Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18134 del 31/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 31/08/2020, (ud. 25/09/2019, dep. 31/08/2020), n.18134

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25966-2015 proposto da:

P.C., S.A., P.A., in proprio e

nella qualità di eredi di P.V., domiciliati in ROMA,

PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato NICOLA SARACINO;

– ricorrenti –

contro

GENERALI ITALIA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI,

che la rappresenta e difende;

ITALPOL GROUP S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato MARCO QUAGLIARO;

– controricorrenti –

e contro

SOCIETA’ ITALIANA ASSICURAZIONI S.P.A., (già Compagnia Italiana di

Previdenza, Assicurazioni e Riassicurazioni S.P.A.);

– intimata –

avverso la sentenza n. 245/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 12/08/2015 R.G.N. 24/2015.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

 

Fatto

RILEVA

che con ricorso depositato l’otto giugno 2010 P.C., S.A. e P.A., in proprio nonchè nella qualità rispettivamente di genitori e di sorella di P.V., chiedevano al giudice del lavoro di Udine di accertare la responsabilità della datrice di lavoro ITALPOL Group S.p.a. nella causazione dell’infortunio mortale occorso al loro congiunto il 2 luglio 2002, con conseguente condanna della convenuta al risarcimento di tutti i danni patiti, sia jure hereditatis che jure proprio. Gli attori avevano rappresentato che il loro parente era stato assunto dalla convenuta il 7 agosto 2001 con contratto di formazione professionale della durata di 24 mesi, finalizzato al conseguimento della qualifica di vigile di quinto livello ex c.c.n.l. degli istituti di vigilanza privata; che il contratto prevedeva un’articolazione della settimana lavorativa secondo lo schema di un giorno di riposo per ogni cinque giorni di lavoro ed un orario giornaliero di sette ore; che tuttavia sin dalla data dell’assunzione e per tutta la durata del rapporto parte datoriale aveva imposto l’osservanza di turni ed orari di lavoro massacranti; che non vi era stata alcuna formazione professionale; che il superlavoro e le modalità con le quali il loro congiunto era stato indotto a prestare la sua attività avevano procurato gravissimo stress, che quindi aveva menomato l’equilibrio psicofisico del soggetto, ponendosi come causa del successivo decesso avvenuto il 2 luglio 2002 alle ore 06.05 mentre, terminato il proprio turno di lavoro, il dipendente si trovava alla guida dell’auto aziendale di servizio; che sulle cause del decesso era stata aperta un’indagine da parte della Procura della Repubblica competente a carico del legale rappresentante della datrice di lavoro, però definita con l’archiviazione del procedimento, in quanto gli elementi di prova raccolti sull’esistenza di una situazione di stress lavorativo e sul conseguente rapporto eziologico con l’evento letale non erano risultati idonei a sostenere l’accusa in giudizio;

ITALPOL Group S.p.a. si era costituita in giudizio instando in via preliminare per la chiamata in causa delle compagnie assicuratrici INA ASSITALIA e ITALIANA ASSICURAZIONI, al fine di essere tenuta indenne dalle obbligazioni di pagamento eventualmente dovute. Nel merito la convenuta aveva resistito alle pretese avversarie, di cui aveva chiesto il rigetto ed in via subordinata la riduzione della indicata pretesa risarcitoria, tenuto conto del concorso di colpa del P., poichè la consulenza tecnica espletata durante le indagini preliminari aveva stimato che il veicolo viaggiava ad una velocità di circa 92 – 93 chilometri orari, malgrado il limite di 70 km/h, e con manto stradale bagnato, laddove inoltre il tasso alcolemico accertato in ragione dello 0,65% – stimato in 0,85% – era sufficiente a provocare stato di ebbrezza, sonnolenza e riduzione delle facoltà di autocontrollo;

istruita la causa documentalmente nonchè tramite consulenza tecnica di ufficio, diretta a ricostruire l’esatta consistenza, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, delle prestazioni lavorative espletate dallo scomparso P.V., nonchè tramite c.t.u. medico-legale, volta ad analizzare l’incidenza delle anzidette prestazioni lavorative sulle condizioni psicofisiche del lavoratore al momento del sinistro, il giudice adito con sentenza n. 191/22 maggio – 23 luglio 2014, rigettava le domande avanzate da parte attrice, compensando integralmente le spese di lite, e ponendo quelle di consulenza a carico degli attori e della convenuta metà ciascuno; la sentenza di primo grado veniva appellata dai suddetti P.C., S.A. e P.A., ma il gravame di cui al ricorso in data 22 gennaio 2015 (ampiamente riportato nel ricorso per cassazione, v. tra l’altro pagg. 11 – 22) veniva dichiarato inammissibile ex art. 434 c.p.c. dalla Corte d’Appello di Trieste con

sentenza n. 245 in data 16 luglio – 12 agosto 2015, dichiarando altresì contestualmente inefficace l’appello incidentale tardivo proposto dalla ITALPOL Group, con conseguente conferma della sentenza n. 191/14. Gli appellanti principali, inoltre, venivano condannati, tra loro in solido, al rimborso delle spese relative al secondo grado del giudizio, all’uopo liquidate in favore delle società appellate;

contro la sentenza d’appello P.C., S.A. e P.A. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi (come da atto notificato a mezzo posta elettronica certificata in data 20.10.2015);

al suddetto ricorso hanno resistito mediante controricorsi ITALPOL Group S.p.a. (atto del 26 novembre 2015) nonchè GENERALI ITALIA S.p.a., conferitaria con decorrenza primo luglio 2013 del complesso aziendale costituito dal portafoglio assicurativo della direzione per l’Italia di ASSICURAZIONI GENERALI S.p.a. in favore di INA ASSITALIA S.p.a. e contestuale modifica della denominazione sociale di quest’ultima in Generali Italia S.p.a. per atto notarile in data 28 giugno 2013 (posta elettronica certificata del 17.11.2015); è rimasta intimata, invece, la soc. Italiana di Assicurazione s.p.a. (già Compagnia Italiana di Prev.za Assicurazioni e Riassicurazioni S.p.a.;

parte ricorrente, inoltre, ha depositato memoria illustrativa in vista dell’adunanza del collegio fissata in camera di consiglio per il 25 settembre 2019.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la Corte territoriale erroneamente dichiarato l’inammissibilità dell’appello, per cui anche a seguito delle modifiche introdotte da decreto L. 22 giugno 2012, n. 83 con l’art. 54, comma 1, lett. C bis, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non è richiesto che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma, in ossequio ad una logica di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione, occorre che il ricorrente in appello individui in modo chiaro ed esauriente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza impugnata, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre le ragioni del dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudicante ed esplicitare in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte. Nel caso di specie, secondo parte ricorrente, erroneamente la Corte triestina aveva ritenuto violato il novellato art. 434, poichè sarebbero state reiterate le doglianze svolte in primo grado, senza censurare alcuni decisivi passaggi motivazionali che sorreggevano la gravata pronuncia, segnatamente in relazione agli esiti di entrambe le consulenze tecniche di ufficio espletate, da porsi a confronto, laddove essi appellanti avevano espressamente censurato la sentenza di primo grado per non aver correlato gli esiti delle due consulenze tecniche. Inoltre, la sentenza d’appello aveva giudicato esauriente e coerente la consulenza medica a cura del dottor De Maglio, dando atto delle approfondite indagini svolte da costui in relazione sia alla quantificazione dell’alcolemia che alla veridicità dei dati di laboratorio in risposta alle osservazioni formulate dai periti di parte, affermazione però assolutamente non corretta, laddove a pagina 11 e seguenti dell’atto d’appello era stato contestato il preteso stato di etilismo acuto, visto che non si trattava di un esperto tossicologo e che era state erroneamente nonchè superficialmente rilevato come al momento del sinistro il P. avesse un tasso alcolemico nel sangue non inferiore a 0,70 – 0.75 gli, in considerazione del fatto che a circa due ore dal probabile verificarsi dell’incidente fosse stato rilevato un tasso di 0,65 g/l.. Tuttavia, i dati fattuali che avevano portato ai suddetti valori erano oscuri e del tutto discutibili, considerato altresì che da nessun elemento emergeva il tempo presumibilmente trascorso tra l’assunzione di alcol ed il sinistro. Nè il c.t.u. aveva considerato le variabili proprie dei meccanismi di diffusione dell’alcol. Dai dati dell’autopsia nulla era emerso circa la tipologia e la quantità di alcolico assunto dal P., nè era noto l’orario dell’avvenuta assunzione (cfr. più diffusamente quanto ampiamente riportato da pagg. 41/44 del ricorso in ordine ai motivi sul punto dell’appello a suo tempo proposto). Dunque, parte appellante non si era limitata a contestare la sentenza di primo grado per aver ritenuto esaustiva la perizia del Dott. D.M., ma aveva anche reiterato le contestazioni all’elaborato, già enunciate in prime cure e sulle quali il primo giudicante non si era espresso, volte ad inficiare la determinazione del tasso alcolemico. Era sorprendente, in particolare, la sentenza d’appello, secondo cui non sarebbe stata contestata la pronuncia di primo grado con riferimento al punto in cui si sarebbe attestata la veridicità dei dati di laboratorio, laddove peraltro lo stesso giudice di primo grado aveva evidenziato che in risposta alle osservazioni formulate dai periti di parte il c.t.u. medesimo aveva ritenuto tali dati non esaustivi nè sufficienti i chiarimenti forniti dai laboratori interpellati, tanto da dover soltanto presumere il dato, ignorando tuttavia le contestazioni di parte. Pertanto, evidentemente gli appellanti avevano espressamente censurato la sentenza, perchè il giudice di primo grado aveva ritenuto esaustiva la c.t.u. medico-legale a cura del Dott. D.M.. La pronuncia di appello, inoltre, aveva giudicato corrette, quindi, le conclusioni del c.t.u., nella parte in cui era stata ritenuta la dimostrazione dello stato di etilismo acuto, che avrebbe svolto un ruolo efficiente determinante nella genesi dell’incidente. Tale stato di etilismo acuto rappresentava elemento di autonomia causale sufficiente per il determinismo dell’evento letale, mentre qualsiasi diversa interpretazione tecnica non sarebbe stata invece supportata da elementi di prova scientificamente criticabili. Per contro, dette conclusioni erano state ampiamente confutate giusta quanto in proposito dedotto a pag. 16 e ss. dell’atto d’appello (v. pag. 46 e segg. del ricorso de quo – circa le argomentazioni svolte con il ricorso d’appello riguardo al preteso etilismo acuto quale causa determinante del sinistro, nonchè in relazione alle altre circostanze rilevanti ex art. 2087 c.c. ai fini della causazione dell’incidente avvenuto il 2 luglio 2002);

con il secondo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, con riferimento all’art. 421 c.p.c., in ordine all’ammissione dei mezzi istruttori formulati da parte attrice – appellante in relazione alla prova dello stato di stress in cui versava lo scomparso P.V., però non ammessi;

tanto premesso, il primo motivo di ricorso appare fondato nei seguenti termini, con conseguente assorbimento della seconda censura, visto che la preliminare declaratoria d’inammissibilità in rito comportava evidentemente l’assorbimento di ogni altra questione inerente al merito della controversia, ivi compresi i connessi profili probatori;

invero, la sentenza d’appello, dopo aver dato atto dei motivi di gravame addotti a sostegno dell’impugnazione da parte appellante, accoglieva in effetti la preliminare eccezione d’inammissibilità dell’interposto gravame, laddove, richiamato pure il principio affermato da Cass. 5 febbraio 2015 n. 2143, osservava che nel caso di specie, se si confrontavano le motivazioni della sentenza con le contestazioni sollevate nei primi tre motivi di gravame, emergeva con tutta evidenza che l’appello, sebbene circostanziato, non era stato redatto in modo conforme alle previsioni del novellato art. 434 c.p.c., poichè venivano reiterate le doglianze svolte in primo grado senza censurare alcuni decisivi passaggi motivazionali dell’impugnata pronuncia. In particolare, secondo la Corte distrettuale, gli appellanti continuavano a sostenere che l’incidente stradale sarebbe stato causato dalla condizione di stress di cui il P. asseritamente soffriva, invocando gli esiti della consulenza tecnica di ufficio a cura del dottor C.L., ma senza specificamente impugnare la decisione di primo grado, laddove alle pagine da 9 a 13 il giudicante aveva analizzato gli esiti di entrambe le consulenze tecniche di ufficio espletate ponendoli a confronto, aveva ritenuto esaustiva e coerente la consulenza medica espletata dal dottor D.M., dando atto delle approfondite indagini svolte da costui in relazione sia alla quantificazione dell’alcolemia che alla veridicità dei dati di laboratorio in risposta alle osservazioni formulate dai periti di parte. Il giudice adito aveva, quindi, ritenuto corrette le conclusioni del c.t.u., avendo affermato che il dimostrato stato di etilismo acuto aveva svolto un ruolo efficiente e determinante nella genesi dell’incidente… Tale etilismo acuto rappresentava elemento di autonomia causale sufficiente per il determinismo dell’evento letale…, osservando altresì che qualsiasi diversa interpretazione tecnica, non sarebbe stata invece supportata da elementi di prova scientificamente criticabili. Lo stesso giudicante aveva, infine, escluso sulla base di tale iter argomentativo l’illecito di cui all’art. 2087 c.c., non avendo il ricorrente dimostrato il loro assunto, e cioè che il superlavoro e le modalità mediante cui il loro congiunto era stato portato a prestare la sua attività lavorativa erano stati fonte di gravissimo stress, che ne aveva menomato l’equilibrio psicofisico, ponendosi come causa del successivo decesso avvenuto il 2 luglio 2002. Quanto poi all’ultimo motivo di appello, relativo alla mancata ammissione delle prove richieste, lo stesso è stato altresì giudicato inammissibile dalla Corte distrettuale, perchè gli appellanti si erano limitati a riproporre i capitoli di prova formulati in primo grado, ma senza nulla dedurre in relazione al fatto che tale prova – ove ammessa – sarebbe stata decisiva ai fini di sovvertire la decisione assunta dal Tribunale, tenuto anche conto degli esiti delle due consulenze. L’inammissibilità dell’appello principale ex art. 434 c.p.c., poi, comportava l’inefficacia dell’appello incidentale tardivo proposto da ITALPOL GROUP S.p.a. a norma dell’art. 334 c.p.c., u.c.;

alla luce di quanto, ampiamente e specificamente, dedotto da parte ricorrente (con l’atto del 20-10-2015, formato da ben 62 pagine), ai sensi e per gli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, soprattutto in relazione all’atto d’appello del 22 gennaio 2015 avverso la gravata sentenza del Tribunale di Udine n. 191/2014, appaiono giustificate le doglianze circa la errata applicazione nel caso di specie dell’art. 434 c.p.c., avuto riguardo soprattutto al principio di diritto affermato in materia dalle Sezioni unite civili di questa S.C. con la sentenza n. 27199 pubblicata il 16/11/2017, secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale (tuttavia) mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (ex artt. 360 e ss. c.p.c.. V. in senso conforme, tra le altre, Cass. n. 18932 del 2016 nonchè Cass. sez. 6 – 3, ordinanza n. 13535 del 30/05/2018. Cfr. altresì Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 3115 in data 08/02/2018, secondo cui l’appellante che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare “ex novo” le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sè l’inammissibilità dell’appello. V. parimenti la motivazione dell’ordinanza di Cass. VI civ. n. 97 del 27/09/2018 – 04/01/2019: “… Ed, invero, anche in relazione al previgente testo di cui all’art. 342 c.p.c., si è affermato che, in tema di giudizio d’appello – che non è un “judicium novum”, ma una “revisio prioris instantiae” – il requisito della specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c., (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportategli dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, 1 comma 1, lett. a), conv. con modif., dalla L. n. 134 del 2012), esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico giuridico, ciò risolvendosi in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure (si veda sull’affermazione del giudizio di appello quale revisio prioris instantiae Cass. S.U. n. 28498/2005; cfr. da ultimo Cass. n. 4695/2017, nonchè Cass. S.U. n 27199/2017 che, sebbene in relazione alla novellata previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha ritenuto che debba imporsi un’interpretazione in linea di continuità con quanto opinato in precedenza, sicchè i canoni applicativi della norma sono di fatto rimasti identici)….”);

nel caso di specie, pertanto, l’impugnata declaratoria d’inammissibilità del gravame a suo tempo interposto dai suddetti sigg. P. – S., appare eccessivamente rigorosa e formalistica in relazione alle puntuali e dettagliate critiche mosse dagli appellanti a confutazione delle argomentazioni poste a sostegno della sentenza di primo grado, di guisa che gli enunciati motivi di impugnazione, imponevano e impongono un loro adeguato esame di merito, risultando essi pertinenti, oltre che sufficientemente specifici nei sensi richiesti dalla succitata giurisprudenza in relazione all’art. 434 c.p.c., ancorchè secondo il testo di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. c bis), conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, nella specie ratione temporis applicabile in base al regime transitorio di cui all’art. 54, comma 2, stesso D.L., in relazione all’atto d’appello depositato il 22 gennaio 2015; lo stesso precedente giurisprudenziale (Cass. lav. n. 2143 del 16/12/2014 – 05/02/2015), citato a pag. 15 della sentenza qui impugnata, nell’affermare il principio – secondo cui l’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata – per il caso di specie ivi esaminato cassava con rinvio l’impugnata sentenza di merito, che aveva dichiarato inammissibile il gravame, ritenuto correttamente formulato il ricorso in appello, in cui le singole censure – attinenti alla ricostruzione del fatto e/o alla violazione di norme di diritto – erano state sviluppate mediante la indicazione testuale riassuntiva delle parti della motivazione ritenute erronee e con la analitica indicazione delle ragioni poste a fondamento delle critiche e della loro rilevanza al fine di confutare la decisione impugnata, rigettando tra l’altro anche la preliminare eccezione d’inammissibilità opposta da parte controricorrente: “…E’ vero infatti che il ricorrente sollecita una lettura della disposizione contenuta nel testo novellato dell’art. 434 c.p.c., che adotti alcuni dei parametri interpretativi che già erano stati elaborati con riferimento alla vecchia disposizione. Su tale opzione interpretativa, tuttavia, questa Corte non si è ancora pronunciata. 3. La decisione della causa richiede quindi che siano in primo luogo poste le premesse logico-giuridiche del ragionamento decisorio, che attengono all’interpretazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che per il rito del lavoro, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., specifica i requisiti della motivazione che il ricorso in appello deve presentare, a pena di inammissibilità del gravame, individuandoli:…

3.1. Con riferimento al previgente testo dell’art. 434 c.p.c., comma 1 e art. 342 c.p.c., comma 1, sui requisiti di specificità dei motivi di impugnazione si sono contrapposti due orientamenti, uno più risalente e meno rigoroso…

3.2. Esaminando le modifiche introdotte dalla novella, occorre premettere che la dichiarata finalità ne è stata quella di migliorare, ispirandosi in particolare al modello tedesco, l’efficienza delle impugnazioni, a fronte della reiterata violazione dei tempi di ragionevole durata del processo”.

3.4. In merito poi al valore da attribuirsi alla puntualizzazione del requisito della “specificità” dei motivi, occorre premettere che l’economia dei tempi processuali perseguita dalla novella può essere ottenuta solo esigendo il rispetto da parte dell’appellante, in un’ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, di precisi oneri formali che impongano e traducano uno sforzo di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione.

3.5. Allo scopo di individuarne l’estensione, vi sono due aspetti da valutare: è vero, da un lato, che il principio della ragionevole durata del processo, elevato a rango costituzionale a seguito della riformulazione dell’art. 111 Cost., ad opera della legge costituzionale n. 2 del 1999, costituisce il parametro per adottare un’interpretazione delle norme processuali funzionalizzata ad un’accelerazione dei tempi della decisione, conducendo a privilegiare opzioni contrarie ad ogni inutile appesantimento del giudizio, in sintonia con l’obiettivo perseguito anche a livello sovranazionale dall’art. 6 della CEDU di assicurare una decisione di merito in tempi ragionevoli (così Cass. n. 13825 del 2008, Cass. S.U. n. 5700 del 2014, Cass. S.U. n. 9558 del 2014, Cass. n. 17698 del 2014); inoltre, non è prevista costituzionalmente la pluralità di gradi di giudizio (fatto salvo il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale), sicchè il legislatore nazionale gode di una certa discrezionalità nel prevedere limiti all’accesso alle impugnazioni.

3.6. Dall’altro lato, occorre tuttavia rilevare (come evidenziato da Cass. S.U. n. 5700 del 2014 e Cass. S.U. n. 9558 del 2014), che la Corte di Strasburgo afferma che le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l’intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma 1 CEDU qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c. Francia 26 luglio 2007, Falteisek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). La stessa Corte EDU ha poi affermato che il vincolo del rispetto del diritto ad un processo equo imposto dall’art. 6, comma 1 della CEDU si applica anche ai provvedimenti di autorizzazione all’impugnazione (Corte EDU, Hansen c. Norvegia, 2 ottobre 2014, Dobric c. Serbia, 21 luglio 2011,punto 50).

3.7. Il quadro costituzionale e sovranazionale orienta quindi verso canoni interpretativi capaci di assicurare il compito correttivo del giudizio d’appello, finalizzato a garantire la conformità della decisione di primo grado alla legge ed alle risultanze processuali, ma sanzionando le pratiche che, comportando un abuso del processo, determinino un’ingiustificata dilatazione dei suoi tempi ed un ingiustificato aggravio del lavoro del giudice.

3.8. Sulla base di tali argomentazioni, occorre concludere che gli oneri che vengono imposti alla parte devono essere interpretati in coerenza con la funzione loro ascritta e devono quindi consentire di individuare agevolmente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere quindi l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre lo sviluppo di un percorso logico alternativo a quello adottato dal primo Giudice e devono chiarire in che senso tale sviluppo logico alternativo sia idoneo a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte. In tal modo, la novella ha, sostanzialmente e ragionevolmente, recepito e formalizzato gli approdi cui era giunta la giurisprudenza più recente, rendendone certa ed efficace la sanzione processuale.

3.9. Tali essendo i requisiti contenutistici del ricorso, deve ancora precisarsi che con la reiterata locuzione “indicazione”, il legislatore non ha previsto che le deduzioni della parte appellante debbano assumere una determinata forma o ricalcare la decisione appellata con diverso contenuto, nè ha adottato una logica di riproposizione, fuori tempo e fuori luogo, del noto (ed oggi superato) requisito del “quesito di diritto”: il legislatore ha solo statuito che i contenuti critici proposti debbano essere articolati in modo chiaro ed esauriente, oltre che pertinente.

3.10. Quanto detto non esclude poi che il ricorso in appello possa riproporre anche le argomentazioni già svolte in primo grado, purchè esse siano comunque funzionali a supportare le censure proposte nei confronti di specifici passaggi argomentativi della sentenza appellata.

d’altro canto, si rimanda pure alla succitata più recente giurisprudenza secondo cui, pur tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, quest’ultimo tuttavia mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, sicchè di conseguenza anche gli specifici oneri di allegazione e di autosufficienza, richiesti a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c. riguardo al ricorso per cassazione (nell’ambito del capo III, titolo III delle impugnazioni, libro secondo in base alla sistematica del codice di rito), non sono invece previsti per l’appello (v. artt. 339 e ss. nonchè artt. 433 e ss. c.p.c.). Di conseguenza non appare nemmeno corretto quanto si legge a pag. 15 della sentenza qui impugnata, secondo cui sarebbe indispensabile che dalla lettura dell’atto d’appello nel suo complesso conseguire con immediatezza quali siano le parti della sentenza da censurare, non prevedendo appunto la legge processuale anche per il gravame il requisito dell’autosufficienza (v. del resto anche Cass. n. 13535/18 cit., secondo cui non occorre, tra l’altro, la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata);

nel caso qui in esame, dunque, a pag. 33 e ss. del ricorso è stato ampiamente riprodotto il contenuto della sentenza di primo grado, e quello di contro fatto valere con l’interposto gravame al fine di confutare le argomentazioni svolte da primo giudicante, però in effetti senza alcuna considerazione in ordine alle emergenze, favorevoli alle tesi di parte attrice appellante, di cui alla c.t.u. a cura della Dott.ssa C., ed in relazione agli specifici rilievi mossi contro la relazione del c.t.u. Dott. M. nonchè in tema di nesso di causalità (cfr. in part. pagg. 38 – 55 del ricorso per cassazione);

pertanto, nei sensi di cui sopra va accolto il primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento del secondo e cassazione, per l’effetto, con rinvio alla Corte di merito perchè si pronunci di nuovo sull’anzidetto interposto gravame, osservati i succitati principi di diritto, provvedendo all’esito anche al regolamento delle spese processuali, ivi comprese quelle relative a questo giudizio di legittimità;

il positivo esperimento dell’impugnazione qui proposta, infine, comporta l’insussistenza dei presupposti di legge in ordine al versamento dell’ulteriore contributo unificato (la cassazione della pronuncia d’appello n. 245/15 si estende, evidentemente, anche alla declaratoria ivi contenuta circa la sussidenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per cui si dovrà provvedere a nuova verifica sul punto in sede di rinvio).

P.Q.M.

La Corte ACCOGLIE il PRIMO motivo di ricorso, assorbito il secondo. CASSA l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e RINVIA, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2020

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