Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1804 del 24/01/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 24/01/2017, (ud. 01/12/2016, dep.24/01/2017),  n. 1804

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21110-2014 proposto da:

COMUNE DI LANCIANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 29, presso l’avvocato MASSIMO GIZZI

(Studio DI GRAVIO – GIZZI), rappresentato e difeso dall’avvocato

GIOVANNI CARLINI, giusta procura in calce al ricorso

– ricorrente –

contro

D.F.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

MARRANA 72, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CATTIVERA,

rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO GATTA, giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 496/2014 della CORTE D’APPELLO di l’AQUILA,

depositata il 23/5/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’1/12/2016 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato VINCENZO GATTA, che si riporta.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 496/2014, depositata in data 23 maggio 2014, la Corte di appello di L’Aquila, pronunciando sull’impugnazione proposta da D.F.C. nei confronti del Comune di Lanciano, in riforma della decisione del Tribunale di Lanciano, accertato il ricorso abusivo alla contrattazione a termine, condannava il Comune al risarcimento del danno in favore dell’appellante nella misura di 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori. Riteneva la Corte territoriale che le assunzioni a termine dell’appellante fossero state abusive in quanto intese a soddisfare una esigenza lavorativa ordinaria e, esclusa la possibilità di conversione del rapporto, quantificava il risarcimento del danno in applicazione del meccanismo riparatorio di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 secondo il quale il danno non può che essere inquadrato quale pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale e così a termini della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, (cinque mensilità valore minimo – comma 4 – più quindici mensilità quale misura sostitutiva della reintegra – comma 5 -).

Avverso tale sentenza il Comune di Lanciano ricorre per cassazione con quattro motivi.

D.F.C. resiste con controricorso.

Con il primo motivo il Comune ricorrente denuncia error in procedendo per vizio di ultrapetizione in relazione alla circostanza che in sede di atto di appello il lavoratore aveva solo genericamente dedotto l’illegittimità dei vari contratti succedutisi senza tuttavia eccepire che gli stessi sarebbero stati illegittimi per mancata motivazione dell’uso della contrattazione a termine. Rileva che il giudice di appello è giunto alla decisione finale per ragioni non riconducibili all’atto di appello.

Con il secondo motivo il Comune ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 in relazione al riconoscimento del risarcimento pur in mancanza di allegazione e prova del danno.

Con il terzo motivo il Comune ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 1218, 1223 e 2697 c.c. in relazione al riconoscimento di un risarcimento del danno in rapporto al pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale in assenza di ogni aspettativa a vedersi riconosciuto un impiego stabile, a tempo indeterminato.

Con il quarto motivo il Comune ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in relazione alla condanna al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio pur in presenza di un solo parziale accoglimento della domanda.

Il primo motivo presenta profili di inammissibilità laddove a sostegno dei rilievi vi è un laconico richiamo all’atto introduttivo del giudizio di primo grado ed al ricorso in appello senza alcuna precisa indicazione ovvero riproduzione dei passaggi rilevanti ai fini del dedotto vizio procedurale, in violazione del principio di autosufficienza. Si veda Cass. 20 luglio 2012, n. 12664 che si è così espressa: “Anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali”. (In applicazione di questo principio, la S.C. ha affermato che il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo); si veda in senso conforme anche la più recente Cass. 17 gennaio 2014, n. 896.

Il motivo è in ogni caso inconferente rispetto al decisum. Si consideri, infatti, che, in sede di atto introduttivo del giudizio di primo grado (per quanto si rileva dalla trascrizione del relativo passaggio effettuata dal controricorrente), era stato chiesto che fosse accertato e dichiarato l’abuso del Comune di Lanciano in relazione al continuo ricorso a forme instabili di lavoro, nonostante la consapevole, accertata e programmata situazione di stabile fabbisogno di personale. E’ stata, così, sottoposta al giudice di merito la questione della distorta utilizzazione dei contratti a termine per motivi diversi da quelli legislativamente previsti (esigenze di carattere temporaneo ovvero eccezionali ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 2, nella formulazione ratione temporis vigente). Ed è proprio a questo ricorso abusivo che la Corte territoriale ha fatto specifico riferimento evidenziando che con le assunzioni a termine il Comune di Lanciano aveva inteso soddisfare una esigenza lavorativa ordinaria, corrente, nel tempo immutata, tutt’altro che eccezionale o temporanea, in quanto destinata al soddisfacimento di esigenze permanenti e durevoli attraverso una precisa volontà elusiva di una ordinaria assunzione a tempo indeterminato. Tale passaggio motivazionale integra di per sè la ratio decidendi e rispetto) a quest’ultima i rilievi afferenti alla pure evidenziata mancanza di una indicazione formale delle ragioni dell’assunzione sono privi del carattere di decisività.

Il secondo ed il terzo motivo (da trattarsi congiuntamente stante la intrinseca connessione) sono solo in parte fondati alla luce di quanto precisato da questa Corte a sezioni unite, nella recente decisione del 15 marzo 2016, n. 5072.

In tale pronuncia è stato innanzitutto evidenziato che il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicchè non può predicarsi la conversione del rapporto quale sanzione dell’illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente – anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicchè può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, misure energiche (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale.

La medesima pronuncia ha richiamato la decisone della Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) che ha escluso ogni contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni. I infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso – enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati. In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e quello dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97 Cost., comma 3″. Ed ha sottolineato che “L’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., comma 1 di per sè rende palese la non omogeneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”. In termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo. Anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare “il buon andamento e l’efficacia dell’Amministrazione”, valori presidiati dall’art. 97 Cost., commi 1 e 3 (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 34 del 2004 e n. 1 del 1999).

Sempre nella suddetta decisione a sezioni unite è stato anche evidenziato che la Corte di giustizia, nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C- 50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., (2-378/07; nonchè ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a.,C-364107; del 24 aprile 2009, Koukou, (2519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162108, e del 1 ottobre 2010″ Affatato, C-3/10), ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro CES UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato. La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così “lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia”. Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5). Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5; precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.) che “l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.).

E’ stato poi chiarito che le considerazioni svolte sull’obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni consentono di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione – come detto – è legittima sia secondo i parametri costituzionali sia secondo quelli europei. Non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni. Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perchè una tale prospettiva non c’è mai stata.

Come è stato precisato, il danno è altro.

Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contar legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente con figurarsi.

Si può ipotizzare una perdita di chance (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato); ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.

Tuttavia l’esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede, in analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’esonero dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato) tra un minimo ed un massimo. Ad avviso delle sezioni unite, “la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n.13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perchè – si ripete – la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione”.

E’ stato così conclusivamente affermato che: “Il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perchè ciò richiede l’interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perchè impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato”.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha quantificato il danno applicando un parametro diverso da quello costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.

In conclusione si propone l’accoglimento, in parte qua, del secondo e del terzo motivo (con assorbimento del quarto) ed il rigetto del primo; la cassazione dell’impugnata pronuncia in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altro giudice di merito che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604″; il tutto Con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – Il D.F. ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c. depositata dal controricorrente con la quale quest’ultimo ribadisce le ragioni di resistenza al ricorso ed in particolare insiste nel prospettare la mancanza di impugnazione da parte del Comune ricorrente sul capo della sentenza che ha deciso il quantum debeatur. E’, al riguardo, sufficiente rilevare che la censura mossa dal Comune al riconoscimento di un risarcimento del danno in rapporto al pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale, in assenza di ogni aspettativa a vedersi riconosciuto un impiego stabile, è idonea ad intercettare (anche) il capo della pronuncia che ha scelto quale parametro da utilizzare ai fini della quantificazione del danno quello tipico (L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5) basato dal valore del posto di lavoro assistito dalla stabilità reale.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va accolto e va cassata l’impugnata sentenza, con rinvio anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2017

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