Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18133 del 31/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 31/08/2020, (ud. 25/09/2019, dep. 31/08/2020), n.18133

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22429-2015 proposto da:

BANCA MONTE PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO

VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio degli avvocati CLAUDIO

SCOGNAMIGLIO e RENATO SCOGNAMIGLIO, che la rappresentano e

difendono;

– ricorrenti –

contro

V.P.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ALDO LICCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 417/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 07/07/2015 r.g.n. 1304/2011.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

 

Fatto

RILEVA

Che con sentenza del 10 giugno 2011 il Tribunale di Siena accoglieva parzialmente la domanda risarcitoria promossa da Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. contro V.P.A. e condannava quest’ultimo al pagamento in favore del datore di lavoro della somma di due milioni di Euro, oltre accessori, riconoscendo la responsabilità del convenuto, il quale nella sua qualità di preposto al settore commerciale estero della direzione territoriale corporate di Lecce aveva posto in essere un’operazione speculativa in valuta estera per conto dell’architetto G., però senza la formale autorizzazione di costui e aveva così costretto la Banca a postare al passivo tale somma, poichè il cliente aveva disconosciuto l’operazione. Il giudizio di merito era stato proceduto da sequestro conservativo fino alla concorrenza di 1.565.497,37 Euro, per cui il Tribunale in composizione collegiale aveva rilevato la corresponsabilità del V. unitamente a quella degli organi superiori;

la sentenza del 10 giugno 2011 veniva appellata dal lavoratore, il quale in particolare deduceva che i vertici aziendali erano a conoscenza delle modalità operative con le quali venivano eseguite le disposizioni dell’architetto G., deducendo altresì come quest’ultimo fosse un cliente del tutto particolare, già azionista di Banca del Salento, poi Banca 121, infine Banca MPS. Aggiungeva che per prassi le operazioni in valuta estera a favore del cliente erano state poste in essere senza formalità, sia in ragione della indispensabile celerità con la quale dovevano essere eseguite, sia in ragione dell’impossibilità del G. a recarsi in banca quotidianamente, sia infine in ragione della particolare posizione che l’architetto G. rivestiva all’interno della banca. Il G., peraltro, operava in assenza di fido e perciò gli sconfinamenti derivanti dalle loro operazioni speculative erano sempre all’evidenza della banca. La società appellata si costituiva in giudizio, resistendo all’interposto gravame, spiegando a sua volta appello incidentale per la condanna dell’appellante al pagamento della maggior somma a suo tempo richiesta. Peraltro, con distinta sentenza resa tra le stesse parti in data 10 giugno 2011 il Tribunale di Siena dichiarava l’impignorabilità della retribuzione periodica del V. nei limiti di Euro 1000 mensili. Anche tale pronuncia veniva appellata dal lavoratore e parte datoriale si costituiva in giudizio, instando in via incidentale perchè le somme fossero dichiarate pignorabili nella loro interezza;

inoltre, con una terza sentenza, sempre in data 10 giugno 2011, lo stesso Tribunale riteneva impignorabile le retribuzioni dovute in esecuzione di ripristino del rapporto di lavoro nei limiti di Euro 1000. Anche per questo giudizio il lavoratore proponeva appello e parte datoriale spiegava appello incidentale;

tutti i procedimenti venivano riuniti per connessione e dall’esito anche di una prova delegata, con sentenza numero 417 in data 30 giugno – 7 luglio 2015, notificata alla Banca Monte dei Paschi di Siena il 17 luglio 2015, la Corte d’Appello di Firenze così provvedeva: “in riforma della sentenza 10 giugno 2011 del Tribunale di Siena e rigettato l’appello incidentale, rigetta la domanda avanzata da Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a. contro V.P.A. e dichiara di nessun effetto il sequestro conservativo. Rigetta le domande riconvenzionali proposte da V. in primo grado. Dichiara inammissibile l’appello per sopravvenuto difetto di interesse nelle controversie nn. 1304 e 1305/2011. Compensa le spese di entrambi i gradi per 1/5 e pone il residuo a carico di Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a.; liquida detta quota della somma complessiva di Euro 15.000,00 oltre spese generali ed accessori di legge”;

la Banca ha impugnato detta pronuncia come da ricorso per cassazione, di cui è stata chiesta la notifica di 14 settembre 2015, quindi perfezionata tramite servizio postale il 26 settembre successivo, atto affidato a cinque motivi, cui ha resistito il signor V.P.A. mediante controricorso (di cui è stata chiesta la notifica all’ufficiale giudiziario il 3 novembre 2015), in seguito illustrato da memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c.; la Corte fiorentina con la succitata pronuncia ha osservato come il giudice di primo grado avesse ritenuto che la mancanza di autorizzazione da parte del cliente a compiere operazioni in questione fosse ragione sufficiente per affermare la responsabilità risarcitoria del convenuto, peraltro riducendo la somma richiesta all’importo di 2 milioni di Euro. Entro certi limiti, infatti, le circostanze rilevanti ai fini della decisione risultavano pacifiche, poichè il dipendente non negava di aver posto in essere le operazioni – contestate senza autorizzazione (scritta) dell’architetto G., affermando che quest’ultimo era un cliente del tutto particolare, legato alla banca da un lungo rapporto. Secondo il lavoratore, inoltre, tale prassi non poteva considerarsi ignorata dagli altri enti aziendali, tenuto conto del suo ruolo non di vertice. Su tali circostanze il collegio aveva ammesso anche prova testimoniale, quindi acquisita per delega dal Tribunale di Lecce. Dall’espletato mezzo istruttorio era emerso che: l’architetto G. era un cliente influente, che aveva anche fatto parte del consiglio di amministrazione della Banca del Salento, poi assorbita dal Monte dei Paschi di Siena; era capitato che fossero eseguite delle operazioni sul conto del cliente senza alcuna disposizione scritta, salvo la ratifica; era capitato che il G. desse al V. disposizioni telefoniche; l’ufficio call-desk di Siena fissava i cambi che dovevano regolare le operazioni eseguite e quindi era al corrente di esse anche quando difettava autorizzazione scritta del cliente; più in generale, vi era tolleranza nei confronti delle operazioni dell’architetto G.; di regola, tutte le operazioni provenienti dalla periferia erano supervisionate; data la tempestività con la quale venivano eseguite le operazioni di valuta estera, queste venivano poste in essere direttamente dalla banca e subito dopo ratificate dal cliente; l’architetto G. operava senza fido e ciò era noto ai vertici della società. Dunque, secondo la Corte d’Appello, le dichiarazioni testimoniali così riassunte, indubbiamente attendibili, consentivano senz’altro di accedere alla proposta ricostruttiva del V., e cioè che l’architetto G. fosse più che un cliente particolare, ponesse in essere rilevanti operazioni di cambio di valuta, altamente speculative e rischiose, senza alcuna

formalità preventiva e con la consapevolezza da parte dei vertici aziendali di tale prassi e dell’entità del rischio. Di fatto, pertanto, il cliente non subiva alcuna limitazione

operativa derivante dalle formali disposizioni bancarie e, come emerso univocamente dalle dichiarazioni testimoniali, egli aveva titolo per operare con la tempestività necessaria e con le modalità a lui stesso più congeniali. Era particolarmente significativo al riguardo il fatto che quando si verificavano delle squadrature sui c.d. conti di transito e quando queste venivano verificate dagli enti aziendali superiori fosse sufficiente – sapere che si trattava di operazioni a favore del G. per soprassedere senza alcun intervento. “In tale contesto risulta del tutto costruita la responsabilità del V. e sulla base di dedotte negligenze formali che sistematicamente non venivano rispettate quando si trattava di operazioni poste in essere dal G.; e risulta altresì incongruo il comportamento di BMPS che, alla prima rimostranza del cliente (evidentemente vittima di un’operazione non andata a buon fine), ha omesso di imputare allo stesso la perdita, piuttosto che alla responsabilità del suo dipendente.

La domanda risarcitoria avanzata in primo grado dal datore di lavoro va, pertanto, rigettata, conseguendone la caducazione del sequestro conservativo e l’inammissibilità degli appelli promossi avverso le sentenze rese in tema di pignorabilità per sopravvenuto difetto di interesse ad agire. Vanno, poi, dichiarate inammissibili le domande riconvenzionali proposte dal V. e volte ad accertare la responsabilità esclusiva o concorrente della banca, posto che egli non ha alcun interesse attuale e concreto a simile pronuncia”.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo la società ricorrente ha denunciato violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1 anche in relazione all’art. 2104 c.c., tenuto conto tra l’altro del fatto che la stessa Corte d’Appello aveva riconosciuto come fosse pacifico che effettivamente il V. aveva posto in essere le operazioni contestate senza l’autorizzazione dell’architetto G.. Doveva, quindi, ritenersi che il giudice di appello avesse reputato bensì sussistente il contegno inadempiente del dipendente ed avesse del pari considerato le sue condotte quantomeno come negligenze formali, ma che le avesse tuttavia giudicate inidonee a fondare la responsabilità risarcitoria sulla premessa che le regole formali violate fossero in effetti sistematicamente non rispettate nell’ambito della banca quando si trattava di operazioni poste in essere dal G., ma senza neanche ipotizzare – non essendo stata la tesi neppure sostenuta dal V. – che le condotte di quest’ultimo fossero state oggetto di disposizioni impartite dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 2104 c.c., comma 2. Pur in assenza di un’esplicita qualificazione normativa da parte della sentenza impugnata, in ordine alla vicenda così come ricostruibile sulla base dell’espletata istruttoria, si imponeva dunque la conclusione che la sentenza d’appello avesse ricondotto l’ipotesi in questione alla previsione di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, e cioè al caso in cui il fatto colposo del creditore (ossia l’asserita peculiare gestione da parte della banca della posizione del G.) avesse concorso a determinare il danno ascrivibile, nella sua determinazione causale, peraltro anche a chi come il V. aveva concretamente posto in essere le condotte negligenti, ossia le operazioni senza la previa autorizzazione formale dell’architetto G.. D’altra parte, nell’ipotesi in cui non si fosse ritenuto sussistente nel caso di specie, ancorchè erroneamente, il concorso del fatto colposo del creditore, ne derivava la conclusione, oggetto del secondo motivo di impugnativa, della nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, non essendo state affatto chiarite, ma neppure enunciate, le ragioni in relazione le quali si sarebbe potuti pervenire ad escludere qualsiasi responsabilità risarcitoria del V. per danni discendenti da fatti comunque da lui posti in essere.

Infatti, a sostegno dell’assunto che la sentenza d’appello abbia, nel caso di specie, applicato, sia pure erroneamente, l’art. 1227 c.c., comma 1, occorreva richiamare l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui la regola contenuta nell’art. 1227, comma 1, in quanto avente riguardo all’ipotesi del concorso di colpa, è appunto quella che incide sul nesso di causalità, come confermato anche dalla rilevabilità di ufficio di detto concorso (Cass. 2 marzo 2007 n. 4954) ed era del pari condivisa la distinzione tra l’ipotesi di cui all’art. 1227, comma 1 che pone un problema di causalità, da quella contemplata invece nel comma 2, che propone un problema di estensione del danno e non di causalità (cassazione 25 maggio 2010 numero 12.714 e 8 luglio 2010 numero 16.149). Pertanto, del tutto erroneamente la sentenza d’appello aveva ritenuto di escludere senz’altro la sussistenza dell’obbligo risarcitorio a carico del V., omettendo all’evidenza di considerare che la disposizione di cui all’art. 1227, comma 1, consente a tutto concedere una diminuzione del risarcimento del danno, in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, ma non certo di escludere, totalmente e per di più senza alcuna motivazione, la responsabilità risarcitoria di colui al quale comunque sia altresì ascrivibile l’aver innescato la serie causale produttiva del danno, cioè nella specie del V., il quale aveva pacificamente posto in essere le operazioni, della cui legittimità la stessa Corte territoriale aveva dato atto;

con il secondo motivo, in via alternativa rispetto al primo, la società ricorrente ha denunciato la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione – con riferimento all’art. 132 c.p.c., n. 4 – sulle ragioni tali da escludere la responsabilità risarcitoria del V.. Infatti, pur nel contesto di un’operatività illegittima da parte di quest’ultimo, pacificamente ritenuta tale dall’impugnata sentenza, non sarebbe dato comprendere su quale premessa la Corte d’Appello fosse pervenuta all’assunto di una responsabilità del V. “del tutto costruita”, avendo essa stessa ritenuto pacifico il compimento di operazioni irregolari da parte dello stesso dipendente. Dunque, sussisteva carenza o almeno radicale contraddittorietà della motivazione, con riferimento alla ritenuta assenza di qualsiasi responsabilità risarcitoria del V. per fatti che la stessa sentenza impugnata qualificava come di inadempimento da parte di costui;

con il terzo motivo è stata denunciata la nullità della sentenza impugnata per difetto assoluto di motivazione – art. 132 c.p.c., n. 4 – sui criteri in relazione ai quali nell’ambito della previsione di quell’art. 1227 c.c., comma 1, è possibile procedere alla diminuzione del risarcimento del danno – difetto assoluto di motivazione sul profilo della gravità della pretesa colpa della banca e del/e ipotetiche conseguenze della medesima e cioè sui parametri, che avrebbero dovuto condurre in ipotesi alla diminuzione – ed in nessun caso all’esclusione – del danno risarcibile a favore della Banca;

con il quarto motivo la società ricorrente ha censurato l’impugnata sentenza (ex art. 360 c.p.c., n. 5) per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla mancanza di qualunque informazione da parte V. ai suoi superiori circa l’operatività illegittima da lui posta in essere. Il giudice di primo grado, infatti, aveva osservato che il comportamento posto in essere dal convenuto non elideva, comunque, la responsabilità personale di tale dipendente, correlata anche alla sua elevata esperienza. Egli non aveva indicato chi a livello superiore avesse suggerito o imposto simili modalità operative, che evidentemente lo esponevano a notevoli rischi e responsabilità. Nelle dichiarazioni in data 29 marzo 2007, rese in fase cautelare, il V. non aveva in alcun modo affermato di aver riferito delle operazioni ai propri superiori e di averne ricevuto autorizzazioni esplicite o per contegno concludente. Neppure nelle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento disciplinare il V. aveva sostenuto la tesi coltivata in sede di appello. Infatti, la tesi della consapevolezza da parte dei superiori o addirittura dei vertici della banca era stata sostenuta con esclusivo riferimento alla elasticità concessa al G. in ordine alle posizioni di rischio, e non anche quanto alle operazioni prive di formalizzazione. Nessuna prova sul punto dell’eventuale informativa ai superiori era emersa anche nell’istruttoria espletata in appello. Ed era evidente la decisività del punto, il cui esame era stato omesso dalla Corte territoriale, perchè l’esistenza di eventuali informazioni da parte del V. ai superiori avrebbe potuto effettivamente fondare la tesi di una concorrente o addirittura prevalente responsabilità della Banca nella causazione del danno, tesi che restava, in difetto di questa premessa, priva di un fondamento logico-argomentativo diverso dal generico riferimento alla particolarità del cliente;

con il quinto motivo è stato denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dalla posizione in azienda ricoperta dal signor V. nell’ambito della Banca, il quale era preposto al settore commerciale estero della direzione territoriale corporate di Lecce, ciò che era stato enfatizzato anche dalla decisione di primo grado.

Tuttavia, la Corte territoriale aveva completamente omesso di esaminare questo aspetto della questione, tralasciando anche soltanto di menzionare nella parte argomentativa la posizione in azienda e la responsabilità funzionale del V.. Era, tuttavia, evidente la decisività di questo elemento di fatto, perchè in mancanza di qualsiasi deduzione ed acquisizione probatoria circa ipotetiche informazioni che il V. potesse aver dato ai suoi superiori circa l’irregolare operatività posta in essere, non essendo mai stato sostenuto, nè altrimenti affermato che i superiori avessero impartito al dipendente istruzioni o disposizioni nel senso di porre in essere la più volte menzionata illegittima operatività, l’elevata posizione funzionale del lavoratore fondava l’esistenza, anche in presenza di ipotetiche prassi, di autonomi obblighi a suo carico di condotta diligente ex art. 2104 c.c., comma 1 e art. 1176 c.c..;

tanto premesso, il ricorso va disatteso per le seguenti ragioni, dovendosi tra l’altro rilevare che parte ricorrente si è appena limitata ad accennare, a pag. 15 del proprio atto, alle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio di merito ex art. 669 octies c.p.c. (richiesta di risarcimento di tutti i danni conseguite alle gravissime violazioni dell’obbligo di diligenza cui deve uniformarsi ex art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2104 c.c. la prestazione del dipendente subordinato, onde ottenere una sentenza di condanna e quindi un titolo esecutivo per procedere alla conversione del sequestro conservativo ottenuto – ante causam – in pignoramento), alle conseguenti difese in tale giudizio di merito opposte dal resistente, nonchè all’appello quindi da quest’ultimo proposto avverso la sentenza pronunciata dall’adito giudice il 10 giugno 2011, tanto quindi in violazione delle prescrizioni invece imposte dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6 (per completezza, peraltro, va rilevato quanto dedotto da BMPS a pag. 4 e ss. circa il sequestro conservativo richiesto con ricorso ex art. 669-ter c.p.c. in data 30.9.2008, laddove a pag. 13 si faceva pure riferimento al procedimento disciplinare a carico del V., per cui quest’ultimo aveva replicato alle contestazioni disciplinari “confermando la complessiva operatività riferibile al G. (anche quella a pronti e a termini in sospeso in data 23.03.2007) e ribadendo… di aver sempre operato secondo gli input ricevuti dal cliente…”, giustificazioni ritenute implausibili dalla Banca, che quindi intimava licenziamento per giusta causa con lettera del 16.6.2008, recesso cui evidentemente si ricollega la sentenza di questa Corte n. 22025 del 14/07 – 28/10/2015, con la quale è stato poi respinto il ricorso avverso la pronuncia n. 659/2012 della CORTE d’APPELLO di LECCE, proposto da BANCA MONTE PASCHI SIENA contro V.P.A., laddove era stato rigettato il gravame spiegato nei confronti della decisione in data 6 novembre 2010, mediante cui il locale giudice del lavoro aveva dichiarato l’illegittimità del suddetto licenziamento il 16.6.08. La Corte territoriale, infatti, con la sentenza pubblicata il 19 marzo 2012, aveva ritenuto che nella specie, essendo tempestiva la richiesta di audizione personale da parte del lavoratore, l’impossibilità di effettuarla per il protrarsi dell’assenza per malattia dell’incolpato non esonerava l’Istituto di credito dall’obbligo di audizione del lavoratore, restando peraltro in tal caso giustificato l’eventuale ritardo nell’adozione della sanzione disciplinare, per giunta a fronte della valutazione, a parte della sentenza d’appello, della non esaustività delle difese scritte – derivante non solo dalla fissazione delle audizioni da parte della Banca, ma altresì dalla necessità di esaminare, da parte del dipendente che ne aveva fatto richiesta, la documentazione inerente la complessa contestazione disciplinare dunque della effettiva necessità di integrazioni nel rispetto del diritto di difesa);

a parte le anzidette carenze formali, inoltre, si richiamano integralmente le surriferite argomentazioni, di cui alla narrativa che precede, con le quali la Corte di merito, mediante la sentenza impugnata (l’unica processualmente qui rilevante ex art. 360 c.p.c., avendo il giudice di grado superiore pressochè integralmente riformato la gravata pronuncia di accoglimento), ha in effetti escluso specifiche e rilevanti inadempienze, poste a sostegno della pretesa risarcitoria azionata da BMPS, in tal senso dovendosi intendere la motivazione secondo cui in base all’accertato contesto fattuale risultava del tutto costruita la responsabilità del convenuto sulla base delle dedotte negligenze formali, sistematicamente non rispettate per le operazioni disposte nell’interesse dell’arch. G., donde pure la giudicata incongruenza del comportamento datoriale, che alla prima rimostranza del particolare cliente non aveva imputato a costui la perdita subita, ma alla responsabilità del dipendente, quindi non riconosciuta dalla Corte d’Appello;

la motivata (di certo non inferiore al minimo costituzionale occorrente ai sensi dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4) ricostruzione della vicenda nei termini di cui sopra, ad opera della Corte di merito, pertanto, non è ritualmente censurabile in questa sede di legittimità;

ne deriva, pertanto, la non pertinenza delle censure de quibus con riferimento alla denunciata violazione o falsa applicazione della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., la quale evidentemente presuppone una condotta colposa, ossia inadempiente, nella specie non ravvisata nei confronti del V. dalla Corte di merito, secondo cui, come si è visto, il comportamento del dipendente risultava in effetti conforme alla prassi aziendale attuata nei riguardi del più che particolare cliente senza alcuna formalità preventiva con la consapevolezza da parte dei vertici di tale prassi, donde la fittizia (costruita) responsabilità del lavoratore sulla base delle dedotte irregolarità, però sistematicamente non rispettate in relazione alle operazioni poste in essere dal G.;

nei sensi di cui sopra vanno, pertanto, disattesi i primi tre motivi di ricorso, e così pure dicasi in relazione alla quarta ed alla quinta doglianza, atteso a tal riguardo quanto per contro motivatamente accertato in punto di fatto dalla Corte di merito in relazione alla complessiva vicenda relativa ai rapporti intrattenuti dal suddetto più che particolare cliente con la Banca, della quale veniva quindi rilevata l’incongruenza (o incoerenza) per aver la stessa addossato al V. la responsabilità dell’accaduto soltanto in occasione alla prima rimostranza mossa dal G. per l’operazione (more solito da costui ordinata) non andata a buon fine, omettendo quindi di imputare allo stesso ordinante la conseguente perdita, attesa la surriferita speciale prassi aziendale, sistematicamente osservata (in tal senso dovendosi evidentemente intendere le argomentazioni svolte dalla sentenza d’appello, la quale, tra l’altro, nel descrivere l’iter processuale della causa faceva anche espresso riferimento alla specifica posizione rivestita dal V., quale “Preposto al Settore Commerciale estero della Direzione Territoriale Corporate di Lecce”, sicchè pure tale circostanza è stata valutata dalla Corte distrettuale);

dunque, pure la quarta e quinta censura risultano alla fine inconferenti ed infondate in relazione ai pretesi vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui anche il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360, n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014). Deve, invero, ricordarsi (cfr. Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/3/2007. V. inoltre Cass. III civ. n. 17611 del 27/04 – 5/7/2018: “… il giudice di merito non è tenuto a compiere in sentenza un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato,… le ragioni del proprio convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente. E, d’altra parte, come sopra rilevato, a questa Corte di legittimità è preclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova….”.

Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 8/5/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

Cass. lav. n. 13485 del 13/06/2014: in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. Conforme anche Cass. n. 16499 del 2009.

Cass. lav. n. 13054 del 10/06/2014: in tema di procedimento civile, sono riservate ai giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice. In senso conforme, v. tra le altre Cass. II civ. n. 21187 – 8/8/2019);

il rigetto delle varie doglianze mosse da parte ricorrente comporta la condanna della soccombente al rimborso delle relative spese, con distrazione a favore del procuratore anticipatario;

stante, infine, l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono i presupposti processuali per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro =12.000,00= (dodicimila/00) per compensi professionali ed in Euro =200,00= (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con attribuzione all’avv. Aldo Licci, procuratore anticipatario costituito per il controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2020

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