Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18052 del 05/07/2019

Cassazione civile sez. III, 05/07/2019, (ud. 11/12/2018, dep. 05/07/2019), n.18052

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29667-2015 proposto da:

BANCO POPOLARE SOC COOP, in persona del procuratore speciale Dott.

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TOMMASO

SALVINI 55, presso lo studio dell’avvocato CARLO D’ERRICO,

rappresentato e difeso dagli avvocati CRISTINA BIGLIA, GIUSEPPE

MERCANTI giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

F.A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO

D’ITALIA, 19, presso lo studio dell’avvocato BARBARA SANTESE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENNIO ERCOLI giusta

procura speciale in calce alla comparsa di costituzione e risposta;

– resistente –

avverso la sentenza n. 2009/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 11/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/12/2018 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Banco Popolare Soc. Coop. (quale incorporante per fusione la Banca Popolare di Lodi s.p.a.) ha proposto ricorso per cassazione contro F.A.G. avverso la sentenza n. 2009 dell’11 maggio 2015, con la quale la Corte d’Appello di Milano ha rigettato il suo appello avverso la sentenza del Tribunale di Lodi dell’agosto del 2001, la quale aveva rigettato la domanda principale proposta dalla società incorporata nel luglio del 2008 ai sensi dell’art. 2043 c.c., intesa ad ottenere il risarcimento dei danni per l’importo capitale di Euro 176.250,00 asseritamente cagionati dall’intimato, nella qualità di appartenente ad un gruppo di c.d. “clienti privilegiati”, in concorso con alcuni dirigenti della Banca, cioè l’amministratore delegato Fi.Gi., il direttore finanziario B.G. e l’ex dirigente, collaboratore e procuratore della Banca, S.S., nonchè le domande subordinate proposte ai sensi degli artt. 2033 e 2041 c.c.

2. La domanda risarcitoria fatta valere dalla Banca si correlava ad un’operazione finanziaria realizzata sul c/c n. (OMISSIS) e sul collegato dossier titoli n. (OMISSIS) aperti negli anni 2001 e 2002 dal F.A.. Adduceva la Banca Popolare di Lodi: che in data 17 dicembre 2004 veniva effettuata una vendita “ai blocchi”, tramite Centrosim, di 19.675.000 azioni TELECOM, di proprietà della stessa Banca, al prezzo di Euro 2,99 cadauna, di cui 1.175.000 venivano contestualmente acquistate da F.A.G.; che, in pari data, quest’ultimo provvedeva a vendere, sempre mediante Centrosim, 1.175.000 azioni TELECOM, in aggiunta ad altre 825.000 già detenute sul proprio dossier titoli, al prezzo di Euro 3,14 ciascuna, realizzando così un ricavo complessivo di Euro 6.273.719,41 e quindi un capitai gaie di Euro 176.250,00, con riferimento alle azioni acquistate il 17 dicembre 2004 in numero di 1.175.000 a Euro 2,99 l’una; che tale operazione, al pari di altre, era stata resa possibile grazie ad un illecito sodalizio intercorso tra il F.A. (facente parte di un gruppo di c.d. “clienti Privilegiati”) e gli indicati dirigenti della Banca, i quali avevano accordato, senza garanzie, allo stesso F.A. un affidamento iniziale di Euro 5.000.000,00 poi aumentato fino – a Euro 15.000.000,00 – utilizzato per concludere le illecite operazioni finanziarie, e avevano procurato la disponibilità dei titoli TELECOM acquistati sempre dal F.A. al vantaggioso prezzo di Euro 2,99 ciascuna; che le condotte dei dirigenti aziendali e del F.A., nonchè quelle di altri clienti della Banca c.d. “Privilegiati”, erano state oggetto di separati procedimenti penali avviati dalle Procure della Repubblica di Lodi e di Milano.

Tanto premesso l’attrice chiedeva l’accertamento della responsabilità di F.A.G. per l’illecita operazione finanziaria commessa in suo danno e la condanna del medesimo al risarcimento del pregiudizio patrimoniale quantificato in Euro 176.250,00, rappresentato dall’indebito capital gain realizzato dal convenuto. In via subordinata l’istituto di credito chiedeva la condanna per il medesimo importo esperiva a titolo di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. ovvero a titolo di azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.

3. Nella resistenza del convenuto, che contestava nel merito l’avversa domanda chiedendone il rigetto stante, fra l’altro, a suo dire l’inesistenza di un danno per l’Istituto, che aveva sempre esposto ed incassato le commissioni e gli interessi passivi sugli affidamenti di cui aveva goduto quale solido cliente “storico”, declinando infine ogni responsabilità in relazione agli addebiti contestatigli, il Tribunale di Lodi, istruita la causa per mezzo delle produzioni documentali delle parti e dell’escussione dei testimoni, con sentenza n. 787/11 rigettava tutte le domande attoree e compensava le spese del giudizio.

4. L’intimato non ha notificato un controricorso, ma si è limitato a depositare “comparsa di costituzione e risposta”.

5. Essendo state ravvisate le condizioni per la decisione con il procedimento camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c., è stata fissata l’odierna adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo si denuncia: “violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4; violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 101c.p.c., comma 2, artt. 112 e 115 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 4; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Come emerge dall’intestazione, il motivo dovrebbe enunciare distinte censure.

La sua struttura si articola con un esordio, nel quale si rileva che la corte territoriale avrebbe condiviso il ragionamento del primo giudice, nel confermare la sentenza di primo grado, ritenendo che quel giudice “nel rigettare le domande della Banca, non avrebbe violato alcuna norma processuale ma avrebbe, invece, “fatto corretta applicazione dei principi che regolano l’onere probatorio gravante in capo a chi propone una domanda risarcitoria per illecito extracontrattuale”, non avendo la Banca provato l’esistenza e l’ammontare del danno azionato”.

Dopo tale premessa, si assume che: “ciò che la sentenza (di) di secondo grado non ha preso minimamente in considerazione, omettendo una pronuncia sul punto, è il motivo di appello della Banca secondo il quale la Sentenza di Primo Grado ha reso una pronuncia d’ufficio c.d. “a sorpresa”. Infatti, impugnando la sentenza (di) Primo Grado la Banca ha eccepito che il Tribunale di Lodi, nell’affermare che la banca non avrebbe dimostrato “che avrebbe in concreto potuto realizzare in proprio l’investimento” (cfr. sentenza di Primo Grado, pagina 14), si è pronunciato d’ufficio su una questione, in fatto e in diritto, mai contestata (ed anzi, pacificamente ammessa) dal Signor F.A.”.

A tali enunciazioni, per così dire “programmatiche” circa l’illustrazione del motivo, segue dalla metà della pagina 19 del ricorso sino a quasi tutta la pagina 22 l’indicazione, attraverso riferimenti alla comparsa di costituzione avversaria di primo grado ed alle memorie ai sensi dell’art. 183 c.p.c., che l’atteggiamento processuale del convenuto si sarebbe articolato con l’assunto che la Banca non avrebbe voluto procedere direttamente alla vendita ai blocchi, pur potendolo concretamente fare, essendo l’operazione lecita e fattibile, mentre, secondo “le sentenze”, cioè sia quella di primo che di secondo grado la Banca avrebbe potuto procedervi direttamente, ma non l’avrebbe potuto “concretamente fare a causa del preteso fine illecito sotteso a tale operazione”. Quindi, si sostiene che la sentenza di primo grado aveva “rigettato d’ufficio le domande della Banca sulla scorta di un presupposto, in fatto e in diritto (cioè che la banca non avrebbe dimostrato “che avrebbe in concreto potuto realizzare in proprio l’investimento”), mai contestato e, anzi, pacificamente ammesso dal signor F.A.” e, di seguito, si argomenta che “il Tribunale di Lodi avrebbe, quindi, dovuto indicare tale questione, rilevata d’ufficio, alle parti, affinchè queste ultime non fossero private (come è invece avvenuto) dell’esercizio del contraddittorio e del diritto di difesa e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare eventuali richieste istruttorie sulla medesima questione rivelatasi determinante per la decisione finale”.

Da qui – secondo la ricorrente – la nullità della sentenza di primo grado sulla base del principio per cui “l’omessa indicazione, ad opera del giudice, di una questione di fatto, ovvero mista di fatto e di diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale si fonda la decisione, comporta la nullità della sentenza c.d. “della terza via” o “a sorpresa” per violazione del diritto di difesa delle parti” (vengono citate Cass. nn. 11453 del 2014 e n. 25054 del 2013, per giustificare l’assunto prima della introduzione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, inapplicabile al giudizio in quanto introdotto dalla L. n. 69 del 2009, giusta il comma 1 di tale legge) e sia sulla base dell’art. 101 c.p.c., comma 2, sia dell’art. 183 c.p.c., comma 4.

La sentenza di appello avrebbe erroneamente “ritenuto superata tale censura della Banca, semplicisticamente considerando che la sentenza (di) primo grado non avrebbe violato alcuna norma processuale ma avrebbe, invece, “fatto corretta applicazione dei principi che regolano l’onere probatorio”, senza osservare che di tale dimostrazione non vi sarebbe stata la necessità, essendo il fatto (Le. che la Banca “avrebbe in concreto potuto realizzare in proprio l’investimento”) del tutto pacifico in causa”.

Dopo tali deduzioni, nella pagina 24 e nella 25, l’illustrazione del motivo argomenta nuovamente con riferimenti alla comparsa ed alle memorie che il F.A. aveva sostenuto che l’operazione sarebbe stata regolare e che la Banca l’avrebbe potuta compiere e si torna a lamentare la violazione, questa volta da parte della sentenza di secondo grado, dell’art. 101 c.p.c., comma 2, dell’art. 112c.p.c. e dell’art. 183 c.p.c., comma 4, nonchè, quanto al mancato rilievo della suddetta asserita circostanza pacifica, quella dell’art. 115 c.p.c.

Si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe omesso di esaminare da un lato il motivo di appello con cui si lamentava che la sentenza di primo grado avesse reso “una pronuncia d’ufficio, ritenendolo erroneamente superato dai principi sull’onere della prova”, sia dall’atro lato “tutto l’impianto difensivo” del F.A. e “le conseguenti argomentazioni della Banca”, così facendo propria, come la sentenza di primo grado, “una ricostruzione della vicenda che non era quella svolta dalle parti in causa e che, anzi era confliggente con quest’ultima” e ciò “senza offrire la possibilità alle parti di difendersi sul punto e senza dare minimamente atto dell’iter logico e giuridico sotteso alle decisioni finali”.

In fine, si assume che “l’omissione di ogni motivazione su aspetti fondamentali della vicenda, come scaturenti dalle contrapposte difese delle parti” avrebbe determinato una motivazione apparente alla stregua di Cass., sez. Un., n. 19881 del 2014 con conseguente violazione dell’art. 111 c.p.c. e/o art. 132 c.p.c., n. 4.

1.1. L’ordine espositivo che connota la lunga illustrazione del motivo pone in primo piano la denuncia della violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2 e dell’art. 183 c.p.c., comma 4, che sarebbe stata fatta a carico della sentenza di primo grado con un non meglio individuato motivo di appello e su cui si dice in prima battuta che la corte meneghina avrebbe omesso di pronunciare, così intendendo evidentemente – ancorchè non lo si specifichi – dare sostanza e fare riferimento alla censura di violazione dell’art. 112 c.p.c.

Tale censura supponeva, in ossequio gradatamente al principio di chiarezza espositiva del motivo di ricorso per cassazione (Cass., Sez. Un., n. 8077 del 2012), a quello della sua necessaria specificità (Cass. Sez. Un., n. 7074 del 2017, che ribadisce in motivazione il principio di diritto consolidato di cui a Cass. n. 4741 del 2005), ed a quello dell’onere di indicazione specifica dell’atto processuale su cui il motivo si fonda (art. 366 c.p.c., n. 6), una puntuale individuazione, o mediante riproduzione diretta, o mediante riproduzione indiretta, con precisazione della parte dell’atto in cui l’indiretta riproduzione troverebbe corrispondenza, del contenuto dell’atto di appello in cui sarebbe stata svolta la censura di violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2 e art. 183 c.p.c., comma 4.

Ebbene, in disparte l’omessa precisazione del motivo di appello su cui si sarebbe omessa la pronuncia, si rileva che detta riproduzione diretta od indiretta risulta del tutto carente nell’esposizione del motivo in esame. D’altro canto, nell’esposizione del fatto, nella quale, sotto la rubrica “Sullo svolgimento del secondo grado di giudizio” si allude ad un primo motivo di appello di violazione degli artt. 112 e 115 “per aver il Tribunale di Lodi pronunciato d’ufficio su eccezioni non rilevabili d’ufficio e che non sono state sollevate dal signor F.A.”, risulta evidente che tali espressioni – ammesso che il motivo di appello cui si allude sia da identificare con detto primo motivo – sono di evidente assoluta genericità ed assolutamente inidonee ad assolvere al ricordato onere riproduttivo (che, si nota, la giurisprudenza sull’art. 366 c.p.c., n. 6, affermatasi a partire da Cass. (ord.) n. 22308 del 2008 e Cass., Sez. Un., n. 28547 del 2008 esige quale contenuto della sua prescrizione e ciò anche per i motivi fondati su atti processuali: Cass., Sez. Un., n. 22726 del 2011).

Le carenze indicate, rendendo impossibile percepire su che cosa la corte meneghina era stata sollecitata a pronunciare, implicano che la doglianza di violazione dell’art. 112 c.p.c. sia di per sè inammissibile, in quanto, non essendo stata questa Corte posta in condizione di percepire su che cosa il giudice d’appello doveva pronunciarsi, risulta impossibile valutare se essa abbia omesso di pronunciare.

Il motivo è per ciò solo inammissibile, in quanto non presenta la struttura che deve presentare la denuncia di omessa pronuncia su un motivo di appello: invero, quando deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. perchè il giudice d’appello abbia omesso di pronunciare su un apposito motivo di appello o su una censura proposta con esso, il ricorrente in Cassazione, in ottemperanza sia all’onere di chiarezza espositiva del motivo sia all’onere della sua specificità sia all’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, deve riprodurre direttamente od indirettamente, in questo secondo caso precisando la parte dell’appello corrispondente, il motivo di appello o la censura di cui trattasi.

1.2. Peraltro, rileva il Collegio che, del tutto contraddittoriamente, nell’ambito del motivo la ricorrente si duole che sul non meglio identificato motivo di appello la corte milanese abbia invece pronunciato essa stessa violando l’art. 101 c.p.c., comma 2, e l’art. 183 c.p.c., comma 4, sebbene riconoscendo che la prima norma non sarebbe stata applicabile, ed evocando giurisprudenza di questa Corte sulla c.d. terza via. In tal modo smentisce essa stessa la censura di violazione dell’art. 112 e comunque anche la censura così proposta risulta inammissibile perchè affetta dalla mancata indicazione specifica del motivo di appello e, quindi, inidonea di riflesso ad evidenziare ciò su cui la corte territoriale avrebbe deciso erroneamente.

1.3. Si aggiunga che il preteso errore commesso dal giudice di appello con la condivisione dell’operato del primo, che avrebbe violato le dette norme, risulta basato sul preteso disconoscimento di un preteso atteggiamento di non contestazione o meglio di ammissione da parte del F.A. della possibilità che la Banca compisse l’operazione speculativa, il quale viene individuato anche in tal caso in modo del tutto privo di chiarezza, atteso che l’unico riferimento ad un atto processuale in cui esso sarebbe stato espresso è del tutto inidoneo per la sua stringatezza ad individuarlo effettivamente: si allude alla circostanza che viene indicata come dedotta nella memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, n. 1 a pagina 22 del ricorso, precisamente nell’espressione “se quindi per ipotesi la Banca avesse voluto fare essa stessa l’operazione speculativa ne avrebbe avuto la possibilità”.

1.4. Inoltre, la frase della motivazione del primo giudice che la corte territoriale avrebbe condiviso e che avrebbe espresso il disconoscimento dell’esistenza dell’ammissione de qua è indicata a pagina 19 nell’affermazione che la Banca non avrebbe dimostrato “che avrebbe in concreto potuto realizzare l’investimento”, che è evidentemente, per l’uso del verbo “realizzare” allusiva ad una operazione proficua e non alla mera possibilità dell’operazione stessa.

La lettura della sentenza impugnata, del resto conferma il senso di detta espressione, là dove la riferisce in modo completo alludendo all’avere statuito il primo giudice “che “la Banca avrebbe dovuto dimostrare che avrebbe in concreto potuto realizzare in proprio l’investimento favorevole compiuto dal cliente, con conseguente introito delle plusvalenze” e che la stessa “nemmeno deduce una tale circostanza dando per scontato ciò che invece doveva essere dimostrato””.

Il rilievo appena svolto conferma che il preteso disconoscimento dell’ammissione cui si riferisce il motivo in esame è individuato in realtà senza effettiva aderenza alla motivazione del primo giudice e di riflesso a quella confermativa espressa dal secondo.

1.5. Del tutto inammissibilmente è in fine dedotta, tenuto conto di quanto si è sopra segnalato e delle incongruenze della prospettazione del motivo che minano la denunciata – peraltro genericamente argomentata, anche qui in violazione del principio di specificità contraddittorietà, prospettata a fondamento della violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4.

Tanto si osserva non senza che debba anche rilevarsi che la motivazione resa dalla corte meneghina si articola con considerazioni non solo esistenti, ma anche del tutto coerenti dalla pagina 4 alla pagina 6.

2. Con il secondo motivo si prospetta: “violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4; violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 2043 c.c. e dell’art. 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.”.

2.1. L’illustrazione di tale motivo esordisce ricordando che la sentenza impugnata ha rigettato le domande della ricorrente sul presupposto che essa non avesse dato prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno ed in particolare dimostrazione che essa avrebbe potuto in concreto realizzare in proprio l’investimento favorevole compiuto dal F.A., “dal momento che, essendo tale investimento preordinato alla spartizione dei relativi utili con il detto G., la Banca non avrebbe potuto prendere parte a tale operazione, in quanto illecita”.

La successiva illustrazione dalla pagina 27 sino a quasi la metà della 29 ripropone la tesi che il F.A. avesse ammesso che la Banca avrebbe potuto compiere l’operazione e da essa inferisce che, avendo ritenuto bisognoso di prova un fatto non contestato abbia violato l’art. 2697 c.c. là dove esso deve interpretarsi nel senso che l’onere della prova riguarda solamente i fatti contestati.

Questa prima censura evidentemente, basandosi sullo stesso preteso atteggiamento di ammissione di cui si è discusso a proposito del primo motivo, non può non risentire delle carenze che hanno indotto a disattendere quel motivo, le quali si estendono ad essa, particolarmente circa la carente individuazione dell’atteggiamento di ammissione.

2.2. Successivamente l’illustrazione del motivo dichiara di porsi nell’ottica di argomentare che, al di là della sostenuta ammissione, comunque la possibilità e liceità dell’operazione speculativa sarebbe stata “ampiamente argomentata e provata in corso di causa”. A questo scopo si diffonde nell’evocare una serie di risultanze probatorie che corroborerebbero tale assunto, per poi inferirne l’assunto che, non avendo la sentenza impugnata ritenuto raggiunta la prova, avrebbe violato l’art. 132 c.p.c., n. 4 e falsamente applicato l’art. 2697 c.c.

In tal modo il motivo deduce in modo erroneo la violazione di quel paradigma, tenuto conto che Cass. Sez. Un., n. 16598 del 2016, nella motivazione ha precisato che “la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni”. Nella specie, invece, il motivo postula prima una rivalutazione del materiale probatorio e delle allegazioni rassegnate e solo all’esito di essa e, quindi, del diverso apprezzamento della quaestio facti, inferisce che la sentenza impugnata avrebbe violato l’art. 2697 c.c., là dove è principio consolidato che, nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5. “Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante.” (Cass. n. 11892 del 2016, i cui principi sono stati ribaditi dalla citata sentenza delle Sezioni Unite).

Tanto dà anche ragione della inconferenza dell’evocazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, peraltro nuovamente del tutto genericamente articolata.

E così di quella dell’art. 2043 c.c. sempre affermata ancora genericamente come risultato della postulata diversa valutazione del compendio delle risultanze evocate.

La stessa considerazione merita in fine l’evocazione, in chiusura dell’esposizione del motivo, di un brano della sentenza n. 4122 del 2015 della stessa corte lombarda che si è prodotta (su cui, come questa Corte rileva dai propri ruoli, un ricorso per cassazione proposto dalla stessa ricorrente e non coinvolgente i profili indicati, risulta deciso con l’ord. n. 9537 del 2017), e nella quale le considerazioni sul materiale probatorio rassegnato nel motivo avrebbero giustificato una soluzione opposta a quella della sentenza impugnata.

E’ palese, infatti, che gli apprezzamenti che sorreggono detta sentenza concernono sempre la valutazione della quaestio facti.

3. Con il terzo motivo si fa valere: “violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4; violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 652 c.p.p.”.

Ci si duole che la corte territoriale abbia rigettato il secondo motivo di appello, con cui la ricorrente aveva censurato la sentenza di primo grado per avere ritenuto operante una statuizione di una sentenza penale del Tribunale di Lodi – precisamente l’affermazione che “in sostanza la BPL non avrebbe potuto vendere direttamente le azioni a G. quantomeno al prezzo di Euro 3,14 e ciò perchè non avrebbe potuto retrocedergli parte dell’utile conseguente” – ancorchè essa fosse stata emessa nei confronti di altro imputato per i fatti di rilevanza penale che hanno occasionato la controversia.

Secondo la ricorrente erroneamente la sentenza qui impugnata avrebbe ritenuto che la sentenza di primo grado avrebbe richiamato la sentenza penale di Lodi “non certo affermandone l’opponibilità alle parti del presente giudizio, ma condividendone le conclusioni”.

Alla corte territoriale sarebbe, infatti, sfuggito che il giudice di primo avrebbe condiviso la conclusione raggiunta in sede penale “perchè la relativa statuizione è passata in cosa giudicata con riferimento ad uno dei compartecipi per cui sarebbe contraddittorio ritenere che, in un medesimo ordinamento, un medesimo fatto sia contemporaneamente

ritenuto lecito ed illecito”. Secondo la ricorrente tale affermazione evidenzierebbe che il tribunale in primo grado aveva ritenuto vincolante il suddetto giudicato penale.

3.1. Il motivo non può trovare accoglimento, in quanto si fonda su una lettura della sentenza di primo grado che valorizza erroneamente l’affermazione evocata senza considerare che immediatamente di seguito — come emerge da essa – il Tribunale di Lodi aggiunse il seguente inciso: “, ma perchè intimamente coerente e logica”. Quindi, a spiegazione di questa affermazione passò ad esporre le ragioni di condivisione della valutazione del giudice penale, che risultano indicate diffusamente di seguito nella stessa pagina 11 e fino al quartultimo rigo della pagina 13 con la riproduzione di brani della motivazione della sentenza penale inframmezzati da considerazioni che esplicitano la loro condivisione e ciò fino alla conclusione rappresentata dall’affermazione che “Il Tribunale condivide il senso profondo del precedente emesso con riferimento all’aspetto penalistico della vicenda”, cui segue poi l’apprezzamento sul piano della controversia civile oggetto di lite.

Si evidenzia, dunque, che correttamente la sentenza qui impugnata ha rigettato il secondo motivo di appello là dove postulava che il tribunale lodigiano avesse attribuito efficacia di giudicato alla statuizione penale, osservando che: la “doglianza appare evidentemente infondata laddove dalla lettura dell’impugnata sentenza si evince che il Giudice di primo grado ha richiamato la ricostruzione oggetto della sentenza penale n. 754/2009 del Tribunale di Lodi non certo affermandone l’opponibilità alle parti del presente giudizio, ma condividendone la conclusione in quanto “intimamente coerente e logica” e ripercorrendo, con altrettanta logicità, i passaggi argomentativi che hanno portato il Tribunale penale prima e quello civile poi a ritenere non provata l’esistenza, in capo alla Banca, di un danno concreto asseritamente subito “dall’indebita messa a disposizione delle somme utilizzate infedelmente dal suo precedente management per ottenere un utile proprio”.”.

Il motivo è, dunque, privo di fondamento.

4. Con il quarto motivo si prospetta: “violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4; violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 101c.p.c., comma 2, artt. 112 e 115 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 4; violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 2033 c.c.”.

Il mezzo concerne il rigetto del motivo di appello della Banca con cui essa si era doluta del rigetto da parte del Tribunale di Lodi della domanda subordinata di condanna del F.A. ai sensi dell’art. 2033 c.c., adducendo che il versamento dell’importo di Euro 6.273.719,41 a favore del medesimo ed ottenuto a fronte della vendita “ai blocchi” dei titoli Telecom “non può in alcun modo ritenersi provvisto ab origine di supporto causale” e che, comunque, anche successivamente, la Banca “non si è mai attivata per far caducare la causa debendi”. Si sostiene che “ancora una volta, la Sentenza (di) Secondo Grado ha reso una pronuncia d’ufficio “a sorpresa”, in tal modo violando il disposto dell’art. 101 c.p.c., comma 2, artt. 112 e 115 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 4″, perchè la sentenza di primo grado “aveva respinto la domanda subordinata della Banca sulla scorta della considerazione che quest’ultima non avrebbe “eseguito alcun pagamento in favore del cliente privilegiato”. Le difese in appello di entrambe le parti si erano svolte su tale questione, avendo da un lato, la Banca sostenuto che il termine “pagamento”, utilizzato dall’art. 2033 c.c., sarebbe stato riferibile a qualsiasi prestazione che comporti la trasmissione di un valore patrimoniale in capo all’accipiens e che tale valore patrimoniale era da rinvenirsi proprio nel capital gain ottenuto dal F.A. a fronte della vendita dei titoli Telecom effettuata, in assenza di alcuna valida ragione logica e giuridica, al posto della Banca, e dall’altro il medesimo sostenuto che il “pagamento” sarebbe consistito nell’affidamento di Euro 15.000.000 (utilizzato per compiere l’Operazione Telecom), in realtà preceduto da altro affidamento di Euro 5.000.000, sufficiente a compiere l’operazione.

Di fronte al tenore di tali difese, la sentenza impugnata – secondo la ricorrente – sarebbe “andata oltre, ritenendo che “anche a prescindere dall’eventuale configurabilità di un pagamento effettuato dall’Istituto di credito appellante a favore di F.A.G.” e, quindi, accogliendo la tesi della Banca secondo la quale il pagamento ex art. 2033 è da rinvenirsi nell’accredito del capital gain ottenuto dal Signor F.A. a fronte della vendita dei titoli Telecom, tale accredito non sarebbe sprovvisto di una causa contrattuale, costituendo semplicemente il corrispettivo della compravendita dei titoli Telecom”.

In tal modo la sentenza, “accogliendo addirittura la tesi della Banca” avrebbe “fondato la propria decisione su una questione sollevata d’ufficio, su argomenti mai contestati (e nemmeno dedotti) da controparte e senza provocare il necessario contraddittorio”.

E “ciò senza considerare che, in ogni caso, l’accredito del capital gain sul conto corrente del signor F.A. è stato effettuato a soggetto non legittimato a riceverlo, dal momento che l’unico soggetto che, senza l’illecita interposizione del signor F.A., avrebbe dovuto ricevere il corrispettivo della vendita delle azioni Telecom era valga ribadirlo – la Banca, originaria titolare di tali attività.”.

4.1. Il motivo è privo di fondamento sulla base delle stesse argomentazioni con cui viene esposto: la stessa ricorrente dice che il preteso esercizio del potere di ufficio – ancora una volta non riconducibile all’art. 101 c.p.c., comma 2, ratione temporis e nemmeno all’art. 183, comma 4, vertendosi in un giudizio di appello, cui quella norma non è applicabile – sarebbe stato esercitato “accogliendo” la sua tesi in ordine all’esistenza di un pagamento e dunque valutando una sua argomentazione.

Ora, è palese che la sollecitazione a procedere a tale valutazione non poteva che comprendere anche quella a valutarne le implicazioni e segnatamente quelle inerenti alla qualificazione in iure, sicchè la corte territoriale non risulta – sebbene nella vigenza del regime anteriore all’introduzione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, – aver reso alcuna sentenza “a sorpresa”. Invero la qualificazione come indebito oppure no del pagamento, che la stessa Banca aveva ritenuto di individuare come tale di contro alla tesi del primo giudice, era un’attività in iure che, in quanto espletata sulla base delle risultanze acquisite al processo, risultava doverosa da parte della corte di appello in quanto essa doveva provvedere sulla domanda di ripetizione di indebito proposta dalla Banca e, dunque, accertare se il pagamento, pur ritenuto in ipotesi esistente, di contro all’avvisto del primo giudice, era indebito. Era tale domanda che abilitava la corte milanese a valutare in iure la sussistenza del dedotto indebito oggettivo e ciò sulla base della domanda proposta.

Mette conto, in fine, di rilevare l’assoluta novità di una prospettazione di chiusura dell’illustrazione del motivo, che viene espressa nel senso che il F.A. non fosse legittimato a ricevere il pagamento: essa, infatti, sebbene senza dirlo, introduce in modo peraltro del tutto generico una quaestio adeguata alla prospettazione di un indebito soggettivo, onde si connota appunto come nuova. E ciò al di là della valutazione di genericità.

5. Con il quinto motivo (indicato ancora come IV) ci si duole di: “violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4; violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 2041 c.c.”.

Il motivo assume come oggetto di critica la sentenza impugnata quanto al rigetto del motivo di appello con cui si era censurata la sentenza di primo grado quanto al rigetto della domanda ulteriormente subordinata proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c.

Dopo avere premesso che la sentenza impugnata ha escluso i presupposti per l’azione ai sensi dei quella norma “mancando una diminuzione patrimoniale “stante l’indimostrata sussistenza di un pregiudizio patrimoniale arrecato alla Banca” e anche in considerazione del fatto che “il prezzo di vendita delle azioni” dalla Banca al signor F.A. “è stato, sia pur di poco, superiore a quello di mercato del giorno dell’operazione” e che la Banca ha comunque ricavato un utile dalla concessione dei prestiti erogati al Cliente”, si dichiara espressamente che: “Le medesime considerazioni svolte con riferimento al II motivo di cassazione, da intendersi qui integralmente richiamate, valgono anche con riferimento al presente motivo”.

Quindi, si passa a svolgere una serie di considerazioni che si fondano sulle risultanze probatorie già commentate nel secondo motivo.

5.1. Il Collegio rileva che sia l’espressa dipendenza del presente motivo dalla prospettazione svolta nel secondo sia la circostanza che anche in esso si sollecita sostanzialmente una rivalutazione di risultanze probatorie, peraltro sostanzialmente quasi del tutto coincidenti con quelle colà prospettata, giustifica la stessa sorte che sopra si è prospettata per detto motivo.

6. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione possono essere compensate, atteso che parte resistente non ha notificato un controricorso, ma depositato una comparsa priva di contenuto assertivo e, quindi, utilizzando la facoltà concessa dal Protocollo concluso il 15 dicembre 2016 fra il Primo Presidente, il Presidente del Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura Generale dello Stato, una memoria del tutto generica in vista dell’adunanza ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c., sicchè si è in presenza di una sostanziale mancanza di attività difensiva.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si deve dare atto che la formula della decisione determina la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto che la formula della decisione determina la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 11 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2019

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