Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18136 del 05/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 05/07/2019, (ud. 05/02/2019, dep. 05/07/2019), n.18136

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15980-2015 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAGO DI

LESINA 3 presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO CORATELLA e o

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI in persona del Direttore tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA EELLE DOGANE LEI MONOPOLI DIREZIONE INTERREGIONAILE CAMPANIA

CALABRIA UFFICIO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 11334/2014 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI,

depositata il 22/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

05/02/2019 dal Consigliere Dott. CORRADINI GRAZIA.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 428/5/2013 la Commissione Tribunale Provinciale di Napoli rigettava il ricorso proposto da C.G. contro l’avviso di rettifica prot. n. (OMISSIS) emesso dall’Agenzia delle Dogane, a seguito di processo verbale redatto dall’Ufficio Revisioni della stessa Agenzia, con cui era stata contestata al C., solidalmente con altri soggetti, una falsa dichiarazione di valore mediante sottofatturazione di merci alla importazione, finalizzata alla evasione di diritti doganali nonchè illegittima applicazione del regime IVA, ai sensi del D.L. n. 331 del 1990, art. 50 bis, per l’importo di Euro 40.569,95.

Il primo giudice, per quanto ancora interessa, riteneva che correttamente il C. fosse stato individuato dall’Ufficio come legittimato passivo e soggetto tenuto al pagamento dei tributi in quanto gestiva le società di comodo con cui era stata posta in essere la evasione dei tributi doganali ed in particolare era stato rappresentante legale delle società “Punti Cardinali” utilizzata per trasferire denaro in Cina attraverso fatture per false prestazioni e della società “Mark.Pro.Corn” anch’essa utilizzata per trasferire denaro in Cina.

Investita dall’appello di C.G. che aveva dedotto il difetto di motivazione della sentenza di primo grado in ordine al riconoscimento della sua qualità di debitore poichè non aveva contribuito alla attività di importazione e / o esportazione della merce in assenza di prova del suo legame con le specifiche società “Casa di Spedizione WCS srl”, “Asian Import Export srl” e “Perfetto srl” che avevano spedito ed importato la merce e quindi della sua specifica responsabilità con riguardo alla “bolletta” oggetto del presente procedimento, nonchè il difetto di motivazione del provvedimento impugnato con riguardo ai canoni di chiarezza ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 7, la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 11334/01/2014, depositata in data 22 dicembre 2014, rigettava l’appello e condannava l’appellante alle spese del grado.

La CTR riteneva in primo luogo completa la motivazione dell’avviso di rettifica, poichè, unitamente all’avviso di rettifica, era stato notificato anche il processo verbale di revisione dell’accertamento che ricostruiva tutta la vicenda da cui si evinceva che il C. era stato uno dei soggetti che aveva gestito l’operato delle società di comodo attraverso le quali era stata realizzata l’attività di evasione. Rilevava poi che la partecipazione del ricorrente alla frode doganale si evinceva dall’esame di molteplici elementi e riscontri documentali, quali il fatto che il C. facesse parte di una organizzazione internazionale che utilizzava società di comodo per importare merce dalla Cina dichiarando un valore molto più basso della merce entrata per vanificare i controlli doganali, mentre il pagamento del prezzo effettivo avveniva attraverso la acquisizione fittizia di servizi internazionali effettuata da altre società di comodo dislocate in Cina attraverso cui avveniva l’illecita esportazione di capitali; che lo stesso C., come dimostrato dalle disposizioni bancarie sequestrate, aveva curato il trasferimento all’estero di denaro per operazioni fittizie, con cui era stata in realtà pagata la merce fatta arrivare in Italia; che, come risultante dai documenti rinvenuti all’indirizzo di (OMISSIS), la gestione di fatto delle società di comodo utilizzate per le operazioni in contestazione era riconducibile anche a C. ed alla di lui moglie, V.B..

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso il contribuente, con atto notificato il 22.6.2015, affidato a tre motivi.

La Agenzia delle Dogane si è costituita con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 2 e 3, in relazione all’art. 111 Cost., art. 2909 c.c., art. 324 c.p.c.. e art. 112 c.p.c., al fine di invocare nel giudizio di cassazione il giudicato esterno discendente dalla sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Liguria n. 151/2/2013 in data 8.7.2013, confermativa della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Genova n. 1/1/2012 in data 28.10.2011, passata in giudicato, con cui il C. era stato ritenuto carente di legittimazione passiva, ovvero “non debitore doganale” per mancanza di elementi probanti del suo coinvolgimento nel sistema fraudolento esposto dalla Agenzia delle Dogane, con riguardo a ventitre avvisi di accertamento relativi ad altrettante dichiarazioni di importazione per gli anni 2005/2006 contestate dalla Agenzia delle Dogane – Ufficio delle Dogane di Genova in base agli stessi presupposti che avevano determinato la emissione degli avvisi di accertamento impugnati davanti alla Commissione Tributaria di Napoli. Ha rilevato che tutti gli avvisi di accertamento emessi dalle Agenzie delle Dogane di Genova, Roma e Napoli facevano riferimento al medesimo rapporto giuridico poichè erano collegati ad un comune procedimento penale, per cui, in virtù della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 13916 del 16 giugno 2006, la sopravvenuta formazione del giudicato esterno integrava la regola iuris alla quale il giudice aveva il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto in qualsiasi stato e grado del giudizio.

1.1. Il motivo è privo di autosufficienza poichè il ricorrente si limita a riportare un passo della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Liguria con cui si afferma che C. era stato ritenuto “privo di legittimazione, anche perchè non emerge che il contribuente abbia posto in essere alcuna operazione doganale, sia direttamente che indirettamente, attraverso spedizionieri doganali. Non risulta ancora che il contribuente abbia intrattenuto rapporti commerciali con gli altri soggetti destinatari dell’impugnato avviso di accertamento” per desumerne che in entrambi i giudizi (il presente e quello definito con sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Liguria) vi sarebbe stata coincidenza di parti, di petitum e di causa petendi, senza però indicare da dove tale assunto sarebbe ricavabile. E’ infatti principio consolidato quello per cui il ricorrente ha l’onere di operare una chiara esposizione degli elementi rilevanti, funzionale alla piena valutazione del motivo dedotto, in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte di cassazione (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta (v. Cass. Sezioni Unite: N. 5698 del 2012 Rv. 621813 – 01; da ultimo Sez. 5 -, Ordinanza n. 24340 del 04/10/2018 Rv. 651398 – 01); il che nella specie non è avvenuto poichè l’unico elemento indicato dal ricorrente, a sostegno del “medesimo rapporto giuridico” che sarebbe stato posto a base della sentenza impugnata nel presente giudizio e di quella della C.T.R. della Liguria, è stato quello della “carenza di legittimazione” del C., in assenza però di qualsiasi riferimento al contenuto dell’accertamento, agli altri soggetti coinvolti ed alla pretesa concreta della Amministrazione Doganale.

1.2. In ogni caso il motivo è infondato.

1.3. In materia tributaria, l’effetto vincolante del giudicato esterno è certamente invocabile anche nel giudizio di cassazione ed è applicabile anche nel caso in cui gli atti tributari impugnati in due giudizi siano diversi, purchè sia però identico l’oggetto del giudizio medesimo, riferito al rapporto tributario sottostante. Tale efficacia trova ostacolo in relazione alle qualificazioni giuridiche, ove intese come argomentazioni avulse dalla decisione del caso concreto, poichè detta attività, compiuta dal giudice e contestuale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire un limite all’esegesi esercitata da altro giudice, nè è suscettibile di passare in giudicato autonomamente dalla domanda e dal capo di essa cui si riferisce, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione, ferma, in ogni caso, la necessità del collegamento, tendenzialmente durevole, ad una situazione di fatto. In relazione alle imposte periodiche, poi, l’efficacia del giudicato esterno è limitata ai soli casi in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata sicchè è esclusa l’efficacia espansiva del giudicato per le fattispecie “tendenzialmente permanenti” in quanto suscettibili di variazione annuale o in relazione a più ridotti periodi temporali (v. ex pluribus Cass. Sez. 5, Sentenza n. 23723 del 21/10/2013 Rv. 628972 – 01; Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 21824 del 07/09/2018 Rv. 650505 – 01, peraltro del tutto in linea con Cass. Sez. Un. 13916 del 16/06/2006 Rv. 589696 -01, citata dalla ricorrente)

1.4. Orbene, le decisioni della Commissione Tributaria Provinciale di Genova n. 1/1/2012 in data 28.10.2011 e della Commissione Tributaria Regionale della Liguria n. 151/2/2013 in data 8.7.2013, ritualmente prodotte e contenenti l’attestazione della cancelleria di passaggio in giudicato, hanno trattato la questione della legittimazione del contribuente in relazione alle operazioni doganali oggetto di quel giudizio, ma nulla porta a ritenere che abbiano avuto ad oggetto il “medesimo rapporto giuridico”, in alcun modo illustrato dalle decisioni in questione (sia di primo che di secondo grado), non oggetto di esplicita statuizione, nè, in ogni caso, puntualmente allegato (al di là di un generico riferimento) dallo stesso ricorrente che si limita a richiamare la circostanza che le decisioni in giudicato avevano escluso la legittimazione del C. con riguardo alle dichiarazioni doganali oggetto dello specifico giudizio; il che, al contrario di quanto sostiene il ricorrente, peraltro in contrasto con l’orientamento consolidato di questa Corte, non integra i requisiti di identità soggettiva ed oggettiva richiesti per la applicazione del giudicato esterno. Occorre infatti considerare che la presente vicenda, pur inquadrata in un sistema di evasione e/o sottofatturazione, unitamente ad una errata indicazione d’origine della merce proveniente dalla Cina, posto in essere con metodi diversi fra cui l’utilizzo di società di comodo e utilizzo di falsi documenti – trasbordo merci in porti di paesi diversi e che vedeva coinvolti numerosi soggetti fra cui il C., trae origine da una specifica dichiarazione doganale ((OMISSIS) del (OMISSIS)) diversa da quella oggetto del giudizio definito dalla CTR della Liguria ((OMISSIS)) che presentava caratteri distinti per caratteristiche della merce importata, dazio applicato e contestazione formulata. Si trattava perciò di differenti operazioni di importazione di merce nel territorio UE, ciascuna delle quali si configurava in modo autonomo e, dunque, il rapporto giuridico in considerazione non ha neppure il carattere “di esecuzione prolungata”, nè si riferisce a fatti ad “efficacia permanente o pluriannuale”, ma si traduce in un evento unitario e definito, àncorato a specifici ed autonomi fatti, restando nel contempo irrilevante la loro sussunzione nella medesima operazione di polizia da cui avevano tratto origine, ma nel cui ambito ciascuna operazione restava poi distinta ed autonoma per le specifiche caratteristiche che avevano determinato distinti accertamenti che riguardavano i singoli soggetti che avevano presentato la singola dichiarazione ovvero il titolo certificativo di origine emesso in relazione a ciascuna importazione su cui era basato il rapporto giuridico sottostante.

2. E’ infondato anche il secondo motivo con cui il ricorrente lamenta violazione ed errata applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 306 c.p.c. (rectius art. 360), n. 3, per mancata allegazione all’accertamento dell’intero processo verbale di revisione dell’accertamento redatto dai funzionari dell’Ufficio Revisioni delle Agenzia delle Dogane.

2.1. In proposito il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata nulla avrebbe dedotto in merito alla allegazione del processo verbale all’avviso di accertamento, limitandosi a sostenere che il processo verbale sarebbe stato allegato all’avviso di rettifica che era stato notificato al sig. C. e ciò si porrebbe in contrasto con La L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3per cui, se nella motivazione di un atto della amministrazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato, non essendo invece sufficiente la affermazione che il processo verbale sarebbe stato notificato insieme all’atto di rettifica.

2.2. Occorre premettere che nel caso in esame si tratta di impugnazione di un avviso di rettifica in materia doganale previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 e successive modificazioni, il quale prevede ai commi 5 e 5 bis: “5. Quando dalla revisione, eseguita sia d’ufficio che su istanza di parte, emergono inesattezze, omissioni o errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne dà comunicazione all’operatore interessato, notificando apposito avviso. Nel caso di rettifica conseguente a revisione eseguita d’ufficio, l’avviso deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dalla data in cui l’accertamento è divenuto definitivo. 5 bis. La motivazione dell’atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale ai fini della difesa. L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la motivazione di cui al presente comma”. Ma ciò è proprio quanto risulta dalla sentenza e quanto riportato concordemente dalle parti nel ricorso e nel controricorso depositati nel presente giudizio.

2.3. Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7 e, per quanto specificamente attiene agli avvisi di rettifica in materia doganale, di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, comma 5 bis deve ritenersi assolto anche attraverso la motivazione “per relationem” alle risultanze del processo verbale di revisione o di altre indagini pregresse (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione: ex pluribus Corte Cass. 5 sez. 5.2.2009 n. 2749; id. 5 sez. 9.2.2010 n. 2806; id. 5 sez. 9.4.2010 n. 8504). L’obbligo di allegazione dell’atto richiamato “per relationem” trova, tuttavia, limite nella stessa ragionevolezza della norma. In proposito è stato affermato da questa Corte che “In tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, (cosiddetto Statuto del contribuente), un’interpretazione puramente formalistica si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause d’invalidità o d’inammissibilità chiaramente irragionevoli” (cfr. Corte cass. 5 sez. 2.7.2008 n. 18073). Pertanto se l’atto richiamato è stato pubblicato su albi o bollettini ufficiali è sufficiente la indicazione degli estremi dell’atto e degli altri elementi necessari alla individuazione della pubblicazione (cfr. Corte cass SU 14.5.2010 n. 11722 “tale motivazione può essere assolta per relationem ad altro atto che costituisca il presupposto dell’imposizione, atto del quale, tuttavia, debbono comunque essere specificamente indicati gli estremi, anche relativi alla pubblicazione dello stesso su bollettini o albi ufficiali che eventualmente ne sia stata fatta a sensi di legge, affinchè il contribuente ne abbia conoscenza o conoscibilità”). Ed ancora è stato precisato che l’obbligo di allegazione dell’atto o documento al quale è disposta la “relatio” ha “funzione integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, con la conseguenza che non si estende a quegli atti, pur indicati nell’avviso di accertamento, che non rivestono carattere essenziale in quanto non svolgono alcuna funzione esplicativa “dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche” sui quali è fondata la determinazione dell’Ufficio tributario (cfr. Corte cass. 5 sez. 18.12.2009 n. 26683″il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perchè ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso, sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione”).

2.4. Nella specie è incontestato che l’avviso di rettifica, emesso ai sensi del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, è stato motivavo rinviando al processo verbale di revisione che, come risulta dalla sentenza impugnata e come sostenuto anche dal ricorrente, è stato regolarmente notificato in allegato all’atto impositivo. Tanto appare sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero daziario in relazione al “contenuto essenziale” dell’atto richiamato ed a porre il ricorrente in grado di apprestare le proprie difese, sia limitandosi alla mera negazione dei fatti costitutivi della pretesa, sia contrastando l’atto impositivo mediante acquisizione di eventuale ulteriore documentazione e di altri elementi probatori idonei a dimostrare la effettiva origine del prodotto o altri diversi presupposti della imposizione, dovendosi, al riguardo, distinguere nettamente la questione relativa alla esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale “requisito formale di validità” dell’avviso di accertamento, da quella della effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr. Corte Cass. 1 sez. 17.1.1997 n. 459; id. 1 sez. 5.6.1998 n. 5544; id. 5 sez. 1.8.2000n. 10052), indicazione che non è richiesta quale elemento costitutivo della validità dell’atto impositivo e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria che trovano applicazione nello svolgimento dell’eventuale giudizio introdotto dal contribuente con il ricorso di opposizione all’atto impositivo.

2.5 Il motivo di ricorso per cui si sostiene che il processo verbale di revisione doveva essere allegato all’avviso di accertamento non tiene quindi conto della ratio decidendi esplicitata dalla sentenza impugnata, laddove la stessa fa rilevare che il processo verbale di revisione era stato notificato unitamente all’atto impugnato (l’avviso di rettifica), così come previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, il che contiene il concetto di allegazione che è implicito in quello di notificazione simultanea dei due atti, ma si appalesa da altro lato anche del tutto incongruo poichè la contestazione della carenza di motivazione deve fare riferimento all’atto impugnato e non ad altro atto diverso, peraltro neppure indicato nel ricorso con riguardo ai requisiti essenziali che consentano la sua individuazione.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione ed errata applicazione degli artt. 201, 202 e 203 del codice doganale comunitario e dell’art. 2727 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la sentenza impugnata, in primo luogo, ritenuto, in assenza di qualsiasi documento dimostrativo e con argomentazioni vaghe che non spiegavano il legame fra il C. e le società reputate coinvolte nella importazione illegale, che il contribuente fosse stato legale rappresentante della società “Asian Import Export” e nel contempo trascurato il fatto che le società coinvolte nella importazione oggetto dell’accertamento erano la Planet srl e la Perfetto srl e cioè società diverse da quelle di cui si ipotizzava che il C. fosse stato rappresentante legale o con cui avesse avuto legami. Si duole inoltre del fatto che il C. sia stato ritenuto soggetto passivo della obbligazione doganale benchè non avesse contribuito in qualche modo alla attività di importazione e/o espropriazione della merce presa in considerazione nella specifica dichiarazione doganale e non rientrasse nel novero dei soggetti che avevano comunque fornito dei dati necessari alla stesura di tale dichiarazione e che nella sentenza impugnata non fosse indicato alcun elemento, neppure presuntivo, da cui dedurre che il C. fosse stato responsabile per l’importazione di cui si tratta, al di fuori del fatto che sarebbe stato legale rappresentante o comunque gestore della società di comodo “Asian Import Export” srl a cui nome sarebbe stata spedita la merce.

3.1. Il motivo è nel complesso inammissibile poichè, sotto la veste di una violazione di legge, si deduce in realtà una carenza di motivazione della sentenza impugnata.

3.2. In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, fra l’altro sottratta al sindacato di legittimità e la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013 Rv. 626129 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015 Rv. 638171 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03).

3.3. Orbene, quanto al primo profilo della doglianza, “per cui la sentenza impugnata avrebbe ritenuto ingiustificatamente il C. legale rappresentante della società Asian Import Export, in assenza di qualsiasi documento dimostrativo e con argomentazioni vaghe, trascurando nel contempo il fatto che le società coinvolte nella importazione oggetto dell’accertamento erano la Planet srl e la Perfetto srl e cioè società diverse da quelle di cui si ipotizzava che il C. fosse stato rappresentante legale o con cui avesse avuto legami”, in primo luogo non è vero che la sentenza della CTR della Campania attribuisca al C. la qualifica di legale rappresentante della società “Asian Import Export”, poichè a pagina 3 gli attribuisce, invece, la partecipazione alla gestione alla suddetta società di comodo (che aveva effettuato nel caso concreto l’importazione per conto della srl “Perfetto”) e riporta a pag. 2 analoga motivazione, condivisa dal giudice di appello, contenuta nella sentenza di primo grado, per cui la partecipazione del C. alla gestione era stata desunta dalla circostanza che era ed era stato legale rappresentante delle società Punti Cardinali e Mark.Pro.Corn. srl che erano state utilizzate per trasferire denaro in Cina, nonchè dalla documentazione in sequestro ed in particolare dalla disposizione bancaria dimostrativa del fatto che aveva curato effettivamente il trasferimento all’estero del denaro per le operazioni fittizie di cui si tratta. Inoltre il motivo di gravame, sotto tale primo profilo, non contiene alcun riferimento ad alcuna violazione di legge bensì solo a pretesi errori di motivazione con riferimento alle risultanze processuali ed alla loro valutazione da parte della sentenza impugnata, che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, in ordine alla concludenza della prova presuntiva, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione, che nella specie non è stato dedotto (Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013 Rv. 626129 – 01 e successive conformi).

3.4. Ma anche il secondo profilo del terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta che il C. sia stato ritenuto soggetto passivo della obbligazione doganale benchè non avesse contribuito in qualche modo alla attività di importazione e / o espropriazione della merce presa in considerazione nella specifica dichiarazione doganale e che nella sentenza impugnata non fosse indicato alcun elemento, neppure presuntivo, da cui dedurre che il C. fosse stato responsabile per l’importazione di cui si tratta, al di fuori del fatto che sarebbe stato legale rappresentante o comunque gestore della società di comodo “Asian Import Export” srl a cui nome sarebbe stata spedita la merce, non si duole di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, il che avrebbe implicato necessariamente un problema interpretativo della stessa, bensì allega, viceversa, soltanto un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa deducibili sotto il profilo del vizio di motivazione, neppure, peraltro, prospettato nel caso in esame.

3.5. Il ricorrente richiama il codice doganale comunitario ed in particolare gli artt. 201, 202, 203 e 213 c.d.c. che individuano il soggetto passivo del tributo in primo luogo nel dichiarante doganale, ossia colui che presenta la dichiarazione doganale in nome proprio e che realizza l’immissione in libera pratica della merce (art. 201, comma 3, c.d.c.) e anche lo spedizioniere incaricato delle operazioni doganali che abbia agito in rappresentanza indiretta (ossia in nome proprio e per conto altrui, art. 201 c.d.c.) dell’importatore, con il quale è legato da un obbligo di solidarietà passiva, ma prevede poi l’estensione della responsabilità al pagamento dei dazi a un soggetto diverso dal dichiarante in altre ipotesi riconducibili ai casi di introduzione irregolare della merce e di sottrazione indebita al controllo doganale. Ricorrendo tali presupposti oggettivi, sono altresì responsabili, oltre al soggetto che ha materialmente compiuto l’irregolarità, anche coloro che hanno partecipato all’illecito, sapendo, o dovendo sapere, dell’irregolarità della condotta realizzata dall’importatore. L’art. 213 c.d.c. prevede, inoltre, una solidarietà passiva tra tutti coloro che sono ritenuti debitori di un’obbligazione doganale, il cui pagamento può essere richiesto a ciascuno per l’intero: tra essi rientrano coloro che hanno fornito i dati necessari alla stesura della dichiarazione, che avrebbero dovuto essere a conoscenza della loro erroneità, quando i dati da loro forniti abbiano prodotto una mancata riscossione, anche solo parziale, dei dazi dovuti.

Tale interpretazione è quella che risulta anche dalle sentenze della Corte di Giustizia (v., in particolare, sentenza 17.11.2011 nella causa C-454/2010 Oliver Jestel / Hauptzollamt Aachen e sentenza 23 settembre 2004 nella causa C-414/02; Spedition Ulustrans) che hanno ritenuto che, ai sensi del codice doganale comunitario, sono debitrici della obbligazione doganale le persone che hanno partecipato alle operazioni di introduzione irregolare delle merci nel territorio dell’Unione sapendo o dovendo sapere secondo ragione che tale introduzione era irregolare e che devono essere ritenute partecipanti alla introduzione le persone che hanno preso parte in qualsiasi modo a tale introduzione e cioè le persone coinvolte in atti collegati alla introduzione.

3.6. Partendo da tali corretti presupposti, il ricorrente non lamenta peraltro che la sentenza impugnata abbia erroneamente interpretato la norma bensì che non vi fosse la prova concreta che il C. avesse avuto un ruolo nella operazione di importazione posta in essere dalle società di comodo, sul presupposto che, se tale ruolo fosse stato dimostrato, non sarebbe stata discutibile la sua responsabilità, in quanto tutti coloro che hanno partecipato alla irregolare introduzione della merce sono, in base alla normativa, soggetti passivi di imposta.

3.7. Si deve quindi escludere la sussistenza del vizio di violazione di legge poichè la sentenza impugnata ha interpretato correttamente le disposizioni del codice doganale comunitario, peraltro in aderenza alla interpretazione che ne dato lo stesso ricorrente, individuando la soggettività passiva del C. sulla base di più elementi convergenti, specificamente indicati (quali fra l’altro: le disposizioni bancarie sequestrate che dimostravano come l’effettivo e concreto invio del denaro con era stata pagata la merce a suo tempo fatta arrivare in Italia fosse stato curato effettivamente dal C.; la documentazione bancaria rinvenuta in (OMISSIS) che consentivano di attribuire la gestione delle società di comodo – fra cui la Asian Import Export, che aveva effettuato la importazione per conto della Perfetto srl, coinvolte nella operazione di cui si tratta – fra gli altri, a tale C.G., personaggio di spicco della organizzazione, che era stato individuato in C.G. attraverso le varie missive spedite da ” L.” ed il suo collegamento con V.B. che era effettivamente la moglie del C.; la circostanza che il C. fosse stato legale rappresentante delle società Punti Cardinali srl e Mark. Pro. Com srl, anch’esse utilizzate per trasferire denaro in Cina nell’ambito della complessiva operazione fraudolenta di trasferimento di denaro all’estero attraverso società di comodo) che dimostravano il suo coinvolgimento specifico nella operazione oggetto del presente giudizio come soggetto che aveva coscientemente partecipato all’illecito attraverso la condotta sopra descritta. Il che comporta la inammissibilità del motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con il quale è stata proposta una lettura alternativa delle risultanze di causa rispetto a quella fatta propria dal giudice di merito. Non sussisterebbe comunque neppure in vizio di motivazione della sentenza impugnata, peraltro non dedotto, poichè tale vizio sussiste quando il giudice non indichi affatto le ragioni del proprio convincimento rinviando, genericamente e “per relationem”, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito, mentre nella specie la sentenza impugnata ha indicato, con motivazione non illogica, il percorso attraverso cui ha ritenuto sussistenza della prova della partecipazione consapevole del C. alla attività illecita contestata con l’avviso di rettifica impugnato.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo. Sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater essendo stato il ricorso notificato il 22.6.2015.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 3.500,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito. Dà atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2019

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