Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18135 del 24/06/2021

Cassazione civile sez. lav., 24/06/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 24/06/2021), n.18135

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARIENZO Rosa – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22498/2017 proposto da:

TRE EMME S.P.A., TRE EMME SERVICE S.R.L., GIESSE GROUP S.R.L., G.F.C.

S.R.L., T.M.P. S.R.L., in persona dei legali rappresenlanti pro

tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA ALESSANDRIA 128-130,

presso lo studio dell’avvocato ANTONINO PIRO, rappresentate e difese

dall’avvocato MARIO MARTORELLI;

– ricorrenti –

contro

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA NAVONA,

49, presso lo studio dell’avvocato ELEONORA D’AVACK, rappresentato e

difeso dagli avvocati DIOMEDE PANTALEONI, RENZO MERLINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 355/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 26/07/2017 R.G.N. 11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del primo

motivo, con assorbimento del secondo;

udito l’Avvocato SERGIO USAI, per delega verbale Avvocato RENZO

MERLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte di Appello di Ancona, con la sentenza n. 355/2017, pubblicata il 26.7.2017, pronunziando sul reclamo proposto da C.R., avverso la sentenza del Tribunale di Macerata n. 68/2016, nei confronti di Tre Emme S.p.A., Giesse Group S.r.l., Tre Emme Service S.r.l., GFC S.r.l., TMP S.r.l., ha dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato a C.R. e, per l’effetto, lo ha annullato; inoltre, previo accertamento della esistenza di un unico centro di imputazione datoriale in relazione a tutte le società reclamate, ha condannato la Tre Emme S.p.A. a reintegrare il C. nel proprio posto di lavoro ed altresì ad erogare al medesimo una indennità risarcitoria, pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonchè a regolarizzarne la posizione contributiva.

La Corte di merito, per quanto ancora rilevi in questa sede, ha osservato che “risulta rilevante che il C. svolgesse di fatto mansioni rientranti nell’ambito di un inquadramento contrattuale superiore, rispetto a quello riconosciuto al lavoratore, formalmente inquadrato al sesto livello del CCNL, mentre svolgeva in concreto attività di spedizione merci e di stoccaggio nei magazzini, sussumibile nel quarto livello CCNL, che nelle esemplificazioni prevede, appunto, la figura del “magazziniere””; che “la misura espulsiva non risulta legittima neanche sotto il profilo della proporzionalità. I comportamenti contestati al C., non riconducibili a nessuna delle ipotesi tipiche del contratto collettivo poste a giustificazione del licenziamento, appaiono, invece, configurare una delle fattispecie previste dall’art. 225 CCNL, legittimante l’irrogazione di una mera sanzione conservativa. Infatti, qualora il dipendente “esegua con negligenza il lavoro affidatogli”, tale condotta è idonea a legittimare il datore a irrogare una multa, cioè la medesima sanzione con cui erano stati puniti gli addebiti del 9.1.2014 e del 30.1.2014″; e che “l’indice della scarsa rilevanza dei comportamenti oggetto delle contestazioni del 9.10.2013, 4.11.2013, 9.1.2014,, 30.1.2014, 28.4.2014, 12.5.2014 è deducibile anche dalle conseguenze disciplinari relative ai medesimi. Infatti, nella maggior parte dei casi al dipendente non era mai stata applicata alcuna sanzione disciplinare, mentre, negli unici due casi in cui il C. era stato punito, cioè per gli addebiti inviati il 9.1.2014 ed il 30.1.2014, le sanzioni si erano limitate alla multa corrispondente ad un’ora di attività lavorativa. A sostegno della minima entità di tali negligenze nello svolgimento dei propri compiti, può rilevarsi come, in assenza di prova contraria, le stesse non appaiano contraddistinte da una precisa volontà di danneggiare l’azienda, ma dalla mera mancanza di attenzione e precisione del lavoratore…. E, ai sensi dell’art. 225 CCNL, la recidiva per avere rilevanza deve essere avvenuta oltre la terza volta nell’anno solare in qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione, fatto salvo quanto previsto per la recidiva nei ritardi”.

Per la cassazione della sentenza Tre Emme S.p.A., Tre Emme Service S.r.l., Giesse Group S.r.l., GFC S.r.l. e TMP S.r.l. hanno proposto ricorso affidato a due motivi.

C.R. ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., comma 1; L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 e della L. n. 300 del 1970, art. 7, “nella parte in cui la Corte d’Appello nega rilevanza quale giusta causa di licenziamento a plurima recidiva ritualmente contestata ed accertata”, e si deduce che il licenziamento di cui si tratta è stato intimato con raccomandata dell’11.6.2014 e che i giudici di seconda istanza, “dopo aver osservato che il termine “entro il quale il datore avrebbe potuto adottare un eventuale provvedimento disciplinare (art. 227 CCNL di settore) non è stato pienamente rispettato dalla Tre Emme S.p.A.”, dopo una analisi dei documenti e delle date, concludono affermando il contrario, e cioè che “tale termine appare, quindi, senz’altro rispettato, avendo il datore inviato la lettera di licenziamento l’11.6.2014″”; ed altresì che, “dopo aver affermato che “Nella missiva di licenziamento non veniva specificata alcuna particolare causa giustificativa, se non la gravità della negligenza del C. nello svolgimento delle sue mansioni, anche alla luce delle molteplici contestazioni disciplinari comunicategli nel corso del 2014″, finiscono per concludere che non rilevano le pregresse contestazioni disciplinari, e che quindi non ricorre la giusta causa del licenziamento”, negando, quindi, “rilevanza di giusta causa di licenziamento ad una macroscopica recidiva ritualmente contestata e richiamata”.

2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 1344,1414,1415,2697 c.c. e art. 116 c.p.c., “in presenza di un error iuris sostanziale sotto il profilo della erronea sussunzione della fattispecie concreta nel quadro della norma applicata, con riferimento alla dichiarata esistenza di un gruppo di imprese con unico centro di imputazione del rapporto di lavoro pur in assenza dei requisiti richiesti dalla costante e conforme giurisprudenza di legittimità in materia (da ultimo Cass. n. 2646/2016), e senza procedere all’esame dell’attività di ciascuna impresa che le società convenute avevano adeguatamente illustrato e documentato”, ed altresì “richiamando un materiale probatorio che non consente di sussumere la vicenda sotto la norma applicata, in quanto le circostanze valorizzate non rientrano tra quelle tassativamente richieste dai giudici di legittimità per poter affermare l’esistenza, anche ai fini dei rapporti di lavoro, di un unico centro di potere”.

1.1. Relativamente al primo motivo, si rileva che non sussiste la evidenziata contraddittorietà (“motivo di perplessità”: così in ricorso) tra le proposizioni ed affermazioni della Corte distrettuale relative al rispetto dei termine di adozione del provvedimento disciplinare. Va infatti osservato che il previsto termine quindicinale è stato ritenuto non rispettato unicamente con riguardo a due delle contestazioni cui si faceva riferimento nella missiva di licenziamento (quelle del 28.4.2014 e del 12.5.2014), mentre è stato ritenuto rispettato con riguardo alla sola contestazione – cui pure si riferiva la missiva – del 9.5.2014, sulla quale soltanto secondo la Corte poteva ritenersi fondato il licenziamento.

Quanto alla censura relativa alla contraddittorietà tra le ulteriori affermazioni relative alla gravità della condotta del C. alla luce delle molteplici contestazioni disciplinari comunicate al predetto nel corso dell’anno 2014 (così nella missiva di licenziamento) ed alla ritenuta mancanza di rilevanza delle stesse ai fini considerati, la motivazione sul punto è particolarmente articolata e la decisione è supportata da una pluralità di considerazioni, tra le quali la riconducibilità dei comportamenti addebitati al lavoratore ad errori o mancanze di lieve entità nell’espletamento degli incarichi affidati allo stesso, come, secondo la Corte, desumibile anche dalla mancata applicazione di sanzioni disciplinari nella maggior parte dei casi, e l’irrogazione della sola sanzione della multa per due di essi, lo svolgimento da parte del C. di mansioni rientranti in un livello di inquadramento superiore a quello contrattuale riconosciutogli, la non riconducibilità dei comportamenti contestati ad alcuna delle ipotesi tipiche del CCNL applicabile poste a giustificazione del licenziamento, ma a fattispecie legittimante l’irrogazione di mera sanzione conservativa. Al cospetto di tale iter motivazionale, la giurisprudenza richiamata dalle ricorrenti, relativa alla non necessità – ai fini della validità della sanzione o del licenziamento – di una contestazione disciplinare riferita anche alla recidiva o comunque ai precedenti disciplinari che la integrano, ove questa non rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non semplice criterio di determinazione della sanzione ad essa proporzionata, non è pertinente e conferente. A prescindere dalla mancata trascrizione della lettera di contestazione, necessaria ai fini dell’adempimento dell’onere di specificità del motivo di ricorso, con conseguenti riflessi sulla inammissibilità della censura che non ne riporti il contenuto, la Corte distrettuale si è basata anche sulla considerazione dei citati precedenti disciplinari, dei quali è stata esclusa ogni gravità per la riscontrata lieve entità degli errori e delle mancanze poste in essere, anche in rapporto alle mansioni riconducibili alla figura di “magazziniere” in concreto accertate come svolte dal C.. In forza di tale ordine di considerazioni, la Corte di Ancona ha escluso che la contestazione del 9.5.2014, unica a fondare formalmente la sanzione del licenziamento (in tal senso la precisazione della corte a pag. 10 della sentenza impugnata), riguardasse fatti riconducibili alle ipotesi di violazione dell’art. 225 o art. 220, commi 1 e 2, del CCNL (riguardanti fattispecie specifiche legittimanti il licenziamento, non congruenti con gli addebiti) ed ha ritenuto, invece, che gli stessi fatti fossero idonei a legittimare l’irrogazione di una mera sanzione conservativa. Non essendo le censure della società, per quanto osservato, idonee a scalfire l’impianto motivazionale (sia perchè, come già sopra evidenziato, non è mancata adeguata considerazione della rilevanza dei precedenti comportamenti di cui il C. si era reso responsabile, sia in ragione della motivata impossibilità di ricondurre il comportamento addebitato, anche con contestuale considerazione di mancanze pregresse, alle fattispecie legittimanti il licenziamento), rimane ferma la base motivazionale che individua con riferimento alla fattispecie realizzata l’ipotesi prevista dallo steso art. 225 del CCNL, legittimante l’irrogazione della sanzione della multa, prevista per l’ipotesi in cui il dipendente “esegua con negligenza il lavori affidatogli” (cfr. in tali termini pag. 11 della sentenza impugnata). Tale ratio decidendi, che si ricollega alle valutazioni richiamate, non adeguatamente confutate, non è stata fatta oggetto di ulteriore specifica censura su piani diversi afferenti anche alla tutela reintegratoria attenuata riconosciuta in base a puntuali richiami in diritto, al che consegue la complessiva infondatezza del relativo motivo di ricorso.

2.2. Il secondo motivo è inammissibile. Va premesso che i requisiti per l’individuazione di una ipotesi di codatorialità, implicante l’esistenza di un gruppo di imprese con unicità di centro di imputazione dei rapporti giuridici ed in particolare dei rapporti lavorativi, consistono: a) nell’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) nell’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e nel correlativo interesse comune; c) nel coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) nella utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (cfr. Cass. nn. 267/2019; 7704/2’018; 19023/2017; 26346/2016). Orbene, la pronuncia giunge ad identificare l’unicità del centro di imputazione descritto attraverso una indagine completa circa la sussistenza di ciascuno degli enunciati requisiti, alla stregua delle acquisite risultanze istruttorie, sia documentali che testimoniali. A fronte dell’esaustivo accertamento compiuto dalla Corre distrettuale, la censura, pur nella enunciazione in rubrica di un error in iudicando con riferimento alla violazione delle norme indicate, non rivolge alcuna critica alla effettuata corretta applicazione dei parametri identificativi della fattispecie, ma si limita a censurare la decisione attraverso una diversa contrapposta valutazione delle risultanze processuali (v. Cass. n. 635/2015, ai sensi della quale, quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione o falsa applicazione si norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità). E nel motivo scrutinato non si rinviene una critica conforme al modello dettato dalla giurisprudenza di legittimità, ma unicamente una censura volta a prospettare una diversa ricostruzione dei rapporti tra le società, in forza di una valutazione delle prove meramente contrappositiva rispetto a quella compiuta dal giudice del gravame. E ciò denota l’inammissibilità del motivo, essendo pacifico che “non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr., ex aliis, Cass. n. 640/2019).

3. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

4. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

5. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2021

 

 

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