Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18132 del 31/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 31/08/2020, (ud. 25/09/2019, dep. 31/08/2020), n.18132

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22101-2015 proposto da:

A.D.V.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELLE MILIZIE 76, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA

INFASCELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato ALBERTO CASSINI;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA MAZZINI 27, presso lo STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS,

rappresentata e difesa dall’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 538/2014 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 13/04/2015 r.g.n. 98/2012.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

 

Fatto

RILEVA

che POSTE ITALIANE S.p.a. appellava la sentenza del Tribunale di Pordenone n. 31 in data 24 – 25 marzo 2011, che sul ricorso presentato il 31 maggio 2007 dalla sig.ra A.D.V.R., aveva accertato e dichiarato la responsabilità della convenuta società ex art. 2087 c.c. nella causazione dell’infermità psicofisica lamentata dall’attrice, condannando quindi la resistente POSTE ITALIANE a corrispondere alla A. a titolo di risarcimento danni la somma di Euro 86.498, nonchè la stessa convenuta al rimborso delle spese di lite all’uopo complessivamente liquidate in Euro 9000,00;

la Corte d’Appello di Trieste con sentenza n. 538 in data 4 dicembre 2014, pubblicata il 13 aprile 2015, in accoglimento dell’interposto gravame rigettava la domanda di parte attrice, con conseguente riforma dell’impugnata pronuncia, e dichiarava interamente compensate tra le parti le spese processuali relative ad entrambi i gradi del giudizio, ponendo gli oneri dell’espletata c.t.u. a carico di entrambe le parti per la giusta metà ciascuna. Condannava di conseguenza la signora A.D.V. a restituire alla società appellante quanto già percepito in forza della gravata sentenza, oltre interessi legali dal giorno dell’intervenuto pagamento al saldo;

Secondo la Corte d’Appello nella fattispecie operava il principio di diritto, affermato da Cass. lav. n. 2038 del 29/01/2013, secondo cui l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Nè la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilisticì. Di conseguenza, secondo la Corte triestina, nel caso di specie non era ravvisabile da parte della società convenuta alcun comportamento, cui potesse concretamente ascriversi per violazione dell’art. 2087 il deterioramento delle condizioni di salute lamentato dalla ricorrente, prodottosi e manifestatosi benchè anche in occasione ed in correlazione con l’attività lavorativa da lei espletata, ma senza che ciò potesse configurare una qualche responsabilità risarcitoria a carico della società. Non si rinveniva, cioè, nel caso in esame un’infermità psicofisica etiologicamente riconducibile alla violazione da parte datoriale di specifici obblighi di comportamento imposti dalla legge o comunque suggeriti – nella più generale ottica della tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore – da conoscenze sperimentali o tecniche, ovvero da criteri organizzativi e gestionali idonei a meglio tutelare la salute, fisica e psichica. Premesso, infatti, che POSTE ITALIANE aveva pur sempre offerto alla lavoratrice una diversa collocazione – quand’anche cioè non adeguatamente provata in termini documentali quella relativa all’ufficio di (OMISSIS), assumeva comunque rilievo quella riferita agli uffici di (OMISSIS) o di (OMISSIS) -, e che non poteva certo configurarsi un diritto ad ottenere l’assegnazione alla sede di gradimento ovvero la fruizione di un part-time nelle forme,-nei termini prescelti, nella fattispecie veniva senz’altro in rilievo anche il principio, precisato da Cass. 30 agosto 2000 n. 11427, secondo cui il dovere del datore di lavoro – enucleabile dagli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c. riguardo alla tutela della salute del lavoratore e da un’interpretazione del contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede ex art. 1375 c.c. – di adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta ad altre mansioni compatibili con la propria capacità lavorativa, non attribuiva al lavoratore il diritto ad essere assegnato a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali era stato assunto, con la necessaria adozione da parte datoriale di modifica dell’assetto organizzativo implicanti ampiamente organico o innovazioni strutturali.

Non poteva dunque essere condivisa la tesi secondo cui la responsabilità ex art. 2087 c.c. deriverebbe dalla mancata predisposizione presso la succursale n. (OMISSIS) di “… Un adeguamento dell’organico volto ad assicurare livelli compensativi di produttività”, in quanto la diversa scelta organizzativa adottata dal datore di lavoro – di per sè nè irrazionale nè priva di giustificazione – non presentava comunque nei confronti della A. un’efficacia causale che potesse giuridicamente assumere valenza risarcitoria in relazione al deterioramento delle condizioni di salute lamentato dall’interessata. Infatti, secondo la Corte distrettuale, pur non potendosi obiettivamente negare che quell’ufficio postale si fosse trovato ad operare, nell’arco di tempo considerato, in gravose condizioni di carichi di lavoro, a conforto delle argomentazioni liberatorie dedotte dalla società appellante risultavano decisive le circostanze – tanto di carattere oggettivo, quali la realtà operativa della succursale, quanto di carattere soggettivo come le condizioni ed il modus operandi della sig.ra A. – esposte nelle deposizioni rese nel secondo grado del giudizio (cfr. più ampiamente l’impugnata sentenza, laddove si precisava il disposto nuovo esame testimoniale pure di A.G.) dai testi G.M. (responsabile dal 2001 al 2012 della gestione di Poste Italiane in Pordenone, quindi ritenuta dal collegio d’appello pienamente a conoscenza anche della realtà operativa di Pordenone 3, la quale ricordava, tra l’altro, di avere pure raccolto lamentele sulla pesantezza del lavoro ivi svolto, per cui ebbe anche a recarsi presso quella succursale al fine di rendersi conto della situazione, ritenendo tuttavia che il suo parametro di riferimento rimaneva essenzialmente quello numerico, basato cioè sui dati contabili della succursale, che non giustificavano quindi l’incremento dell’organico colà operante) e C.V.. Anche quest’ultimo, già direttore dell’ufficio postale presso cui era in servizio la signora A., infatti, meglio puntualizzando talune disastrose situazioni di quella succursale esposte nella deposizione già rese in primo grado, aveva dichiarato che il passaggio di POSTE ITALIANE a società privata segnò indubbiamente delle difficoltà operative. In questo contesto il personale subì un evidente contraccolpo che per taluno dei dipendenti fu più stressante. Tra questi in particolare ricordava lo stato d’animo della signora A.R., che si dimostrava palesemente a disagio di fronte alle novità. Ella era molto pignola nel suo lavoro e questa caratteristica la portava a soffrire maggiormente i ritmi più pressanti. La lavoratrice non aveva mai rivolto formali proteste, ma a tutti i colleghi che la conoscevano risultava chiara la sua situazione di disagio. Tale situazione si era accentuata allorchè l’organico della filiale era stato ridotto da quattro operatori a tre, più il direttore, nel senso che era venuto a mancare, specie per la signora A., quel supporto che poteva derivarle da un’unità aggiuntiva, come era avvenuto in passato. Le difficoltà della A. erano nate sia a fronte della riduzione degli operatori, ed a maggior ragione quando vi era un’applicazione all’esterno, ma anche della eterogeneità dei nuovi compiti commerciali che POSTE ITALIANE aveva iniziato a svolgere. Ad ogni modo, il teste ricordava che, pur a fronte di questo aggravio di lavoro nessuno degli operatori chiese il trasferimento ad altra filiale, eccezion fatta per la signora F., ma per ragioni dal teste non conosciute. Già in passato la signora A. era più bisognosa di aiuto rispetto agli altri. Indubbiamente prima che lei si ammalasse l’integrità dell’organico consentiva alla predetta di dedicarsi a quei servizi, di sportello, in cui era più versata e capace.

Pertanto, dal così integrato quadro istruttorio – nel cui contesto la documentazione prodotta in appello da POSTE ITALIANE, su invito della Corte, concorreva nel comprovare che l’organico del personale addetto alla succursale 3 era del tutto coerente con quello degli altri uffici postali di analoghe dimensioni di impegno – emergeva come nessun inadempimento fosse riscontrabile da parte datoriale rispetto ai diritti della lavoratrice. Era ragionevole ritenere piuttosto che lo stress lavorativo da lei progressivamente patito fosse connesso ai significativi cambiamenti che l’attività stessa di POSTE ITALIANE aveva fatto registrare sia in seguito della privatizzazione, sia per la nuova tipologia dei servizi offerti, sia infine ma non secondariamente per la diversa strutturazione dell’organizzazione dell’attività dei singoli uffici, che non consentiva più all’ A. di fruire di quel sostegno e di quel riparo che il precedente assetto della succursale le aveva fornito. Circostanze, tutte queste, che peraltro nulla rilevavano rispetto alla previsione di cui all’art. 2087 c.c.;

avverso la pronuncia d’appello ha proposto ricorso per cassazione la signora A.D.V.R. (nata il 9 giugno 1949), come da atto notificato il 7 settembre 2015, affidato ad un unico articolato motivo, cui ha resistito POSTE ITALIANE S.p.A. mediante controricorso del 15 ottobre 2015;

di seguito agli avvisi ritualmente comunicati alle parti tramite posta elettronica certificata in data 5 giugno 2019, per l’adunanza in camera di consiglio del collegio, fissata al 25 settembre 2019, la società controricorrente ha depositato il 16 settembre 2019 (lunedì) memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’anzidetto unico articolato motivo la ricorrente ha denunciato violazione o comunque falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè contestualmente omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, n. 5, ed ancora violazione o comunque falsa applicazione dei canoni di ermeneutica ex art. 1362 c.c., nonchè infine irriducibile contraddittorietà della motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. In proposito si è sostenuto che la stessa Corte d’Appello non aveva negato che quell’ufficio postale si fosse trovato ad operare nell’arco di tempo in esame in gravose condizioni di carico di lavoro. La Corte distrettuale, pur riconoscendo comunque la gravità della situazione, non ne aveva tuttavia approfondito l’incidenza sul personale, omettendo quindi di valutarne le conseguenze derivatene per la A., anch’esse provate mediante istruttoria testimoniale e perizie mediche. Nemmeno era stata affrontata la responsabilità di POSTE ITALIANE per aver omesso qualsiasi intervento rispetto alle ripetute accorate segnalazioni del personale. Tanto comportava la violazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 2697 c.c. sull’onere della prova. Quanto, poi, all’omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, le acquisizioni istruttorie, ossia le testimonianze rese dai signori P., C., M. e A., offrivano un quadro coerente della drammatica situazione nella succursale di (OMISSIS), che coinvolgeva tutto il personale, non solo la ricorrente, ma che era stato completamente ignorato dalla Corte territoriale. Era innegabile che nella fase di transizione attraversata da POSTE ITALIANE, per lo svolgimento di servizi anche finanziari, tutti gli uffici avevano dovuto affrontare uno stato di emergenza, donde una situazione generalizzata al riguardo. Ad ogni modo, il teste C. precisò che nell’anno 2000 nelle succursali periferiche cominciò a far capo la distribuzione delle raccomandate degli atti giudiziari, lavoro che impegnava un’unità pressochè a tempo pieno.

Nel caso specifico della succursale di (OMISSIS) le condizioni di lavoro erano aggravate dall’inadeguatezza dell’organico. Il carico di lavoro nell’arco del tempo considerato era progressivamente aumentato, ma la direzione provinciale distribuiva il personale a sua discrezione e ciò comportava la sottrazione per comando di personale anche nella anzidetta succursale, per cui il suo direttore si indusse a fare rimostranze verbali e per iscritto. Il teste C. dichiarò, inoltre, di aver constatato che il personale sottrattogli per comandi temporanei veniva talora impegnato in altre succursali, che avevano minor carico di lavoro. Dichiarò che egli stesso in quella succursale si era dovuto assentare a causa dello stress per circa una ventina di giorni e che in quella stessa succursale, n. 3, tutto il personale era sotto stress ed operava in una condizione da lui definita inumana. Analoghe conferme erano state fornite dalla teste M.M.. Di conseguenza, i suddetti C. e M. si risolsero ad anticipare il loro pensionamento. Analogamente la direttrice A. anticipò il pensionamento, in quanto ammalatasi di polmonite atipica, il cui insorgere venne diagnosticato come conseguenza da stress lavorativo. Il direttore C. aveva, inoltre, dichiarato che nonostante l’incremento di lavoro, se fossero rimasti in 4 più esso teste, gli addetti avrebbero ragionevolmente potuto sostenere l’aggravio ricorrendo allo straordinario (udienza 6 maggio 2014, mentre all’udienza del 9 settembre 2009 aveva dichiarato che il personale della succursale n. 3 svolgeva il massimo degli straordinari, ma non si riusciva a reggere il carico di lavoro). Secondo la ricorrente, le anzidette emergenze testimoniali erano state del tutto ignorate della sentenza di appello, che aveva attribuito invece decisiva ed assorbente rilevanza alla teste G., secondo la quale l’anzidetta situazione derivava da incapacità organizzative e non da carenza di organico, mentre erano state del tutto trascurate le dichiarazioni rese in primo grado dal teste C.. La G., però, non aveva mai lavorato nella succursale n. (OMISSIS), per cui nulla aveva saputo riferire di preciso al riguardo. Nè era a conoscenza delle rimostranze provenienti dal responsabile della direzione di quella succursale, poichè all’epoca si occupava di altro. Neppure era stata in grado di riferire su straordinari ed eventuali contenziosi da parte della ricorrente. Per contro, la Corte di Appello aveva ritenuto la teste G. pienamente a conoscenza della realtà operativa di (OMISSIS), senza considerare le dichiarazioni completamente diverse rese dalla stessa in primo grado, allorchè in particolare aveva escluso di essersi mai recata a (OMISSIS), tranne che per due giorni in funzione di istruttore, peraltro in epoca anteriore ai fatti di causa. La Corte distrettuale non si era neppure posto il problema di queste palesi e smaccate contraddizioni. Il giudizio sull’attendibilità della teste non poteva prescindere dall’indicare le ragioni del convincimento sulla reputata decisività. Nel caso di specie la motivazione su questo rilevante aspetto mancava completamente, ciò in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Pertanto, una volta assodato che le lamentele de quibus erano fondate, in base all’istruttoria testimoniale dalle risultanze documentali, il comportamento omissivo della G. andava valutato ai fini dell’art. 2087 c.c., poichè quest’ultima avrebbe dovuto comunque inoltrare alla competente direzione la ininterrotta sequela di segnalazioni circa l’insostenibile carico del lavoro e l’inadeguatezza dell’organico, che mettevano a repentaglio la salute del personale. Sussisteva, quindi, una manifesta responsabilità datoriale, già evidenziata nella memoria compendiaria di secondo grado, mentre POSTE ITALIANE si era difesa sostenendo essersi trattato semplicemente di una fase transitoria di emergenza.

Vi era, inoltre, una insanabile contraddizione nella sentenza impugnata, vizio afferente alla motivazione ed emergente dal testo del provvedimento impugnato, perciò sindacabile ex art. 360 c.p.c., n. 5, traducendosi in un vizio di motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4. Infatti, da un lato la Corte distrettuale aveva affermato che vi era inadeguatezza organizzativa ed incapacità del personale, dall’altro aveva invece ritenuto non imputabile a POSTE ITALIANE alcuna responsabilità omissiva per essersi astenuta dall’intervenire. Ammesso, infatti, che vi fosse inadeguatezza degli addetti nella succursale di (OMISSIS), il datore di lavoro aveva l’obbligo di ovviarvi. Il teste C.V. aveva tra l’altro dichiarato all’udienza del 9 settembre 2009 che le sue rimostranze non ottennero mai positivo riscontro da parte della direzione provinciale finchè egli rimase alla direzione della succursale, cioè fino all’aprile dell’anno 2002, per cui la situazione rimase drammatica, anche per effetto di irrazionali distacchi che venivano ad incidere, aggravandola ulteriormente, sulla denunciata carenza di organico. Nella stessa udienza la teste M. aveva ricordato che con i colleghi aveva fatto presente in lettere dirette alla direzione provinciale che non potevano andare avanti in questo modo perchè si stavano ammalando. A conferma che ne era coinvolto tutto il personale e che non si trattava, quindi, di un caso circoscritto alle condizioni di salute della signora A.. Alla luce delle univoche dichiarazioni testimoniali citate dalla ricorrente, emergeva ad avviso di quest’ultima che nella anzidetta succursale – per l’aumentata mole di lavoro e per la contestuale improvvida riduzione dell’organico – rimasero penalizzati soprattutto coloro come la signora A., ai quali erano affidate per l’esperienza le più onerose incombenze. Da questo quadro – frutto della coerente ricostruzione effettuata mercè l’istruttoria testimoniale – derivava la responsabilità di POSTE ITALIANE ex art. 2087 c.c.. Infatti, non solo non venne integrato l’organico già carente, ma addirittura vi fu sottrazione di personale con i distacchi. Andava, inoltre, rimarcata l’ostentata indifferenza di fronte alle segnalazioni verbali scritte, cui non venne dato mai riscontro. Erano, dunque, questi i profili di colpa che andavano imputati alla società POSTE ITALIANE, il cui onere probatorio, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, non era stato minimamente assolto salvo l’affermazione della teste G. resa nell’anno 2014, quindi a distanza di 11 anni dai fatti di causa, secondo la quale attualmente quella sede non presentava più problemi.

L’anzidetto quadro istruttorio era stato completamente ignorato dalla Corte distrettuale, che aveva del pari ignorato le acquisizioni documentali integranti le testimonianze riportate con conseguente omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5 emergente dagli atti processuali. Peraltro, nel corso della deposizione resa all’udienza del 6 maggio 2014, la teste A. aveva dichiarato di aver rinvenuto corrispondenza concernente la vicenda in esame, corrispondenza quindi acquisita dalla Corte con relativa allegazione al verbale, salvo poi a ignorarla del tutto nella sentenza impugnata (missive del 2 ottobre 2002, del 3 agosto 2002 ed ancora dell’8 novembre 2003, laddove venivano evidenziati i ritmi lavorativi dell’ufficio tali da ripercuotersi negativamente sulla salute, come pure ribadito nella missiva del 29 dicembre 2005). Le anzidette segnalazioni avevano poi trovato coerente riscontro nella relazione peritale dello psicoterapeutica Dott. R., il quale accettò un grave stato depressivo contratto in servizio e a causa di servizio. Ad identiche conclusioni era anche pervenuto il c.t.u., secondo il quale il fattore stressante risultava essere contesto lavorativo nel corso degli anni 1998 – 2002, giusta la relazione peritale del 17 marzo 2010, laddove il disturbo sofferto dalla signora A. era valutabile come danno biologico di natura psichica etiologicamente riconducibile ad affaticamento dell’attività lavorativa – conclusioni che avevano trovato pure la sostanziale condivisione dei consulenti di parte. Pertanto, anche queste emergenze peritali concorrevano ad offrire un quadro fattuale di assoluta coerenza decisività, però completamente ignorato nella sentenza impugnata. Peraltro, all’udienza del 6 maggio 2014 la stessa Corte invitò la società appellante a fornire documentazione atta a riscontrare i criteri di classificazione la succursale (OMISSIS) nonchè gli elementi comparativi utilizzati per tale classificazione, richiesta cui non venne però dato corretto riscontro. Infatti, fu prodotto uno studio elaborato nell’anno 2003, quando ormai la ricorrente era stata collocata in quiescenza, con riferimento ad una classificazione delle filiali risalente all’anno 2004, applicata poi l’anno successivo. Pertanto, si trattava di dati assolutamente irrilevanti in quanto non concernenti l’epoca dei fatti di causa (1999/2002), come in proposito anche richiesto dalla stessa Corte d’Appello. Infatti, in data 15 luglio 2014 furono prodotte le tabelle dei criteri per la classificazione degli uffici postali, risalenti al 22 gennaio 2003, ai quali si sarebbero dovute attenere in seguito le direzioni periferiche. Inoltre, in pari data furono depositate le tabelle riportanti esclusivamente le presenze in servizio del personale in alcune succursali, senza alcun riferimento al carico di lavoro e senza alcun altro dato che consentisse di verificare l’adeguatezza della dotazione organica di quegli uffici alle incombenze di cui gli stessi erano in concreto gravati con riferimento agli anni dal 1999 al 2002. Ciononostante, la Corte territoriale aveva ritenuto la documentazione prodotta da parte appellante utile a comprovare che l’organico del personale addetto alla succursale 3 era del tutto coerente con quello degli altri uffici postali di analoghe dimensioni ed impegno. Tale interpretazione dei documenti prodotti da POSTE ITALIANE era dunque viziata per violazione dei canoni legali di ermeneutica, non avendo la Corte d’Appello tenuto conto dell’elemento testuale ai sensi dell’art. 1362 c.c., ed avendovi, invece, attribuito un contenuto stridente con l’evidenza letterale e con i dati cronologici, vizio denunciabile anche in relazione ad atti unilaterali quali i documenti in parola depositati da POSTE ITALIANE.

Altro vizio, inficiante l’impugnata sentenza, riguardava l’affermazione, secondo cui POSTE ITALIANE aveva pur sempre offerto alla A. una diversa collocazione lavorativa, non sussistendo comunque il diritto del lavoratore ad essere assegnato a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali egli è stato assunto. Nel caso di specie tale rilievo era del tutto arbitrario, non essendo stata mai avanzata una richiesta di tal genere dalla signora A.. Quanto, poi, alla proposta di trasferimento della succursale di (OMISSIS), il relativo documento fu depositato da parte resistente soltanto all’atto della sua costituzione in giudizio, ma già in primo grado fu ribadito che tale missiva non era mai pervenuta alla lavoratrice, mancando quindi ogni prova sul punto. Di conseguenza, stante l’irrilevanza di quel documento non andava neppure citato in sentenza. Parimenti, il prospettato trasferimento a (OMISSIS) (14 km da Pordenone) e a (OMISSIS) (10 km di distanza), non poteva assumere alcun rilievo, trattandosi di trasferimento in sedi esterne, vietato e dalla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 4, nel caso di dipendente, come la A., che prestava assistenza alla madre disabile, circostanza quest’ultima del tutto pacifica in atti e confermata anche dalla teste P.. La tesi, secondo cui alla richiesta di part-time sarebbe stato dato positivo riscontro con le anzidette proposte, donde il difetto di colpevole inerzia da parte datoriale, si fondava dunque su di un documento non ricevuto e su di una proposta vietata dalla normativa vigente. Pertanto, sussisteva duplice violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3: non era stato soddisfatto l’onere della prova circa l’effettiva comunicazione alla destinataria, in violazione dell’art. 2697 c.c., risultava altresì violato la L. n. 104 del 1992, il succitato art. 33, comma 4;

tanto premesso, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso, inteso evidentemente nel sua complessiva formulazione (dove tra l’altro risultano promiscuamente denunciati diversi vizi tra quelli contemplati dall’art. 360 c.p.c.) a contestare la ricostruzione fattuale della vicenda di cui è processo differentemente da quanto in proposito ritenuto dalla Corte di merito, con la surriferita lineare e più che adeguata motivazione, ciò che come è noto non è consentito in questa sede di legittimità. Sono, dunque, palesemente inammissibili le doglianze mosse, anche laddove rilevanti ex art. 360 c.p.c., n. 4 circa eventuali errores in procedendo, per violazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., visto che ad ogni modo la censura sul punto non è stata univocamente formulata in termini di nullità, nonchè per difetto dei requisiti richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, non essendo stati, d’altro canto, forniti idonei elementi di cognizione da cui poter rilevare, eventualmente, i vizi ivi denunciati, mancando sufficiente e compiuta riproduzione degli atti processuali di riferimento;

inammissibili sono, invero, le doglianze mediante cui in effetti la ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda dell’attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento. Pretesa tanto più nella specie non consentita nella specie, laddove operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360, n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014). Deve, invero, ricordarsi (cfr. Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007. V. inoltre Cass. III civ. n. 17611 del 27/04 – 05/07/2018: “… giudice di merito non è tenuto a compiere in sentenza un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato,… le ragioni del proprio convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente. E, d’altra parte, come sopra rilevato, a questa Corte di legittimità è preclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova….”.

Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 8/5/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. Cfr. altresì Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – art. 2697 ss. – poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere., non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Cass. lav. n. 13485 del 13/06/2014: in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. Conforme anche Cass. n. 16499 del 2009.

Cass. lav. n. 13054 del 10/06/2014: in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice. In senso conforme, v. tra le altre Cass. II civ. n. 21187 – 8/8/2019);

d’altro canto, va ricordato, in particolare, come la responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., non sia di natura oggettiva, sicchè il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per sè l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro, nella specie mancata, così come per altro verso nemmeno risulta dimostrato alcun particolare inadempimento rilevante ex art. 2103 c.c. (cfr., tra le altre, Cass. lav. n. 2038 del 29/01/2013: l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. L’ambito dell’art. 2087 c.c. riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici. In senso analogo v. altresì Cass. lav. n. 3786 del 17/02/2009. Allo stesso modo si è pronunciata, in motivazione, la sentenza di Cass. lav. n. 2251 in data 17/11/2011 – 16/02/2012: “…La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 è di natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, sul lavoratore che lamenti di aver subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza del danno e la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (giurisprudenza costante, v. da ultimo Cass. 17.02.09 n. 3788)….”. V. ancora Cass. lav., ordinanza n. 24742 pubblicata in data 08/10/2018, secondo cui l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Similmente Cass. lav., sent. n. 14066 – 23/05/2019: la responsabilità dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2087 c.c., non è oggettiva, bensì fondata sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purchè concretamente individuati. Ne consegue che va esclusa la possibilità di ricavare dalla norma citata l’obbligo del datore di adottare ogni cautela possibile ed innominata, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a prevenire ogni evento lesivo. Ed in precedenza Cass. lav. n. 11427/2000 cit. aveva altresì sentenziato che il dovere del datore di lavoro – enucleabile dagli obblighi impostigli dall’art. 2087 c.c. e dai principi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1375 c.c. – di adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la sua capacità lavorativa, non attribuisce al lavoratore il diritto ad essere assegnato a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali è stato assunto, con la necessaria adozione da parte del datore di lavoro di modifiche dell’assetto organizzativo implicanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali. Conforme Cass. lav. n. 17125 del 3/12/2002);

l’inammissibilità delle varie doglianze mosse da parte ricorrente comporta la condanna della soccombente al rimborso delle relative spese;

stante, infine, l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono i presupposti processuali per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della sola parte controricorrente in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2020

 

 

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