Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18156 del 01/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 01/09/2020, (ud. 10/07/2020, dep. 01/09/2020), n.18156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7881 -2019 proposto da:

R.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

ALESSANDRA INNARO;

– ricorrente –

contro

S.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

CONCILIAZIONE 44, presso lo studio dell’avvocato GIULIANO SEGATO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO

BRIZZOLARI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2149/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 10/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE

TEDESCO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Tribunale di Modena e poi la Corte d’appello hanno definito, allo stesso modo, la lite fra gli ex coniugi S.C. e R.S. sulla proprietà comune di strumenti finanziari acquistati in costanza del regime di comunione legale e alienati dal solo R.. E’ stato riconosciuto il diritto della S. di vedersi corrisposta la metà del ricavato della liquidazione operata dal R., il quale aveva sostenuto il carattere personale dell’acquisto, in quanto operato con capitali propri depositati all’estero e rimpatriati grazie al cosiddetto scudo fiscale.

Per la cassazione della sentenza il R. propone ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso la S., con il quale chiede l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

La causa, su conforme proposta del relatore, è stata avviata per la trattazione dinanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte.

La controricorrente ha depositato memoria.

2. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

La S. aveva chiesto, ai sensi dell’art. 184 c.c., la ricostruzione dell’originario stato di fatto della comunione legale e se ciò non fosse stato possibile, la condanna del R. al pagamento dell’equivalente in denaro secondo i valori correnti al momento della ricostituzione. Solo in sede di precisazione delle conclusioni, essendo nel frattempo cessato il regime legale, fu poi richiesta dall’attrice la condanna del coniuge al pagamento diretto della metà del valore dei titoli. I giudici di merito, nonostante la oggettiva diversità di petitum e causa petendi, hanno accolto la nuova domanda, mentre la corretta applicazione delle norme processuali imponeva di definire il giudizio con una sentenza di rigetto della originaria unica domanda, la cui attuazione era divenuta impossibile in conseguenza della cessazione del regime della comunione legale.

Il motivo è infondato.

La S., nell’iniziare il giudizio, aveva chiesto in primo luogo accertarsi l’appartenenza alla comunione legale degli strumenti finanziari liquidati unilateralmente dal R.; aveva chiesto inoltre accertarsi che il medesimo R. aveva compiuto l’atto di disposizione senza il consenso dell’altro coniuge. In base a tale duplice premessa aveva chiesto la ricostituzione della comunione in forma specifica ovvero per equivalente. La domanda si colloca all’evidenza nell’ambito dell’art. 184 c.c..

Il tribunale ha riconosciuto che la ricostituzione della comunione non era possibile, essendo cessato nel frattempo il regime legale (tale cessazione si è verificato in corso di causa per effetto della modifica dell’art. 191 c.c., applicabile anche ai procedimenti pendenti: il punto è incontroverso nella lite); ha accolto quindi la domanda di condanna diretta pro quota formulata dalla S. in sede di precisazione delle conclusioni.

La Corte d’appello di Bologna, investita da apposita ragione di censura da parte del R., il quale aveva eccepito che la richiesta formulate nelle conclusioni costituiva inammissibile mutamento della domanda, ha proposto un ragionamento più semplice. Essa ha negato che vi fosse stato mutamento di domanda, argomentando che la richiesta di condanna pro quota costituiva una specificazione della originaria domanda di ricostituzione della comunione per equivalente.

La ricostruzione dei giudici di merito non può essere condivisa. L’errore commesso, però, non ha comportato alcuna violazione processuale, ma in ipotesi violazione delle norme in materia di comunione legale fra coniugi.

La ricostituzione della comunione legale mediante condanna per equivalente, oggetto della originaria domanda, qualora accolta, avrebbe determinato l’obbligo del coniuge di versare l’intero importo corrispondente all’entità sottratta alla stessa comunione legale. L’importo versato sarebbe divenuto proprietà comune dei coniugi, in luogo del bene mobile unilateralmente alienato. Ora il fatto che la comunione legale fosse cessata in corso di causa non aveva comportato automaticamente la cessazione della proprietà comune dei coniugi e l’impossibilità di eseguire la prestazione in favore della comunione, trasformatasi, per effetto della cessazione del regime legale, in comunione ordinaria. In altre parole, era cessato il regime legale, rimanendo intatta la contitolarità fino alla divisione (Cass. n. 10586/1996; n. 9846/1996). Si osserva che l’art. 184 c.c. non indica un termine entro il quale il coniuge pretermesso può pretendere la ricostituzione della comunione, ma la dottrina è concorde nel ritenere applicabile la disposizione dell’art. 192 c.c., comma 4, individuando quale termine ultimo il momento della divisione. Si ritiene inoltre che possa essere applicabile alla fattispecie anche l’art. 192 c.c., comma 2, che esclude l’obbligo di rimborso nell’ipotesi in cui l’atto di straordinaria amministrazione compiuto separatamente da uno dei coniugi sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia.

Insomma, lo scioglimento del regime legale non impediva di concepire e attuare una prestazione fatta dal coniuge debitore in favore della comunione. L’equivalente del bene alienato senza il consenso dell’altro coniuge sarebbe divenuto oggetto di comproprietà per essere diviso insieme alle altre cose, così come dispone l’art. 192 c.p.c. Secondo tale norma, infatti, i rimborsi e le restituzioni vanno fatti “alla comunione”, non pro quota al coniuge creditore. Vengono in considerazione, per giustificare la previsione che impone di computare la prestazione nella massa dei beni comuni, non solo una esigenza di salvaguardia dei creditori della comunione, garantiti sui beni di questa, ma anche una esigenza del coniuge debitore, che potrebbe avere interesse a effettuare la prestazione in favore della massa per definire in quella sede i reciproci rapporti di dare e avere.

Si capisce, quindi, come si accennava, che l’errore commesso dai giudici di merito è di non avere accolto la domanda originaria, la cui attuabilità non era venuta meno per effetto della cessazione del regime legale. Ciò posto, nella decisione assunta nei gradi di merito, di accogliere la domanda con pagamento diretto al coniuge creditore nei limiti della quota, non si ravvisa alcuna violazione processuale. Il compartecipe che abbia chiesto nei confronti di altro compartecipe, di rimettere in proprietà comune un certo importo indebitamente sottratto, non incorre nel divieto di mutamento di domanda se chiede in corso di causa il pagamento diretto della propria quota. Il compartecipe debitore ha diritto di opporsi a tale domanda, non perchè sia nuova, ma facendo valere il proprio interesse a ricostituire la comunione in vista della divisione, in modo da regolare in quella sede i rapporti di dare e avere, invece di pagare la quota del compartecipe fuori dalle operazioni divisionali.

Considerata dal punto di vista del petitum e della causa petendi, il rilievo della corte d’appello – secondo cui “la domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro equivalente a quelle investita poi disinvestita da R.S. è stata dunque regolarmente tempestivamente formulata dalla S.: essa pertanto apparteneva al giudizio riunito ed è stata del tutto correttamente esaminata e parzialmente accolta dal primo giudice nella misura del 50% della somma investita” – è immune da censure.

Il secondo motivo denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La sentenza è oggetto di censura per avere la corte d’appello negato il carattere personale dell’acquisto, in presenza di elementi oggettivi che dimostravano inequivocabilmente la provenienza dal patrimonio proprio del R. dei mezzi impiegati per l’acquisto. In particolare, si sostiene che, nella situazione concreta, la provenienza personale della provvista era implicita nella cospicua entità dell’importo investito, avuto riguardo alle condizioni economiche e ai redditi dei coniugi. Si assume che l’altro coniuge aveva piena consapevolezza della provenienza della provvista dal patrimonio dei genitori dell’attuale ricorrente. Si doveva poi considerare la disciplina del c.d. scudo fiscale, che costituiva ulteriore conferma del carattere personale dei mezzi impiegati per l’acquisto, posto che la dichiarazione di emersione era stata fatta dal solo R. e conseguentemente non ne potevano profittare anche altri soggetti, benchè comproprietari.

Il motivo è inammissibile. Coerentemente con la rubrica si denuncia un vizio di motivazione, che non è più annoverato fra le ragioni di censura proponibili in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis. Non ha senso neanche chiedersi se la censura possa essere considerata nell’alveo della nuova disciplina della norma, versandosi in un caso di c.d. “doppia conforme” ex art. 348-ter c.p.c., comma 5.

E’ ancora da aggiungere: a) che la censura verte sul fatto che la corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere la provenienza da donazione dei capitali impiegati per l’acquisto dei titoli, senza considerare che la stessa corte d’appello ha ritenuto inammissibile, prima che infondata, la relativa deduzione; b) che nel motivo si introducono fatti nuovi, costituiti da scritti difensivi relativi a un diverso giudizio depositati persino dopo la pronuncia della sentenza impugnata in questa sede; c) che, in ordine alla disciplina dello scudo fiscale, è censurata inammissibilmente sotto il profilo della motivazione l’interpretazione di una norma giuridica; d) che tale ultima questione è comunque irrilevante: la corte d’appello non ha riconosciuto il carattere comune del mezzo impiegato per l’acquisto, proveniente da conto estero, nonostante la dichiarazione di emersione fosse stata fatta da uno solo dei coniugi. La comunione è riferita ai titoli acquistati con quei mezzi; e si sa che, a tale effetto, la natura comune sussiste anche se i mezzi siano di uno solo dei coniugi.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con addebito di spese.

(Per allegato vedi pdf).

In considerazioni delle ragioni della decisione non si ravvisa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2020

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