Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18050 del 28/08/2020

Cassazione civile sez. II, 28/08/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 28/08/2020), n.18050

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20462-2019 proposto da:

M.S., ELETTIVAMENTE DOMICILIATO IN Perugia, via del Sole n. 8,

presso lo studio dell’avv.to SERGIO GHERARDELLI, che lo rappresenta

e difende;

– ricorrente –

nonchè contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di PERUGIA, depositato il

27/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal Consigliere Dott. VARRONE LUCA.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. Il Tribunale di Perugia, con decreto pubblicato il 27 maggio 2019, respingeva il ricorso proposto da M.S., cittadino del Bangladesh, avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. Il Tribunale, per quel che qui interessa, riteneva che i fatti esposti dal richiedente non integrassero i presupposti per il riconoscimento della protezione richiesta. Si trattava, infatti, di motivazioni puramente economiche, avendo il richiedente riferito di essere andato via dal paese di origine dopo la morte del padre per leucemia, non disponendo di risorse economiche e non riuscendo a mantenere la propria famiglia. Non risultavano, nella specie, nemmeno prospettate le circostanze di fatto costitutive dello status di rifugiato. La fuga del ricorrente dal paese di origine non era riconducibile a ragioni di persecuzione di tipo razziale, religioso, di appartenenza ad una comunità nazionale politica, e ciò risultava dalle sue stesse dichiarazioni.

Mancavano anche i presupposti necessari per il riconoscimento della protezione sussidiaria, quali l’esposizione del ricorrente a rischio di subire in caso di ritorno in patria una condanna a morte di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. La natura strettamente privata ed anzi economica della vicenda riferita, essenzialmente legata alla volontà di ricercare differenti occasioni di lavoro per aiutare la propria famiglia, escludevano qualsiasi nesso con la situazione di conflitto armato interno ipoteticamente rinvenibile in Bangladesh.

Quanto alla domanda di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari doveva evidenziarsi che non ricorrevano, nel caso in esame, i diversi presupposti per il rilascio del suddetto permesso, pur essendo definiti in modo aperto sulla base di una nozione di vulnerabilità dovuta ad una compressione del nucleo fondamentale dei diritti umani del ricorrente. Infatti, la generale violazione dei diritti umani nel paese di provenienza che costituiva un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente doveva, anche in questi casi, necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell’istante. Il ricorrente nella specie non aveva allegato alcuna forma di integrazione tale da poter essere adeguatamente valorizzata al fine di porre in essere la suddetta comparazione tra la situazione vissuta nel paese di provenienza, quella realizzata nel territorio nazionale e quella cui sarebbe esposto in caso di rimpatrio. Mancavano dunque elementi che consentissero al collegio di procedere ad una valutazione comparativa sotto il profilo del cosiddetto statuto della dignità personale.

3. M.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi di ricorso.

4. Il ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 35 bis e 11 e artt. 24 e 111 Cost..

A parere del ricorrente l’ordinanza impugnata sarebbe censurabile perchè nel corso del giudizio non era stata disposta l’audizione del ricorrente, audizione necessaria perchè non vi era stata la videoregistrazione, e non risultava l’indicazione di chi avesse effettuato la traduzione nel corso dell’audizione presso la commissione territoriale e perchè era intenzione del richiedente riferire circostanze ulteriori rispetto a quanto affermato davanti la commissione territoriale.

1.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.

In primo luogo, il motivo difetta di specificità in quanto il ricorrente non chiarisce se nel giudizio di merito sia comparso e abbia insistito nella richiesta di essere sentito.

In ogni caso deve ribadirsi che nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale solo se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (Sez. 1, Sent. n. 5973 del 2019).

Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 11, si limita a prevedere che nel caso di mancata acquisizione della videoregistrazione dell’audizione in sede amministrativa, il giudice deve fissare, come in concreto è avvenuto, l’udienza.

Il ricorrente, se da un lato come si è detto, non afferma di essere stato presente all’udienza, dall’altro non spiega per quale ragione, avendo riguardo agli invocati parametri costituzionali, un colloquio non videoregistrato, ma comunque oggetto di verbalizzazione, imponga al tribunale di rinnovare l’audizione dell’interessato. Nè si vede come la lesione del diritto di difesa del richiedente avanti all’organo giurisdizionale possa in definitiva dipendere dalla modalità di registrazione dell’audizione di quel soggetto. E’ da evidenziare, piuttosto, come il tema della rinnovazione dell’interrogatorio avanti al giudice del merito vada affrontato avendo riguardo alla normativa Euro-unitaria, alla luce della quale va interpretata quella nazionale che ne costituisce recepimento. Deve peraltro escludersi che in base a tale referente normativo il tribunale sia sempre tenuto a procedere all’audizione del richiedente. Secondo quanto precisato da Corte giust. UE 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, “la necessità che il giudice investito del ricorso ex art. 46 della direttiva 2013/32 proceda all’audizione del richiedente deve essere valutata alla luce del suo obbligo di procedere all’esame completo ed ex nunc contemplato all’art. 46, paragrafo 3, di tale direttiva, ai fini della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti e degli interessi del richiedente. Tale giudice può decidere di non procedere all’audizione del richiedente nell’ambito del ricorso dinanzi ad esso pendente solo nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame siffatto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale con il richiedente in occasione del procedimento di primo grado”, perchè in tal caso ciò si giustifica in funzione dell’interesse a una sollecita definizione del giudizio, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo. Laddove invece il giudice – prosegue la Corte – “consideri che sia necessaria un’audizione del richiedente onde poter procedere al prescritto esame completo ed ex nunc, siffatta audizione, disposta da detto giudice, costituisce una formalità cui esso non può rinunciare”. La Corte di giustizia ha quindi definito la questione pregiudiziale stabilendo che “La direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, e in particolare i suoi artt. 12, 14, 31 e 46, letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve essere interpretata nel senso che non osta a che il giudice nazionale, investito di un ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata, respinga detto ricorso senza procedere all’audizione del richiedente qualora le circostanze di fatto non lascino alcun dubbio sulla fondatezza di tale decisione, a condizione che, da una parte, in occasione della procedura di primo grado sia stata data facoltà al richiedente di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, conformemente all’art. 14 di detta direttiva, e che il verbale o la trascrizione di tale colloquio, qualora quest’ultimo sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo, in conformità dell’art. 17, paragrafo 2, della direttiva medesima, e, dall’altra parte, che il giudice adito con il ricorso possa disporre tale audizione ove lo ritenga necessario ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto contemplato all’art. 46, paragrafo 3, di tale direttiva”.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: illegittimità del provvedimento di diniego della protezione internazionale per mancato riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria; violazione o falsa applicazione della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 e art. 3, comma 5, artt. 11, 14 e 17.

Il ricorrente contesta la decisione del Tribunale di Perugia che ha negato la protezione sussidiaria e lo status di rifugiato senza tener conto della situazione del paese di origine del richiedente e dei rischi che egli correrebbe tornando in patria, viste le continue alluvioni che colpiscono il Bangladesh e il proliferare di malattie.

Il giudice peraltro avrebbe dovuto procedere anche d’ufficio all’istruzione necessaria mentre il giudicante aveva fatto solo riferimento alle mancate allegazioni del richiedente. Peraltro, il Bangladesh è un paese dove vi è un alto rischio per la incolumità delle persone e quindi anche di quella del richiedente.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, dell’art. 10 Cost., errata e omessa motivazione sul mancato riconoscimento del diritto di asilo o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

La decisione impugnata sarebbe errata anche nella parte in cui ha negato al richiedente il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il ricorrente richiama quanto già detto con riferimento alla situazione del Bangladesh, suo paese di origine, e afferma la sussistenza dello stato di vulnerabilità visti i drammi che egli ha dovuto affrontare nel corso della sua giovane vita.

In particolare, la casa travolta e distrutta dall’alluvione, la morte del padre per malattia senza possibilità di cure per mancanza di risorse economiche, il decesso della madre, la fuga del richiedente in Libia e la sua condizione di vera e propria schiavitù fino all’arrivo in Italia. Pertanto, la continua minaccia alla propria incolumità fisica, gli atti di violenza subiti, l’impossibilità di monitorare i problemi di salute la corruzione dilagante, le torture, le detenzioni arbitrarie presenti in Bangladesh e l’impossibilità di trovare un lavoro in rapporto alla sua situazione attuale dovrebbero far propendere per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

3.1 Il secondo e il terzo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente sono infondati.

Il Tribunale ha riportato le dichiarazioni del ricorrente e le ha valutate esaurientemente, evidenziando che le ragioni della partenza del richiedente erano legate a motivazioni puramente economiche.

Il ricorrente contesta il mancato accoglimento della domanda di protezione sussidiaria e umanitaria senza tuttavia compiere quello sforzo di allegazione e di dimostrazione che rende rilevante e pertinente il richiamo alle norme e alla giurisprudenza che definiscono il contenuto e i presupposti per le due forme della protezione richiesta. Non vi è infatti nella prospettazione e illustrazione dei due motivi alcun riferimento alla situazione personale del ricorrente tale da poterla collegarla significativamente alle criticità del paese di provenienza. Sia per ciò che concerne la protezione sussidiaria, il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, che per ciò che concerne la protezione umanitaria, il D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, la domanda del ricorrente non può prescindere da una prospettazione della situazione personale che renda percepibile e plausibile una condizione di rischio grave o di vulnerabilità ricollegabile alla situazione del paese di provenienza. Come lo stesso ricorrente rileva, citando la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, una eccezione a tale principio può ritenersi ammissibile solo se risulti esistente nel paese di origine una situazione di violenza indiscriminata così diffusa da costituire un grave rischio per qualsiasi civile che si trovi a vivere o soggiornare in loco. A giudizio del Tribunale non è questo il caso del Bangladesh, non essendovi una situazione di conflitto armato nè una situazione di violenza indiscriminata di alta intensità. Correttamente quindi il Tribunale ha ritenuto che la vicenda narrata dal ricorrente non avesse a che fare con l’esposizione al rischio contemplato dall’art. 14, nè che integrasse comunque una condizione di vulnerabilità. Anche con riguardo alle deduzioni circa la condizione di povertà del Bangladesh il riferimento alla vicenda personale non consente di ritenere, secondo la valutazione del Tribunale, che la situazione personale del richiedente si differenzi da quella che condividono larghe fasce di popolazione bangladese senza che possa affermarsi una privazione della dignità personale derivante dalla scarsità delle opportunità di lavoro.

Peraltro, si tratta anche in questo caso di una valutazione di merito che si giustifica proprio con la genericità dell’esposizione del ricorrente non solo quanto alla pregressa situazione vissuta in Bangladesh ma anche quanto alle potenzialità di integrazione e di miglioramento di tale condizione nel paese di accoglienza.

4. Il ricorso è rigettato.

5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione civile, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2020

 

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