Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18095 del 25/07/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 18095 Anno 2013
Presidente: DE RENZIS ALESSANDRO
Relatore: BANDINI GIANFRANCO

SENTENZA

sul ricorso 16128-2011 proposto da:
NUOVA SACELIT S.R.L. 01771700166, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA G.B. VICO 1, presso lo studio
dell’avvocato PROSPERI MANGILI LORENZO, che la
rappresenta
2013

e

difende

unitamente

all’avvocato

SANTINOLI PAOLO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

,1728

contro
ì

PICARDI ANNUNZIATA, PIROZZI ANNA, PIROZZI ANTONIO,
PIROZZI PASQUALE, (nella qualità di eredi di PIROZZI

Data pubblicazione: 25/07/2013

FRANCESCO), POZIELLO GIOVANNI, tutti già elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA DI VILLA ALBANI 8, presso lo
studio dell’avvocato LUIGI TRETOLA, rappresentati e
difesi dall’avvocato GENTILE FRANCESCO, giusta delega
in atti e da ultimo domiciliati presso la CANCELLERIA

controricorrenti

avverso la sentenza n. 4491/2010 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, .depositata il 16/06/2010 r.g.n. 8196/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza

del

15/05/2013

dal

Consigliere

Dott.

GIANFRANCO BANDINI;
udito l’Avvocato PROSPERI MANGILI LORENZO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con separati ricorsi, Pirozzi Fancesco e Poziello Giovanni, già
dipendenti della Nuova Sacelit srl, rispettivamente dal 1966 al

datrice di lavoro per ottenere il risarcimento del danno biologico
derivante dalle contratte malattie professionali (mesotelioma
peritoneale in asbestosi polmonare per il Pirozzi; asbestosi
polmonare per il Poziello); le cause vennero riunite già nel primo
grado di giudizio, nel corso del quale si costituirono gli eredi del
Pirozzi, nel frattempo deceduto.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 1° – 16.6.2010, rigettò
il gravame proposto dalla datrice di lavoro avverso la pronuncia di
prime cure, che aveva riconosciuto la responsabilità datoriale e
liquidato i danni biologici rispettivamente patiti dai lavoratori.
Per ciò che ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale,
richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in
ordine alla responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087
cc, osservò quanto segue:
– quanto al Pirozzi, la censura secondo cui le uniche evidenze
sanitarie certamente rapportabili all’amianto avrebbero dovuto
essere solo le placche di ispessimento pleurico e che
anche la diagnosi di asbestosi (che pure aveva fondato il
riconoscimento giudiziale della rendita hai!) non era certa e
che probabilmente la malattia avrebbe dovuto qualificarsi come

3/

31.7.1994 e dal 1975 al 31.12.1993, convennero in giudizio la ex

evoluzione della bronchite, non di origine professionale, si
sostanziava in critiche vaghe, frutto di diverse valutazioni, neanche

della relazione tecnica d’ufficio fondati sulla scorretta applicazione di
parametri accreditati riconosciuti dalla comunità scientifica;
– ancora più palesemente inconferente era il ragionamento
utilizzato al fine di tentare di scalfire la diagnosi di mesotelioma
peritoneale, essendo stato utilizzato un evidente errore materiale in
cui era incorso il primo Giudice, che aveva indicato la malattia quale
“mesotelioma pleurico” anziché “mesotelioma peritoneale”,

pur

essendo quest’ultimo stato più volte nominato sia dal CTU che dal
consulente tecnico di parte; il CTU aveva infatti ben chiarito che si
trattava di mesotelioma peritoneale, cosicché l’errore non poteva
essere utilizzato per incrinare il ragionamento adottato dal Tribunale;
anzi l’approfondimento del motivo d’appello mostrava che era stata
la Società appellante a cadere in vistoso errore, laddove aveva
affermato che non era stata, comunque, provata l’esistenza del
mesotelioma peritoneale;
– non erano condivisibili neppure i profili di censura basati sulle
circostanze che dalla cartella clinica relativa al luglio 2001 la diagnosi
alle dimissioni era stata quella di “carcinosi peritoneale” e non di
“mesotelioma peritoneale” e che non si era proceduto a diagnosi

immunoistochimica attraverso l’uso di marcatori mesoteliali; doveva
infatti considerarsi che per carcinosi peritoneale si intende la

4

specificate adeguatamente e che non evidenziavano eventuali errori

disseminazione di cellule neoplastiche con impianti multipli in sede
peritoneale coinvolgenti quantitativamente e qualitativamente in
maniera diversa il peritoneo parietale e viscerale con interessamento

degli organi mitraddommiali; si tratta, quindi, della rappresentazione
dello stadio evolutivo avanzato di molti tumori che si sviluppano in
organi addominali; il mesotelioma peritoneale, invero, è un singolo
istotipo all’interno del fenomeno della carcinosi peritoneale, ed è il
tumore che si sviluppa direttamente nel peritoneo; pertanto, la prima
definizione, indicando uno stato avanzato di tumori originariamente
dislocati in organi addominali, non è in contraddizione con la
diagnosi più specifica di mesotelioma peritoneale;
– inoltre, correttamente il CTU di primo grado aveva formulato tale
diagnosi, giacché risultavano soddisfatti tutti i criteri diagnostici per la
neoplasia in discussione, dato che sia il reperto operatorio, che le
indagini endoscopiche, avevano escluso la presenza di neoplasie a
partenza da altri organi addominali e posto che l’esame citoistologico aveva mostrato segni indicativi di un tumore a partenza
dalla sierosa peritoneale; peraltro, dalla accertata e preesistente
malattia asbestosica polmonare, poteva dirsi esistente la
correlazione con l’esposizione all’amianto;
– parimenti infondate erano anche le critiche relative alla situazione
del Poziello, atteso che il CTU aveva riferito di aver formulato la
propria diagnosi di asbestosi polmonare con lieve riduzione della
capacità di diffusione alveolo-capillare in base ad un parametro

t

diagnostico nel quale – oltre al dato auscultatorio modesto ed alla
lieve dispnea da sforzo medio-elevato – concorreva il dato

della capacità di diffusione alveolo-capillare; tale evidenza era stata
tratta dalla relazione di TAC al torace nella quale era stata
rappresentato un “Lieve ispessimento del grande interstizio in sede
basale”;

a fronte di tale giudizio la Società appellante si era limitata ad

esporre un proprio diverso parametro valutativo, senza peraltro dare
conto della relazione di TAC sopra ricordata ed, anzi, affermando,
senza riscontro documentale, che si era in presenza di un soggetto
“non sicuramente positivo per interstiziopatia”;

– erano altresì infondate le censure relative alla prova della nocività
dell’ambiente di lavoro e all’assolvimento dell’onere probatorio
facente carico sulla parte datoriale, posto che, alla luce della
ricostruzione operata dal primo Giudice, sulla base dell’esperita
istruttoria, delle attività lavorative svolte, doveva riconoscersi che i
filtri degli aspiratori, via via potenziati nel tempo, venivano puliti a
mano e che solo dal 1983 era stato utilizzato un dispositivo di
apertura automatica e segregata dei sacchi di amianto, mentre solo
dal 1988 era stato disposto un sistema di separazione degli abiti da
lavoro da quelli dove si utilizzavano gli abiti civili; inoltre, inizialmente,
era stato richiesto con cartelli l’uso di maschere protettive molto
pesanti e, quindi, non usate dai lavoratori, mentre in seguito erano

/

strumentale di una interstiziopatia bibasale con modesta riduzione

state messe a disposizione semplici mascherine di carta di tipo
medico; inoltre l’Usi competente, con verbale del 10.7.1989, aveva

mostrato la presenza di fibre aerodisperse in concentrazione
superiore ai limiti consigliati”;

– da tale accertamento complessivo dovevano dedursi: l’inidoneità
delle misure di sicurezza in concreto adottate dall’azienda e
l’inadeguatezza delle stesse, posto che era stato accertato il
superamento della soglia nel 1989, malgrado “gli interventi descritti
dalla società” a partire dal 1974; la contrazione effettiva della

malattia professionale da parte di entrambi i ricorrenti; la circostanza
che la pericolosità era ben nota da tempo, a partire dal rd n.
442/1909 e dall’inserimento della malattia fra quelle professionali con
la legge n. 455/43; l’omissione delle misure di prevenzione
individuali, specificatamente indicate con il richiamo delle norme
generali per l’igiene nel lavoro di cui agli artt. 20 e 21 dpr n. 303/56 e
delle misure di protezione individuali di cui agli artt. 377 e 378 dpr n.
547/55, che l’azienda avrebbe dovuto tempestivamente adottare e
che invece aveva adottato con colpevole ritardo negli anni
successivi; in tale quadro nessuna efficacia assumevano le
modifiche apportate dall’azienda e richiamate nell’atto di appello,
rivelando le stesse la propria insufficienza per la mancanza di misure
di prevenzione individuali;

rilevato che “le misure di concentrazione di fibre aerodisperse hanno

- il compendio di doveri gravanti sulla Società, esplicantesi sia
nell’ambito del rapporto negoziale che la legava ai dipendenti, sia

perseguire e della natura degli interessi tutelati mediante la garanzia
della sicurezza sul lavoro predisposta dalla normativa richiamata,
avrebbero imposto l’adozione di un maggior rigore nell’esercizio della
attività imprenditoriale;
– dovevano ritenersi assolti, alla luce delle prove documentali ed
orali acquisite, gli oneri incombenti sui lavoratori di provare la
sussistenza del rapporto di lavoro, la malattia ed il nesso causale tra
quest’ultima e l’evento dannoso;
– in ordine al quantum del risarcimento (con riferimento al danno
biologico derivante da malattia professionale in epoca anteriore
all’entrata in vigore dell’art. 13 dl.vo 23 febbraio 2000 n. 38), doveva
rilevarsi che non era stata oggetto di specifica censura l’entità del
pregiudizio risentito da ciascun lavoratore alla propria integrità psicofisica;
– andava mantenuto fermo, al fine del risarcimento del danno
biologico quale pregiudizio all’integrità plico-fisica della persona, il
riferimento al criterio equitativo, da esercitarsi, nel ricorso a criteri
standardizzati, mediante un’opera di adeguamento al caso concreto,
che tenesse conto della gravità delle lesioni, dell’età, della attività
espletata, delle condizioni sociali e familiari dei danneggiati;

nella sfera pubblicistica, in ragione delle finalità che si intendono

- nei casi di specie appariva opportuno il ricorso alle tabelle di
risarcimento del danno biologico elaborate dal Tribunale appellato, in

10% per Poziello e del 99% per il Pirozzi (come acclarato dal CTU
nominato in prime cure, con apprezzamento rimasto immune da
censure), ed all’età dei danneggiati all’epoca di riconoscimento
dell’insorgenza delle patologie;
– i relativi importi apparivano del tutto proporzionati alla gravità
delle lesioni subite dai lavoratori, alla capacità di recupero, alla
prognosi di vita e alle condizioni socio-economiche dei danneggiati,
rapportate all’ambiente in cui proiettavano le proprie aspirazioni di
vita.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la Nuova Sacelit
srl ha proposto ricorso per cassazione fondato su sei motivi.
Gli intimati Picardi Annunziata, Pirozzi Anna, Pirozzi Antonio e
Pirozzi Pasquale, quali eredi di Pirozzi Francesco, e Poziello
Giovanni, hanno resistito con unico controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con i primi quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente
siccome fra loro connessi, la ricorrente denuncia: 1) la carenza o
contraddittorietà della motivazione in ordine all’esistenza della
malattia professionale diagnosticata al Pirozzi; 2) la carenza o
contraddittorietà della motivazione in ordine all’esistenza della
malattia professionale diagnosticata al Poziello; 3) l’omessa

relazione alla lesione del bene salute, determinato nella misura del

pronuncia in ordine alla svolta richiesta di rinnovazione della CTU; 4)
la violazione dell’art. 2087 cc in relazione alla mancata prova, per le
ragioni esposte nei precedenti motivi, del nesso di causalità.

1.11 primi due motivi si risolvono, sostanzialmente, nella
riproposizione delle censure già svolte in grado d’appello per il
tramite delle dimesse relazioni del consulente tecnico di parte.
Si tratta di censure che sono state dettagliatamente esaminate e non
accolte dalla sentenza impugnata, attraverso un percorso
argomentativo, diffusamente ricordato nello storico di lite, esaustivo,
lineare e scevro da elementi di illogicità, sicché le motivazioni
addotte non possono ritenersi né insufficienti, né contraddittorie.
Al contempo tali censure, concretizzandosi nell’espressione di
dissensi diagnostici rispetto ai convincimenti del CTU, condivisi
nell’impugnata sentenza, non possono essere oggetto di
apprezzamento in sede di legittimità, posto che, affinché i lamentati
errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di
motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario
che i relativi vizi logico-formali si concretino in una palese devianza
dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni
illogiche o scientificamente errate, non potendosi le censure svolte
limitare a considerazioni che si traducano in un’inammissibile critica
del convincimento del giudice di merito che si sia fondato, per
l’appunto, sulla consulenza tecnica (cfr, ex plurimis, Cass., nn.
11054/2003; 17324/2005; 8654/2008).

Ao

Ì

.

1.2 L’argomentata confutazione delle critiche rivolte alla CTU di
primo grado e la manifestata adesione alle conclusioni ivi espresse

dell’indagine, onde deve ritenersi l’insussistenza del vizio denunciato
al riguardo.
1.3 Dal che discende anche l’infondatezza del quarto motivo,
siccome fondato sulla dedotta, ma in effetti non ravvisabile, stante
l’inaccoglibilità dei precedenti motivi, carenza di prova del nesso di
causalità.
2. Con il quinto motivo, relativo alla posizione del solo Pirozzi, il
ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2087 cc in relazione alla
prova della colpa della parte datoriale e il vizio di motivazione sulla
prevedibilità del mesotelioma peritoneale.
La censura si fonda sul rilievo che, secondo la ricordata opinione di
un ordinario di medicina del lavoro, il mesotelioma non sarebbe
causato, come la asbestosi, da tutte le fibre inalate, ma soltanto
dalla quota ultrafine di queste ultime; sempre secondo quanto
ritenuto dal medesimo studioso, soltanto nella seconda metà degli
anni ’80 sarebbero stati messi in commercio, anche per gli impianti di
aspirazione delle polveri industriali, dei filtri ad alta efficienza e, negli
stessi anni, sarebbero state proposte maschere facciali costruite con
materiali filtranti ad alta efficienza, con problemi però di tenuta
facciale, causati dalla loro semplice forma a conchiglia; secondo il
ricorrente la non prevedibilità del mesotelioma peritoneale e, quindi,

costituisce implicita, ma inequivoca, reiezione dell’istanza di rinnovo

l’insussistenza della responsabilità datoriale, aveva costituito motivo
di gravame su cui la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata.

già esposto nello storico di lite, tenuto conto della natura delle
lavorazioni svolte e valutato l’inidoneità e tardività delle misure di
prevenzione utilizzate, laddove la pericolosità dell’esposizione era
ben nota già da epoca largamente precedente all’espletamento
dell’attività lavorativa da parte del Pirozzi.
Costituisce al contempo circostanza di fatto, non deducibile in sede
di legittimità quale vizio di motivazione, l’affermata (ma non provata
nei gradi di merito) insussistenza, all’epoca, di più adeguati mezzi di
protezione individuale.
3. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione,
sotto il profilo della sua contraddittorietà, per non avere la Corte
territoriale parametrato il risarcimento del danno non patrimoniale
sofferto dal Pirozzi al limitato periodo della sua permanenza in vita
dopo la diagnosi della malattia.
Osserva il Collegio che, come evidenziato nella sentenza impugnata,
il motivo di gravame relativo alla liquidazione del danno effettuata dal
primo Giudice era stato svolto sotto il profilo che le tabelle di
valutazione adoperate in quella sede avrebbero dovuto essere
sostituite con quelle di cui al dm 12.7.2000 per gli indennizzi lnail.
Rispetto a tele specifica doglianza nessuna contraddittorietà è data
ravvisare nel percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale,

La censura è infondata, avendo la Corte territoriale, secondo quanto

che, nei termini già diffusamente illustrati nello storico di lite, ha
rilevato l’opportunità di fare ricorso a quelle elaborate dal Tribunale
appellato.

fosse stato il criterio di calcolo utilizzato dai primi Giudici sotto il
profilo in questa sede specificamente dedotto (e, tanto meno, illustra
i termini attraverso i quali tale profilo sarebbe stato argomentato)
onde la doglianza all’esame appare inammissibile sia per la sua
novità, sia per la violazione del principio di autosufficienza del ricorso
per cassazione.
4. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo e diversificate nel loro
ammontare in base al valore delle cause, seguono la soccombenza.
P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle
spese che liquida:
quanto agli eredi Pirozzi in euro 7.050,00 (settemilacinquanta), di cui
euro 7.000,00 (settemila) per compenso;
quanto al Poziello in euro 1.550,00 (millecinquecentocinquanta), di
cui euro 1.500,00 (millecinquecento) per compenso;
il tutto oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma 11 15 maggio 2013.

Né la ricorrente deduce che oggetto di specifico motivo d’appello

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