Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18069 del 02/09/2011

Cassazione civile sez. III, 02/09/2011, (ud. 22/06/2011, dep. 02/09/2011), n.18069

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 15626/2010 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS) in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende

giusta procura ad litem a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato RIZZO Roberto, che

la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4116/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

20/05/08, depositata il 10/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO IANNIELLO;

è presente il P.G. in persona del Dott. CARLO DESTRO.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

La causa è stata chiamata alla odierna adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con ricorso notificato in data 1-10 giugno 2010, la s.p.a. Poste Italiane chiede, con tre motivi, la cassazione della sentenza depositata il 10 giugno 2009, con la quale la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la società, a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 e successive integrazioni “per esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso… ” – al contratto di lavoro intercorso con B.E., decorrente dal 17 ottobre 2000, a riammettere in servizio la lavoratrice e a pagarle le retribuzioni dall’atto di messa in mora del 25 giugno 2003.

Coi motivi viene dedotta:

a – la violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, per avere la Corte territoriale affermato che il potere riconosciuto ai contraenti collettivi dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine sarebbe soggetto a precisi limiti temporali;

b – la violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 8 del C.C.N.L. 26.11.1994 nonchè degli accordi sindacali 25.9.97, 16.1.98, 27.4.98, 2.7.98, 24.5.99 e 18.1.2001 in connessione con l’art. 1362 c.c., e segg., in ragione del fatto che i giudici dell’appello avevano erroneamente negato che l’attribuzione col la legge del 1987 del potere alle OO.SS. di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termina al contratto di lavoro concretasse una delega in bianco, che le OO.SS. avevano nel caso di specie esercitato individuando la situazione concreta legittimante il ricorso al contratto a termine, senza prevedere un limite temporale finale, diverso dalla vigenza del contratto collettivo, relativamente alla utilizzazione di tale causale;

e – il vizio di motivazione in ordine alla fonte di individuazione della volontà delle parti collettive di fissare alla data del 30.4.1998 il termine finale di efficacia dell’accordo nazionale 25.9.97.

La lavoratrice, regolarmente intimata, ha resistito alle domande con rituale controricorso.

Il procedimento, in quanto promosso con ricorso avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e antecedentemente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 è regolato dall’art. 360 c.p.c., e segg., con le modifiche e integrazioni apportate dal D.Lgs. citato.

Il ricorso, i cui tre motivi vanno esaminati congiuntamente, è manifestamente infondato e va pertanto trattato in camera di consiglio per essere respinto.

Va infatti premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al rapporto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette, di per sè, unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063), senza necessità di un accertamento a posteriori in ordine alla effettività delle stesse.

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento, il citato art. 23 della L. n. 56 si esprime in termini di “apposizione di un termine… consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

La legge, come è evidente dal tenore letterale della stessa e dalla relativa ratto (che è quella di affidare a organizzazioni sindacali ampiamente rappresentative – ma non necessariamente col concorso di tutte – la valutazione di ipotesi di apposizione del termine che costituiscano una mediazione apprezzabile rispetto agli interessi coinvolti) e contrariamente a quanto sostenuto col secondo motivo di ricorso, non distingue a seconda che si tratti di un contratto collettivo stipulato ad hoc oppure in occasione dei periodici rinnovi della disciplina collettiva dei rapporti di lavoro a livello nazionale ed eventualmente locale.

Come ricordato dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della, graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo per l’assunzione di unità con contratto a termine, secondo il quale “in relazione all’art. 8 del C.C.N.L., così come integrato con accordo 25 settembre 1997, le parti si danno atto che fino al 31 gennaio 1998, l’impresa si trova nella situazione che precede, dovendo affrontare il processo di ristrutturazione della sua natura giuridica con conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di trattative”.

Con successivo accordo attuativo del 16 gennaio 1998, le medesime parti, sempre con riferimento all’integrazione dell’art. 8 del contratto collettivo del 1994 operata dai successivi accordi sottoscritti con le OO.SS. stipulanti il C.C.N.L., si erano dato “atto che l’impresa continua a trovarsi nella situazione di cui all’integrazione stessa, dovendo concludere il processo di trasformazione della sua natura giuridica e della conseguente ristrutturazione aziendale e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di trattative”, autorizzando conseguentemente l’impresa a procedere ad assunzioni a termine fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati, in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, con tali accordi le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998 della situazione descritta nell’accordo integrativo, per cui, per far fronte alle esigenze in quest’ultima sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto, ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nel ricorso sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati da questa Corte nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

Va infine rilevato che nel caso in esame non è applicabile, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, lo ius superveniem, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa, tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a, tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.”.

In proposito va infatti ribadito, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniem che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

Con riferimento alla disciplina qui richiamata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc..

Nel caso in esame, nessun motivo di ricorso investe il tema delle conseguenze patrimoniali della conversione del contratto a termine, per cui il rigetto dei motivi inerenti la “conversione” produce la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.” E’ seguita la rituale notifica della suddetta relazione, unitamente all’avviso della data della presente udienza in camera di consiglio.

La B. ha depositato una memoria, con la quale insiste nella richiesta di rigetto del ricorso.

Il Collegio condivide il contenuto della relazione, col conseguente rigetto del ricorso e la condanna della società ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di giudizio, liquidate in dispositivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La causa è stata chiamata alla odierna adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con ricorso notificato in data 1-10 giugno 2010, la s.p.a. Poste Italiane chiede, con tre motivi, la cassazione della sentenza depositata il 10 giugno 2009, con la quale la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la società, a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 e successive integrazioni “per esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso… ” – al contratto di lavoro intercorso con B.E., decorrente dal 17 ottobre 2000, a riammettere in servizio la lavoratrice e a pagarle le retribuzioni dall’atto di messa in mora del 25 giugno 2003.

Coi motivi viene dedotta:

a – la violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, per avere la Corte territoriale affermato che il potere riconosciuto ai contraenti collettivi dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine sarebbe soggetto a precisi limiti temporali;

b – la violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 8 del C.C.N.L. 26.11.1994 nonchè degli accordi sindacali 25.9.97, 16.1.98, 27.4.98, 2.7.98, 24.5.99 e 18.1.2001 in connessione con l’art. 1362 c.c., e segg., in ragione del fatto che i giudici dell’appello avevano erroneamente negato che l’attribuzione col la legge del 1987 del potere alle OO.SS. di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termina al contratto di lavoro concretasse una delega in bianco, che le OO.SS. avevano nel caso di specie esercitato individuando la situazione concreta legittimante il ricorso al contratto a termine, senza prevedere un limite temporale finale, diverso dalla vigenza del contratto collettivo, relativamente alla utilizzazione di tale causale;

e – il vizio di motivazione in ordine alla fonte di individuazione della volontà delle parti collettive di fissare alla data del 30.4.1998 il termine finale di efficacia dell’accordo nazionale 25.9.97.

La lavoratrice, regolarmente intimata, ha resistito alle domande con rituale controricorso.

Il procedimento, in quanto promosso con ricorso avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e antecedentemente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 è regolato dall’art. 360 c.p.c., e segg., con le modifiche e integrazioni apportate dal D.Lgs. citato.

Il ricorso, i cui tre motivi vanno esaminati congiuntamente, è manifestamente infondato e va pertanto trattato in camera di consiglio per essere respinto.

Va infatti premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al rapporto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette, di per sè, unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063), senza necessità di un accertamento a posteriori in ordine alla effettività delle stesse.

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento, il citato art. 23 della L. n. 56 si esprime in termini di “apposizione di un termine… consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

La legge, come è evidente dal tenore letterale della stessa e dalla relativa ratto (che è quella di affidare a organizzazioni sindacali ampiamente rappresentative – ma non necessariamente col concorso di tutte – la valutazione di ipotesi di apposizione del termine che costituiscano una mediazione apprezzabile rispetto agli interessi coinvolti) e contrariamente a quanto sostenuto col secondo motivo di ricorso, non distingue a seconda che si tratti di un contratto collettivo stipulato ad hoc oppure in occasione dei periodici rinnovi della disciplina collettiva dei rapporti di lavoro a livello nazionale ed eventualmente locale.

Come ricordato dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della, graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo per l’assunzione di unità con contratto a termine, secondo il quale “in relazione all’art. 8 del C.C.N.L., così come integrato con accordo 25 settembre 1997, le parti si danno atto che fino al 31 gennaio 1998, l’impresa si trova nella situazione che precede, dovendo affrontare il processo di ristrutturazione della sua natura giuridica con conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di trattative”.

Con successivo accordo attuativo del 16 gennaio 1998, le medesime parti, sempre con riferimento all’integrazione dell’art. 8 del contratto collettivo del 1994 operata dai successivi accordi sottoscritti con le OO.SS. stipulanti il C.C.N.L., si erano dato “atto che l’impresa continua a trovarsi nella situazione di cui all’integrazione stessa, dovendo concludere il processo di trasformazione della sua natura giuridica e della conseguente ristrutturazione aziendale e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di trattative”, autorizzando conseguentemente l’impresa a procedere ad assunzioni a termine fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati, in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, con tali accordi le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998 della situazione descritta nell’accordo integrativo, per cui, per far fronte alle esigenze in quest’ultima sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto, ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nel ricorso sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati da questa Corte nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

Va infine rilevato che nel caso in esame non è applicabile, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, lo ius superveniem, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa, tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a, tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.”.

In proposito va infatti ribadito, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniem che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

Con riferimento alla disciplina qui richiamata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc..

Nel caso in esame, nessun motivo di ricorso investe il tema delle conseguenze patrimoniali della conversione del contratto a termine, per cui il rigetto dei motivi inerenti la “conversione” produce la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.” E’ seguita la rituale notifica della suddetta relazione, unitamente all’avviso della data della presente udienza in camera di consiglio.

La B. ha depositato una memoria, con la quale insiste nella richiesta di rigetto del ricorso.

Il Collegio condivide il contenuto della relazione, col conseguente rigetto del ricorso e la condanna della società ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 30,00 per esborsi ed Euro 2.000,00per onorari, oltre accessori, che distrae all’avv. Rizzo.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2011

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