, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass., trib.: 8 ottobre 2007 n. 21040; 30 ottobre 2006 n. 23353; 13 ottobre 2006 nn. 22012 e 22013; 11 ottobre 2006 n. 21711, da cui gli excerpta; 7 aprile 2006 nn. 8253 e 8254; 28 novembre 2005 n. 25146;

14 novembre 2003 n. 17243; 26 giugno 2003 n. 10205; 26 febbraio 2001 n. 2780).

Siffatto recepimento, intuitivamente, involge, logicamente, un pregiudiziale, positivo giudizio dell’Ufficio di accertamento della idoneità e della sufficienza degli elementi raccolti dalla Guardia di Finanza e, in ipotesi (che caratterizza la specie) di assoluta carenza di (anche mera allegazione, da parte del contribuente, della necessità e/o opportunità di) acquisizione di ulteriori elementi, esclude in radice (siccome contraria al principio di “buon andamento” della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost.) la sussistenza di qualsivoglia obbligo dell’Ufficio di procedere ad una sostanziale pedissequa ripetizione delle stesse indagini già compiute, senza nessuna concreta (perchè neanche allegata) utilità del contribuente, neppure ai fini dell’esercizio del suo diritto di difesa.

In ordine, poi, alla motivazione e, quindi, alla chiarezza, dell’atto di imposizione fiscale, si deve ribadire che:

(1) la valutazione della sussistenza e della sufficienza della sua motivazione, come di qualunque atto amministrativo, involge l’interpretazione dello stesso in quanto, in considerazione del contenuto complessivo dell’atto e, se rilevante, in base al comportamento tenuto dall’amministrazione, è necessario ricostruire l’intento dell’amministrazione ed il potere che essa ha inteso esercitare: questa interpretazione, come noto (Cass., trib.: 8 ottobre 2007 n. 21040; 1 ottobre 2007 n. 20649; 25 gennaio 2006 nn. 1436 e 1437; 5 dicembre 2005 n. 26389; id., 3^, 2 agosto 2004 n. 14783; id., lav., 16 marzo 2004 n. 5369; id., 1^, 20 settembre 2003 n. 13954; id., lav., 22 agosto 2003 n. 12370; id., 3^, 5 giugno 2001 n. 7584), costituisce un apprezzamento di fatto, di esclusiva competenza del giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per insufficienza o contraddittorietà della motivazione della sentenza, quindi per violazione di quegli stessi canoni ermeneutici (art. 1362 c.c. e ss.) che presiedono alla interpretazione dei contatti, ovverosia per vizi che nel caso non sono stati assolutamente dedotti;

(2) l’apprezzamento del fondamento della censura afferente all’interpretazione dell’atto di imposizione fiscale, proprio perchè pertinente al contenuto di un documento, impone alla parte che in sede di legittimità denunci l’erronea valutazione di quel documento ad opera del giudice di merito – pena l’inammissibilità del motivo di censura – di riprodurre nel ricorso (art. 366 c.p.c.), in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo (Cass.:

trib., 1 ottobre 2007 n. 20649; trib., 1 giugno 2007 n. 12884, tra molte; 3^, 10 agosto 2004 n. 15412), il documento nella sua integrità anche al fine di porre questo giudice di legittimità in condizione di valutare la rilevanza della censura stessa.

La ricorrente non ha ottemperato al detto onere di riproduzione e tale omissione relega le sue critiche (sintetizzabili nell’affermazione secondo cui “l’assunto dei giudici di appello” è “del tutto erroneo”) nel limbo delle pure (peraltro interessate) opinioni, d’altronde (nel caso) del tutto astratte ed incontrollabili non essendo consentito a questa Corte (in rispetto alla sua posizione di terzietà) di esaminare (in inammissibile sostituzione della parte interessata) direttamente ed autonomamente i conferenti atti del giudizio di merito per attingere dagli stessi gli eventuali elementi favorevoli alla doglianza.

Non è, infine, comunque ravvisabile (a prescindere dalla certa totale irrilevanza giuridica della stessa) la denunziata “contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione finanziaria” perchè la sussistenza di un “vizio” siffatto, quando giuridicamente rilevante, può essere riscontrata unicamente raffrontando i comportamenti tenuti e/o i giudizi espressi dalla stessa parte ma mai confrontando (come preteso dalla ricorrente) i comportamenti e/o i giudizi di una parte con quelli dei terzi, ivi compresi quelli del giudice chiamato a valutarli.

B. Anche la complessiva doglianza formulata con il secondo motivo di ricorso è priva di fondamento.

B.1. L’attribuzione all’Ufficio (con il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 5, aggiunto dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 3, nel testo, applicabile alla specie ratione temporis, anteriore alla modifica apportata con la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 406) del potere di “limitarsi ad accertare… l’imposta o la maggiore imposta dovuta o il minor credito spettante” (ovverosia di procedere alla c.d. verifica parziale) nelle ipotesi in cui “dalle segnalazioni effettuate dal Centro informativo delle tasse e delle imposte indirette sugli affari, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di corrispettivi in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni in tutto o in parte non spettanti” – comunque v senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 57, l’ufficio dell’imposta sul valore aggiunto” -, come chiarito da questa Corte (sentenza 5 febbraio 2009 n. 2761), persegue “una doppia finalità” perchè “per un verso serve ad evitare che per effettuare un recupero parziale, l’amministrazione non possa poi procedere ad un accertamento più completo” e, “per altro verso”, “serve ad evitare che gli elementi acquisiti unitariamente vengano poi contestati al contribuente “a singhiozzo”, impedendogli una linea di difesa unitaria e complessiva”.

Sul “versante della tutela del contribuente”, quindi, “l’accertamento parziale è illegittimo quando poi segua un ulteriore accertamento basato su altri elementi acquisiti fin dall’origine e non contestati, si che la difesa del contribuente ne risulti pregiudicata” ; la “conseguenza” del verificarsi di tale ipotesi (“accertamento…

effettuato al di fuori delle ipotesi consentite”), però, è che l'”interesse” del contribuente ” ad eccepire la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 5,” (sempre che una “violazione” del genere ci sia stata) sorge unicamente se e perchè gli è stato notificato un “successivo avviso di accertamento” emesso nonostante l’Ufficio avesse “esaurito il potere di accertamento generale”:

l’eccezione relativa, quindi, non è “mai riferibile all’avviso di accertamento parziale, ma soltanto all’eventuale successivo avviso, notificato sulla base di un potere già consumato”.

Nella specie, però, non è stato nemmeno allegato che dopo l’accertamento oggetto dell’odierno giudizio vi sia stata un ulteriore attività di accertamento.

B.2. Sulla norma dettata dalla L. n. 413 del 1991, art. 18, (che, modificando il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, ha consentito all’Ufficio erariale ed alla Guardia di Finanza di accedere ai “conti intrattenuti” dal contribuente con “aziende e istituti di credito” o con l’allora “amministrazione postale”), poi, va ribadito (Cass., trib.: 13 ottobre 2006 n. 22012; 6 dicembre 2005 n. 26692; 14 ottobre 2005 n. 19947; 13 maggio 2003 nn. 7329 e 7344; 19 luglio 2002 n. 10598; 29 marzo 2002 n. 4601; 20 novembre 2001 n. 14567; 19 settembre 2001 n. 11778; 21 luglio 2001 n. 9611) che l’utilizzazione dei poteri riconosciuti dalla detta norma anche ai fini dell'”accertamento” delle imposte sui i redditi e/o sul valore aggiunto relative ad annualità precedenti la sua entrata in vigore non configura affatto una applicazione retroattiva della disposizione in quanto non determina una “modificazione sostanziale della posizione soggettiva del contribuente” atteso che gli obblighi di questo nei confronti del fisco “restano quelli separatamente contemplati dalle leggi in vigore al tempo della dichiarazione” : il momento dell’accertamento, infatti, per sua natura, non è idoneo a modificare l’obbligazione tributaria nè il contenuto della dichiarazione, il cui parametro di legittimità è costituito dalla sua veridicità, per cui la contestata applicazione incide solo sul controllo di tale dichiarazione, più specificamente sull’acquisizione della prova.

La Corte Costituzionale (sentenza 6 luglio 2000 n. 260), peraltro, dal suo canto, ha espressamente escluso che l’applicazione della norma anche agli accertamenti relativi ad annualità d’imposta anteriori alla sua entrata in vigore violi sia il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (in quanto “norme sostanzialmente analoghe… sono previste ai fini dell’accertamento, nei confronti di tutti i contribuenti”) che il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost., osservando che il contribuente è “tempestivamente informato delle richieste di acquisizione delle copie dei conti” e può “pienamente esercitare, già in sede amministrativa, e quindi in sede giurisdizionale, il suo diritto a fornire documenti, dati, notizie e chiarimenti idonei a dimostrare che le risultanze dei conti non sono in contrasto con le dichiarazioni presentate o che esse non riguardano operazioni imponibili”.

Le disposizioni citate, inoltre (Cass., trib., 13 ottobre 2006 n. 22012, cit.), tendono a fare emergere la capacità contributiva reale del contribuente per cui va escluso qualsiasi loro contrasto con l’art. 53 Cost..

B.3. In ordine all’utilizzabilità dei dati risultanti da “conti correnti” e/o da “depositi” bancari intestati a terzi (nel caso:

socio e familiari) – poichè (Corte Cost., 18 febbraio 1992 n. 51) “le scelte discrezionali del legislatore, ove si orientino a favore della tutela del segreto bancario, non possono spingersi fino al punto di fare di questo ultimo un ostacolo all’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà, primo fra tutti quello di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva (art. 53 Cost.)” -, va, in primo luogo ricordato che l'”omessa annotazione di operazioni imponibili” e/o l'”omessa fatturazione” possono risultare (Cass., trib., 12 gennaio 2009 n. 374, la quale ravvisa l'”ipotesi regolata dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2″), oltre che dalla “contabilità aziendale”, anche (se non soprattutto) dalla “gestione extracontabile confermata dalle risultanze delle indagini bancarie” atteso che per la norma “detta infedeltà, giustificante la rettifica, è accertata anche mediante il controllo di dati e notizie raccolti nei modi previsti dal precedente art. 51 (che annovera, al n. 7, le indagini bancarie), in virtù dei quali dati sia possibile desumere le omissioni e le false o inesatte indicazioni” (“accertabili, peraltro, anche in base a presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti”).

Discende da tanto (excerpta dalla sentenza appena richiamata) che il contribuente “non può fondatamente dolersi del fatto che le indagini bancarie abbiano riguardato conti e depositi intestati a terzi” (come “a familiari… del socio, non potendosi ragionevolmente disconoscere la sussistenza di un identico interesse all’accertamento, in presenza di gravi, precisi e concordanti indizi circa la fittizia intestazione di tali conti, utilizzati al medesimo scopo di evasione fiscale (Cass. nn. 6232/2003, 8683/2002, 8826/2001)”), “dovendo ritenersi consentita simile operazione, ai sensi delle norme richiamate, quando l’ufficio abbia motivo di ritenere, in base agli elementi indiziari raccolti, ritenuti” (come nel caso concreto, nel quale il giudice del merito ha specificamente accertato che i “conti correnti analizzati dalla G. di F. risultano intestati alla società, ai singoli soci ed a soggetti strettamente legati da rapporti non solo di parentela ma bancari, con delega ad operare sui medesimi conti”), “congrui dal giudice tributario di merito, che tali conti e depositi fossero stati utilizzati per occultare operazioni commerciali, ovvero per imbastire una vera e propria gestione extracontabile, a scopo di evasione fiscale (Cass. nn. 27032/2007, 17243/ 2003, 13819/2003, 13391/2003, 4987/2003, 2980/2002, in parte riferibili all’analoga questione in tema d’imposte sui redditi)” (cfr., quanto alla ritenuta legittimità dell’utilizzo dei risultati delle “indagini bancarie estese ai congiunti del contribuente persona fisica ovvero a quelli degli amministratori della società contribuente”: Cass., trito., 7 settembre 2007 n. 18868, che richiama “Cass. 6743/07, 13391/03, 8683/02, 1728/99”, nonchè 31 marzo 2008 n. 8683).

B.4. Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, n. 7, (come il corrispondente numero del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32), nel testo, applicabile alla specie ratione temporis, sostituito dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 18, ed anteriore alle successive modificazioni apportate dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402) consentiva agli (allora operanti) uffici delle imposte sui redditi ovvero del valore aggiunto (IVA) di “richiedere”, “per l’adempimento dei loro compiti”, alle imprese ivi indicate “dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonchè alle garanzie prestate da terzi”. Per il n. 2 delle stesse norme, poi, (a) “dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati… a norma del numero 7)… sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”, e (b) “alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”.

Il potere, riconosciuto da tali disposizioni all’Ufficio, di porre a fondamento di “rettifiche ed accertamenti” i “dati” e gli “elementi attinenti ai rapporti ed atte operazioni acquisiti e rilevati… a norma del numero 7”, invero, si fonda Cass., trib.: 5 febbraio 2009 n. 2752; 7 febbraio 2008 n. 2843; 11 gennaio 2008 n. 430; 30 ottobre 2007 n. 22917 (che ricorda, “ex plurimis, Cass. nn. 3929 del 2002, 18421 e 28324 del 2005, 24995 del 2006,1739 del 2007”) ; 14 maggio 2007 n. 10964 che cita “Cass. 18851/03,6232/03, 8422/02, 10662/01, 9946/00”; 1 aprile 2003 n. 4987 sulla (excerpta dalla più recente) “presunzione” (di fonte legale, ma relativa) di “riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili”, presunzione che “si correla ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità (id quod plerumque accidit) che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse ed i prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività”: tale presunzione, peraltro, opera (Cass., trib., 21 marzo 2008 n. 7766) “con forza tale da vincolare l’ufficio tributario ad assumere per certo che la movimentazione bancaria dei conti correnti intestati… sia… imputabile” a colui che dispone del conto, senza necessità di “procedere all’analisi delle singole operazioni, che, dato il connesso effetto dell’inversione dell’onere della prova, spetta invece al contribuente di effettuare (Corte di cassazione: 24 agosto 2007, n. 18013; 27 luglio 2007, n. 16720; 13 giugno 2007, n. 13819)”.

“In presenza di accertamenti bancari”, quindi (Cass., trib., 28 marzo 2008 n. 8041), incombe “al contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti bancali che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti (Cass. 9573/2007, 1739/07, 28324/07)”.

B.5. La proposizione della questione afferente la pretesa “assunzione” delle “sommarie informazioni” in ordine ai conti correnti bancari dei “soci e loro familiari” senza il rispetto del “disposto dell’art. 350 c.p.p., comma 2” (per il quale “prima di assumere le sommarie informazioni, la polizia giudiziaria invita la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini a nominare un difensore di fiducia e, in difetto, provvede a norma dell’art. 97, comma 3”) si rivela inammissibile perchè, non essendovi traccia della stessa nella sentenza impugnata, deve intendersi sollevata per la prima volta innanzi a questa Corte di legittimità.

La sua prospettazione – tenuto conto del “principio generale” di “sanatoria per il raggiungimento dello scopo di atti invalidi non processuali”, “applicabile per analogia a tutti gli atti amministrativi e, quindi, anche agli atti amministrativi di imposizione tributaria” (Cass., trib., 10 maggio 2005 n. 9697; cfr., altresì, Cass., trib., 10 marzo 2008 n. 6347) -, peraltro, viola palesemente l’art. 366 c.p.c., in quanto – a prescindere dalla valutazione del diverso piano effettuale di incidenza dell’eventuale vizio procedurale di assunzione sull’atto di imposizione tributaria rispetto all’utilizzabilità di quelle stesse “sommarie informazioni” nel processo penale – la stessa non fa riferimento a nessuna concreta situazione fattuale, necessaria per valutare la rilevanza, sull’esito della controversia, della ipotizzata inosservanza di quel disposto:

in particolare, oltre che all’identità delle persone, quanto alle “notizie” e alle “informazioni”, poste a fondamento dell’atto impositivo, che sarebbero state assunte senza la “necessaria assistenza di un difensore”.

B.6. Questa Corte, inoltre (Cass., trib.: 23 giugno 2006 n. 14675, cit.; 2 dicembre 2005 n. 26293; 27 giugno 2005 n. 13808; 17 maggio 2002 n. 1261; 29 marzo 2002 n. 4601; 26 febbraio 2002 n. 2814; 18 gennaio 2002 n. 518, tra le recenti), ha già ripetutamente affermato che la legittimità della utilizzazione, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, dei movimenti dei conti correnti bancari non è condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell’accertamento, atteso che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, invocato dalla contribuente, prevede il contraddittorio come oggetto di una mera facoltà dell’amministrazione tributaria e non già di un obbligo per la stessa: “nessuna norma”, infatti (Cass., trib., 7 settembre 2007 n. 18868, che richiama “Cass. 16597/03, 6335/02, 10278/00, 11094/99”), “sancisce l’obbligo dell’Ufficio della preventiva convocazione del contribuente”.

B.7. L’attribuzione al contribuente delle “movimentazioni” risultanti dai conti correnti (direttamente e/o indirettamente) riconducibili allo stesso contribuente, anche se non intestati (anche esclusivamente) a lui, infine, non integra nessuna (vietata) derivazione di una presunzione da altra presunzione (c.d. praesumptio de praesumpto) perchè il risultato della valutazione degli elementi fattuali offerti dall’Ufficio e ritenuti sufficienti dal giudice del merito per attribuire al contribuente la titolarità di quei conti integra prova piena e non già una (semplice) presunzione di tale titolarità la quale costituisce il fatto noto cui, in una con i dati di quelle “movimentazioni”, il legislatore impone di imputare, sia pure iuris tantum (quindi salvo prova contraria), le movimentazioni attive a ricavi e le passive a spese afferenti tutte all’attività economica soggetta ad imposizione fiscale.

C. Il terzo motivo di ricorso (“violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19”, e “omessa motivazione” sul punto relativo “alla indebita detrazione di imposta conseguente alla ritenuta fittizietà delle operazioni di acquisto effettuate… per gli anni di imposta 1992, 1993 e 1994”) è inammissibile.

C.1. Per “principio consolidato” di questa Corte, invero (Cass., 3^, 25 novembre 2008 n. 28066, tra le recenti), “il ricorso per cassazione” (o, come nel caso, anche un suo motivo) “il quale contenga mere enunciazioni di violazioni di legge o di vizi di motivazione, senza consentire,… nemmeno attraverso una sua lettura globale, di individuare il collegamento di tali enunciazioni con la sentenza impugnata e le argomentazioni che la sostengono, nè quindi di cogliere le ragioni per le quali se ne chieda l’annullamento, non soddisfa i requisiti di contenuto fissati dall’art. 366 c.p.c., n. 4, e pertanto, deve essere dichiarato inammissibile (Cass. 23 marzo 1999 n. 2750 e più di recente Cass. 24 ottobre 2007 n. 22348)”.

Il vizio di “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – consistente (Cass., trib., 10 febbraio 2006 n. 2935; id., trib., 20 gennaio 2006 n. 1127; id., 9 novembre 2005 n. 21767; id., 1^, 11 agosto 2004 n. 15499) nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge -, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità (Cass., 2^, 12 febbraio 2004 n. 2707; id., 2^, 26 gennaio 2004 n. 1317), dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione.

Parimenti, il ricorrente che nel giudizio di legittimità deduca il vizio (denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) di omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie – che sussiste soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento mentre la contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata (Cass., lav., 12 agosto 2004 n. 15693;

id., lav., 9 agosto 2004 n. 15355) – ha l’onere, sempre in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c.)- di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non valutate o mal valutate, nonchè di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse atteso che il mancato esame di una (o più) risultanze processuali può dar luogo al vizio di omessa o insufficiente motivazione unicamente se quelle risultanze processuali non valutate o mal valutate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre sulle quali il convincimento si è formato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (Cass., 2^, 17 febbraio 2004 n. 3004).

C.2. Affermando, nel motivo, che i giudici di appello hanno “omesso di esaminare” lo specifico punto relativo alla “indebita detrazione di imposta conseguente alla ritenuta fittizietà delle operazioni di acquisto effettuate”, invero, la ricorrente riconosce l’insussistenza di entrambe le violazioni (ermeneutiche e motivazionali) addebitate alla sentenza impugnata per la semplice ragione che una motivazione del tutto inesistente non contiene nessun giudizio nè interpretativo delle norme nè ricostruttivo dei fatti rilevanti per detto punto.

Questo, peraltro, siccome afferente alla detraibilità (sostenuta dalla contribuente) dell’imposta sugli acquisti ritenuti fittizi, assume il valore di un vera e propria domanda petitum sostanziale) in quanto teso all’attribuzione del corrispondente bene della vita dato dal credito di imposta portato in detrazione: l’omessa considerazione dello stesso, pertanto, si risolve in una vera e propria omissione di pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., (per il quale ogni giudice è tenuto a pronunciare su tutta la domanda e non oltre la stessa), che importa la nullità della sentenza, denunciabile innanzi a questo giudice di legittimità unicamente come tale, quindi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, e non già (come contestato dalla ricorrente) in base ai nn. 3 e/o 5 della stessa norma.

C.3 Sul tema della detraibilità dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) (che si assume) corrisposta sulle “operazioni di acquisto” ritenute fittizie, posto con il motivo, comunque, va, in primo luogo evidenziata l’assoluta indeterminatezza della prospettazione fattuale non essendo sufficiente, per ritenere la “effettività degli acquisti”, ovviamente, la mera enunciazione della ricorrente fondata su pretesa “indagine approfondita della documentazione aziendale compiuta dal perito” da essa stessa nominato nonchè sull’affermata sussistenza di tutte le “condizioni richieste dalla legge” (“le prestazioni… sono state interamente effettuate e pagate”; “ogni operazione è accompagnata dalla relativa bolla, che prova la consegna dei beni descritti in fattura”; “l’imposta relativa a dette operazioni è stata assolta”; “le operazioni effettuate… sono inerenti all’attività di impresa esercitata”; “i controlli generali sulla sua contabilità non hanno rinvenuto alcun elemento riconducibile alla pretesa fittizi età delle operazioni de quibus”) : come statuito da questa sezione, infatti (Cass., trib., 18 giugno 2008 n. 16492, da cui gli excerpta, nonchè 30 gennaio 2007 n. 1950 e 17 dicembre 2008 n. 294 67), “in tema di IVA, nell’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, il diritto alla detrazione dell’imposta versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente/prestatore, che ha, tuttavia, emesso la fattura, non sorge immancabilmente, per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta ivi formalmente indicata, ma richiede altresì, a dimostrazione dell’effettiva inerenza dell’operazione all’attività istituzionale, dell’impresa, che il committente/cessionario, il quale invochi la detrazione, fornisca, sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione, riscontri precisi, non esaurientisi nella prova dell’avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa nonchè dell’IVA riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto al thema probandum, in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell’IVA e dei relativi, possibili, abusi (Cass. 1950/07)”.

Sempre sul tema, poi, in diritto, va ribadito (Cass., trib.: 16 luglio 2003 n. 11110; 5 giugno 2003 n. 8959; 2 settembre 2002 n. 12756; 26 ottobre 2001 n. 13222; 27 giugno 2001 n. 8786) che la disposizione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, (secondo la quale “è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa…”), “in considerazione del particolare meccanismo che presiede al funzionamento dell’iva” (per il quale un”… infrazione fiscale si configura… per il solo fatto oggettivo che il contribuente, con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia determinato il rischio per l’Amministrazione di non conseguire il pagamento dell’imposta effettivamente dovuta o l’abbia esposta a indebite detrazioni”), “va letta in coerenza con quanto prescritto dagli artt. 17 e 20 della sesta direttiva del Consiglio CEE n. 77/388 e del principio affermato dalla Corte di Giustizia CEE con sentenza 13 dicembre 1989 (c. 342/87) nel senso che il diritto alla detrazione non sorge immancabilmente, per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, che l’imposta sia effettivamente dovuta e, cioè, corrispondente ad operazione effettivamente soggetta all’IVA”.

In ipotesi di divaricazione tra il soggetto che ha emesso la fattura e quello ha ceduto la merce o prestato il servizio, infatti, viene a mancare il requisito della detraibilità dell’imposta per carenza dell'”inerenza all’impresa” (che è onere del contribuente provare:

cfr., Cass. nn. 13205 del 2003, 11109 del 2003 e 15228 del 2001, citt.) dell’operazione fatturata, ovverosia della ricorrenza dell’imprescindibile “nesso funzionale” che deve legare “il costo alla vita dell’impresa”, cioè quel “rapporto tra un costo e lo svolgimento della specifica attività, che costituisce la ragion d’essere stessa dell’impresa”: “in ipotesi di inesistenza soggettiva – nella quale, pur essendo i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa cessionario, risulti che l’emittente della fattura è soggetto diverso dal cedente/prestatore – l’obbligo di corrispondere l’importo corrispondente all’imposta sull’operazione soggettivamente inesistente deriva dal precetto normativo di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, mentre risulta evasa l’imposta dovuta, in base al fisiologico funzionamento del meccanismo IVA, per l’operazione effettivamente realizzata (in tal senso: v.

Cass. 6378/06)”, con la conseguenza che “il costo dell’IVA versata sulla fattura relativa ad operazione soggettivamente inesistente si appalesa quale costo non necessariamente inerente”.

D. La doglianza svolta nella quarta (ed ultima) censura è anche essa inammissibile in forza del “principio consolidato” richiamato nello scrutinio del precedente motivo (innanzi, sub C.1.).

D.1. Sulla questione dell’applicazione del sopravvenuto sistema sanzionatorio assunto più favorevole, invero, la società espone (soltanto):

– “medio tempore, per effetto dello ius superveniens (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, e D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3), essa ricorrente, in grado di appello, ha dedotto l’ulteriore motivo di falsa e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 5, con riferimento alla pretesa debenza dell’imposta sugli acquisti che si assumono eseguiti senza fatturazione da parte del cedente”;

– immediatamente dopo la stessa società scrive: “con sentenze nn. 195/05/98, 196/05/98, 197/05/98 e 198/05/98, emesse il 18 maggio 1998 e depositate il successivo 15 ottobre 1998, la Commissione Tributaria Provinciale di Pavia… rigettava i ricorsi”.

D.2. Nella sentenza impugnata non vi è alcun cenno della sottoposizione di tal questione all’esame del giudice di appello il quale non ha emesso nessuna pronuncia, neppure implicita, sulla stessa: la Commissione Tributaria Regionale, infatti, come riportato, si è limitata a statuire che “le sanzioni vanno rideterminate… in applicazione dei disposti di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, e D.Lgs. n. 472 del 1997”, perchè “di fatto sussiste la continuazione degli illeciti contestati”.

Si può ipotizzare, anche per tale punto, una vera e propria omissione di pronuncia che (giusta le ragioni esposte nel precedente motivo), se effettivamente sussistente, doveva essere denunziata (previa osservanza delle prescrizioni di autosufficienza del ricorso per cassazione) come nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c..

D.3. Il motivo di doglianza, peraltro, si palesa del tutto generico quanto all’aspetto propriamente processuale della prospettazione della domanda che si assume non esaminata dal giudice di appello in quanto la ricorrente non indica quale sia il preciso atto e tempo processuali nei quali la stessa sarebbe stata sottoposta al giudice del merito nè riporta, come necessario, il contenuto testuale della medesima.

Siffatti elementi, nel caso, si rivelano indispensabili perchè la norma della quale la contribuente lamenta la mancata applicazione, essendo entrata in vigore il primo aprile 1998, deve considerarsi sopravvenuta già nel giudizio di primo grado in quanto celebrato il 18 maggio 1998: conseguentemente, dovendo la norma essere invocata in quel giudizio a sollecitazione dei poteri officiosi spettanti soltanto a quel giudice, l’eventuale afferente omessa applicazione dei tal norma da parte della Commissione Tributaria Provinciale doveva essere necessariamente denunziata con l’atto di appello (depositato, nel caso, il 17 dicembre 1999) in quanto la proposizione di uno specifico motivo di gravame costituiva l’unico mezzo per impedire che l’effetto sanzionatorio dell’atto impugnato divenisse altrimenti definitivo (giudicato interno) e per consentire al giudice di appello (una volta verificata la ricorrenza dei presupposti di legge) di ovviare all’omissione di pronuncia in cui era incorso il giudice provinciale.

La rilevata inammissibilità del motivo, intuitivamente (atteso il giudicato interno sul punto formatosi con la sentenza di primo grado), impedisce anche l’esame della richiesta della ricorrente di applicazione del medesimo ius superveniens (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, e art. 16, comma 1, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, commi 2 e 3).

5. Per la sua totale soccombenza la società ricorrente, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., deve essere condannata a rifondere al Ministero ed all’Agenzia le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate (nella unica, complessiva misura indicata in dispositivo) sulla scorta delle conferenti tariffe forensi, in base al valore della controversia e all’attività difensiva espletata dalle parti vittoriose.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al Ministero ed all’Agenzia le spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro. 5.200,00 (cinquemila duecento/00), di cui Euro. 5.000,00 (cinquemila/00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2010

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