Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18096 del 31/08/2020

Cassazione civile sez. VI, 31/08/2020, (ud. 16/06/2020, dep. 31/08/2020), n.18096

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17308-2019 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

GIANLUCA PAGLIA;

– ricorrente –

contro

R.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 58,

presso lo studio dell’avvocato ROMANO CERQUETTI, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ANTONIO FRANCO SARZI AMADE’;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1977/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 19/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 16/06/2020 dal Consigliere Relatore Dott. STEFANO

GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

– che P.P. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 1977/18, del 19 luglio 2018, della Corte di Appello di Bologna, che – respingendo il gravame da essa esperito avverso la sentenza n. 1374/12, del 24 ottobre 2012, del Tribunale di Parma – ha confermato il rigetto della sua domanda risarcitoria, in relazione a sei episodi di molestia telefonica subiti, la cui responsabilità l’odierna ricorrente addebita ad R.A., ponendo, inoltre, a carico dell’attrice/appellante anche le spese del secondo grado di giudizio;

– che, in punto di fatto, la ricorrente – nel premettere di essere stata destinataria, tra il 2000 ed il 2001, di lettere anonime dal contenuto osceno, oltre che di ripetute telefonate mute (e, in un’occasione, anche di una telefonata in cui una persona di sesso maschile, non identificatasi, le rivolgeva dei “complimenti di tenore pesante”) – conveniva in giudizio il R., sul presupposto che, il 30 aprile 2001, dall’utenza telefonica intestata al di lui padre (all’epoca deceduto, ed il cui nucleo familiare era costituito esclusivamente dalla moglie e, appunto, dal figlio A.), risultavano provenire sei telefonate, tra le ore 18.48 e le ore 22.11, cinque delle quali mute ed una, invece, nel corso della quale alla donna erano state rivolte frasi ingiuriose;

– che la provenienza delle telefonate da detta utenza risultava dall’acquisizione dei tabulati telefonici, disposta dall’autorità giudiziaria a seguito della denuncia, contro ignoti, presentata dalla P. per il reato di cui agli artt. 81 e 660 c.p.;

– che, pertanto, in relazione agli episodi del 30 aprile 2001, veniva emesso dal Tribunale parmense decreto penale di condanna a carico del R., dal medesimo opposto con contestuale domanda, accolta, di estinzione del reato mediante oblazione;

– che radicato, su tali basi, il giudizio risarcitorio (sempre in relazione alle sei telefonate del 30 aprile 2001), la domanda della P. veniva respinta dal primo giudice, per difetto di prova circa l’identificazione del R. quale autore dell’illecito;

– che esperito gravame dall’attrice/soccombente, il giudice di appello lo respingeva, confermando l’impossibilità di ravvisare nel R. l’autore delle molestie;

– che a tale esito la Corte territoriale perveniva avendo ritenuto priva di riscontro, sul piano probatorio, l’ipotesi che egli fosse il solo uomo a frequentare l’abitazione (sebbene ivi residente) cui corrispondeva l’utenza telefonica di provenienza delle chiamate, in quanto tale circostanza – che sarebbe stata riferita dalla madre dell’uomo, sentita telefonicamente sul punto, dalla Questura di Parma – non era stata confermata, in sede testimoniale, nè dalla donna nè dal pubblico ufficiale che avrebbe raccolto la sua dichiarazione;

– che, d’altra parte, al medesimo esito – secondo il giudice di appello – ha concorso la conclusione della perizia grafologica, formulata nel procedimento penale relativo alle lettere anonime, secondo cui era da escludere che le missive potessero essere riferite alla mano del R.;

– che avverso la decisione della Corte felsinea ricorre la P. sulla base – come detto – di due motivi;

– che primo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver operato “un travisamento nella valutazione degli elementi probatori” ed essere incorsa in “una contraddizione nel ragionamento”;

– che, infatti, le circostanze dedotte dall’odierna ricorrente risulterebbero “provate sia documentalmente (tabulati telefonici) che con prova orale”, rilevando, in tale ultima prospettiva, quanto riferito dal teste B.E., che ebbe a confermare come la P., nella giornata del 30 aprile 2001, ricevette ben sei telefonate, cinque delle quali senza che nessuno parlasse all’apparecchio dall’altra parte, mentre nella restante egli udì – avendo preso il telefono – una frase oscena rivolta all’indirizzo della sua allora fidanzata (ed oggi moglie);

– che sarebbe stato, in questo modo, violato l’art. 2697 c.c., essendo la giurisprudenza di questa Corte costante nel ritenere che “l’onere della prova gravante su chi agisce o resiste in giudizio non subisce deroghe nemmeno quando abbia ad oggetto fatti negativi; tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 13 giugno 2013, n. 14854);

– che a conferma della contraddittorietà della sentenza impugnata la ricorrente evidenzia come essa “con una medesima argomentazione logico-giuridica sia pervenuta a conclusioni difformi e contrastanti”, visto che, da un lato, ha escluso la responsabilità del R., in merito all’invio delle missive anonime, sul rilievo che la perizia calligrafica espletata in sede penale avesse espresso un giudizio di “improbabilità” circa la paternità delle stesse in capo al convenuto, ritenendo, dall’altro, che anche le telefonate potessero “solo potenzialmente (ergo probabilmente) riferirsi al convenuto”, affidandosi, così, al “medesimo canone di giudizio (la probabilità), per giungere tuttavia a due risultati totalmente differenti, contraddicendosi sul piano logico argomentativo”;

– che il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in quanto la Corte di Appello, come il giudice di primo grado, avrebbe dovuto compensare le spese di giudizio, visto che le circostanze emerse non escludono la responsabilità di parte convenuta;

– che il R. ha resistito, con controricorso, alla proposta impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità (sia per difetto del requisito dell’autosufficienza, sia perchè le doglianze formulate maschererebbero una censura di merito pieno della sentenza), o comunque il rigetto, per non la fondatezza dei motivi, essendo la sentenza congruamente motivata;

– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, inizialmente per il 26 marzo 2020 e, poi, per il 16 giugno 2020.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

– che il ricorso – anche a prescindere dai dubbi sull’esistenza di valida procura speciale, alla stregua del principio secondo cui, in caso di procura rilasciata su foglio separato e non in calce al ricorso, la presenza di espressioni incompatibili con la specialità richiesta, nonchè dirette, piuttosto, ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali, esclude che sussista valida procura ex art. 365 c.p.c. (da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord. 5 novembre 2018, n. 28146, Rv. 65151501; Cass. Sez. 6-3, ord. 24 settembre 2017, n. 18257, Rv. 645155-01) – è inammissibile in ciascuno dei due motivi in cui si articola;

– che il primo motivo si risolve, nella sostanza, nella (duplice) censura di “un travisamento nella valutazione degli elementi probatori” e di “una contraddizione nel ragionamento” svolto dalla Corte territoriale, evenienze del tutto estranee al denunciato vizio di violazione dell’art. 2697 c.c., che “è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5)” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01);

– che, nella specie, la sentenza impugnata – con valutazione non sindacabile in questa sede, se non alle condizioni di cui si dirà (non soddisfatte, però, dal presente ricorso) – ha ritenuto non esservi prova che le telefonate anonime, sebbene provenienti dall’utenza corrispondente all’abitazione del R., potessero essere al medesimo addebitate, giungendo a tale conclusione sulla base dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie, e senza operare alcuna inversione dell’onere della prova, incombendo, infatti, su chi agisce in giudizio la dimostrazione dell’esistenza non solo di una condotta illecita (nella specie, le molestie telefoniche), ma anche la riferibilità della stessa al soggetto convenuto in giudizio;

– che non sussiste neppure la denunciata contraddittorietà nel ragionamento della Corte felsinea, visto che essa – diversamente da quanto lamentato – non si è affidata al criterio della probabilità, per valutare l’invio delle lettere anonime e il compimento delle molestie telefoniche, facendone una applicazione “contraddittoria”;

– che, infatti, la sentenza impugnata – con valutazione, semmai, convergente – ha, per un verso, affermato che nessuna delle chiamate all’apparecchio telefonico dell’appellante “risulta in alcun modo attribuibile, nemmeno potenzialmente, all’appellato”, così come, per altro verso, ha ritenuto che la perizia grafologica, espletata in sede penale sulle missive dal contenuto osceno indirizzate alla P., avesse “escluso la riferibilità di esse alla mano dell’appellato”;

– che su tali basi, pertanto, il giudice di appello è pervenuto alla conclusione della “insufficienza del quadro probatorio offerto dall’appellante – su cui ricade (val in via esclusiva ed integrale il relativo onere – in ordine all'”an” della dedotta responsabilità dell’appellato”;

– che, in definitiva, l’unico profilo di doglianza astrattamente idoneo a censurare l’apprezzamento delle risultanze istruttorie, operato dal giudice di appello, avrebbe potuto consistere, in ipotesi, nella violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., per non aver esso tratto da una di quelle risultanze istruttorie (ed esattamente, l’essersi susseguiti il 30 aprile 2001, e per giunta in orario serale, ben sei telefonate, provenienti dall’abitazione del R.) un ragionamento inferenziale che esso avrebbe potuto, invece, trarre;

– che è, questa, difatti un’evenienza – come già affermato da questa Corte – “deducibile senza dubbio come vizio di falsa applicazione delle norme degli artt. 2727 e 2729 c.c., in quanto nella motivazione della sentenza di merito si coglie e, quindi si denuncia, un’argomentazione motivazionale espressa con cui il giudice violando alcuno dei paradigmi dell’art. 2729 c.c. si rifiuta erroneamente di sussumere la vicenda fattuale (assunta proprio come egli l’ha individuata) sotto la norma stessa e, quindi, di applicare una presunzione che doveva applicare”, risultando, così, integrata un’evenienza che “è perfettamente speculare” a quella “in cui il giudice di merito abbia in positivo applicato una presunzione in violazione dei detti paradigmi”, sicchè il “rifiuto espresso e motivato di individuare una presunzione “hominim va trattato, dunque, allo stesso modo dell’applicazione di una presunzione senza rispetto dei paradigmi normativi indicati dall’art. 2729 c.c.”, visto che in “entrambi i casi la denuncia in Cassazione è possibile secondo il verso della c.d. falsa applicazione della norma dell’art. 2729 c.c.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 6 luglio 2018, n. 17720, Rv. 649663-01);

– che nondimeno, per un verso, una censura siffatta non risulta formulata dalla P., nonchè, per altro verso, nessun “rifiuto espresso e motivato di individuare una presunzione “hominis” risulta presente nella sentenza impugnata;

– che anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile, dovendo darsi continuità al principio secondo cui, in “tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 17 ottobre 2017, n. 24502, Rv. 646335-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 4 agosto 2017, n. 19613, Rv. 645187-01).

– che anche le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari;

– che in ragione della declaratoria di inammissibilità del ricorso, va dato atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando P.P. a rifondere, ad Sarzi Amadè Antonio e a Romano Cerquetti, le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.150,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, più spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2020

 

 

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