Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18033 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. II, 04/07/2019, (ud. 17/01/2019, dep. 04/07/2019), n.18033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12282-2018 proposto da:

F.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI

n. 268-A, presso lo studio dell’avvocato PIERO FRATTARELLI,

rappresentato e difeso dagli avvocati LUCA CROTTI e FRANCESCO PAOLO

LUISO;

– ricorrente –

contro

PRESIDENTE IN CARICA DEL CONSIGLIO NOTARILE DEI DISTRETTI RIUNITI DI

NOVARA, VERCELLI E CASALE MONFERRATO e CONSIGLIO NOTARILE DEI

DISTRETTI RIUNITI DI NOVARA, VERCELLI E CASALE MONFERRATO,

elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio

dell’avvocato MARIO CONTALDI, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati VITTORIO BAROSIO e SERENA DENTICO;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il

07/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/01/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PIERO FRATTARELLI, per delega degli avvocati LUCA

CROTTI e FRANCESCO PAOLO LUISO, per parte ricorrente, che ha

concluso per l’accoglimento del ricorso, e l’avvocato GIANLUCA

CONTALDI, per delega dell’avvocato MARIO CONTALDI, per parte

controricorrente, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con provvedimento del 23-28 giugno 2017 la CO.RE.DI. per il Piemonte e la Val d’Aosta comminava al notaio F.R. la sanzione disciplinare della censura in relazione alla violazione dell’art. 147, comma 1, lett. c) Legge notarile, per aver aperto e mantenuto uno studio secondario in Trecate pur avendo la propria sede in Verbania, in tal modo svolgendo attività di illecita concorrenza in danno di altro notaio.

Il F. impugnava la decisione sostenendo, in via pregiudiziale, il difetto di legittimazione a procedere della CO.RE.DI. per il Piemonte e la Val d’Aosta, poichè l’art. 152 Legge notarile prevede la competenza della Commissione della circoscrizione in cui è compreso il distretto nel cui ruolo il notaio è iscritto all’epoca della commissione del fatto; nel merito, l’insussistenza dell’addebito e la sua ricomprensione nell’ambito della previsione specifica di cui all’art. 26 della Legge notarile (la cui violazione era stata inizialmente contestata al F., il quale aveva poi fatto ricorso all’oblazione, estinguendo l’illecito); infine, il F. proponeva questione di legittimità costituzionale della Legge notarile, del Codice deontologico e della L. n. 124 del 2017 nella parte in cui dette norme non prevedono l’applicazione in favore dell’incolpato della legge più favorevole.

Con l’ordinanza impugnata la Corte di Appello di Torino respingeva il gravame confermando la sanzione.

Propone ricorso avverso detta decisione il F. affidandosi a due motivi e sollevando anche in questa sede la questione di legittimità costituzionale della L. n. 124 del 2017, della Legge notarile e del Codice deontologico, nella parte in cui dette norme non riconoscono l’automatica applicazione in favore dell’incolpato del principio del favor rei. Resistono con controricorso il Presidente del Consiglio notarile dei distretti riuniti di Novara, Vercelli e Casale Monferrato ed il Consiglio medesimo. La parte controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente affrontata la questione di legittimità costituzionale della L. 4 agosto 2017, n. 124 della L. 16 febbraio 1913, n. 89 e del codice deontologico notarile in vigore, nella parte in cui dette norme non prevedono, in caso di violazione dell’art. 147, comma 1, lett. c) Legge notarile, l’automatica applicazione in favore dell’incolpato della lex mitior, rappresentata – nel caso specifico- dall’intervenuta abolizione della disposizione. Ad avviso del ricorrente, il trattamento riservato ai notai sarebbe irragionevolmente differenziato, e deteriore, rispetto a quello assicurato, sempre in materia disciplinare, agli avvocati dalla L. 31 dicembre 2012, art. 65, comma 5 che invece ha ammesso espressamente il principio del favor rei a vantaggio degli iscritti in quella diversa categoria professionale.

La questione, nei due profili enunciati dal ricorrente, è manifestamente infondata.

Con riferimento al primo aspetto, va ribadito che la Corte costituzionale, con sentenza 20.7.2016 n. 193, ha affermato che la Corte E.D.U., nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite, non ha mai fatto riferimento al sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì a singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale. La richiesta del ricorrente di estendere la portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio amministrativo finisce per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione – qualificata “amministrativa” dal diritto interno – come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri (OMISSIS) (così denominati a partire dalla sentenza della Corte E.D.U., Grande Camera, 8 giugno 1976, (OMISSIS) e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento) e quindi travalica l’obbligo convenzionale, non tenendo conto – tra l’altro – delle peculiarità dei singoli ordinamenti nazionali e del margine di apprezzamento e di adeguamento della norma convenzionale che è loro rimesso.

Non è quindi possibile rinvenire, nel quadro delle garanzie apprestato dalla C.E.D.U., come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative.

Con riferimento invece al secondo profilo, pur potendosi effettivamente ravvisare una tendenza al progressivo riconoscimento del cd. principio del favor rei anche con riferimento a specifiche ipotesi di sanzioni estranei al diritto penale, come ad esempio in materia di violazioni tributarie e valutarie, in tema di responsabilità degli enti per illeciti penali ovvero di illeciti disciplinari commessi dagli avvocati, non è possibile, allo stato della legislazione, ipotizzare una generale validità del principio anzidetto nella materia delle sanzioni amministrative, neanche con riguardo al peculiare ambito degli illeciti disciplinari, in assenza di una norma esplicita in tal senso.

Anzi, a ben vedere proprio il fatto che il legislatore abbia ritenuto di affidare l’applicabilità del favor rei, negli specifici ambiti di cui anzidetto, a norme speciali, costituisce argomento confermativo dell’esistenza di un principio generale di segno contrario.

In argomento, questa Corte ha affermato che “In tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali ab origine, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore” (Cass. Sez.6-2, Ordinanza n. 29411 del 28/12/2011, Rv.620859; Cass. Sez. L, Sentenza n. 14959 del 25/06/2009, Rv.608792; Cass. Sez. L, Sentenza n. 5210 del 04/03/2009, Rv.608233).

Nè può essere trascurato il fatto che le Sezioni Unite di questa Corte abbiano escluso l’applicabilità del principio del favor rei alle sanzioni disciplinari “… poichè l’illecito deontologico è riconducibile al genus degli illeciti amministrativi per i quali – in difetto della eadem ratio – non trova applicazione, in via analogica, il principio del favor rei sancito dall’art. 2 c.p., bensì quello del tempus regit actum” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 14374 del 10/08/2012, Rv.623482, per gli avvocati; Cass. Sez. U, Sentenza n. 15314 del 24/06/2010, Rv.613974 e Cass. Sez. U, Sentenza n. 25815 del 11/12/2007, Rv.601080, per i magistrati), in tal modo confermando ulteriormente la differenza di trattamento esistente tra sanzione penale e sanzione amministrativa.

Il quadro di sistema non è ritenuto incoerente con la normativa C.E.D.U.; infatti “In tema di sanzioni amministrative non trova applicazione il principio di retroattività della legge successiva più favorevole posto che, come ribadito dalla Corte costituzionale con sentenza del 20 luglio 2016 n. 193, nel quadro delle garanzie apprestato dalla C.E.D.U. non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata del menzionato principio, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative nè è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9269 del 16/04/2018, Rv.648084).

La C.E.D.U. ritiene, d’altro canto, che si debba considerare di natura penale la sanzione che sia qualificata tale dalla norma che la prevede e che, in mancanza, si debba tener conto della natura della violazione o della natura, scopo e gravità della sanzione (cfr. C.E.D.U. sent. causa C-199/92 del 1999 Huls/Commissione; sentenza 8 giugno 1976 (OMISSIS) ed altri contro Paesi Bassi, serie A n. 22, par.82; sentenza 21 febbraio 1984 Ozturk c. Germania, serie A n. 73, par.53; sentenza Lutz contro Germania, serie A n. 123, par.54); criteri, questi ultimi, tra loro alternativi ma che possono essere utilizzati anche cumulativamente “se l’analisi separata di ognuno di essi non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di un’accusa in materia penale (Iussila contro Finlandia n. 73053/2001)” (sent. Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014). Aggiunge la Corte, nella sentenza da ultimo richiamata, che “il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata ((OMISSIS) ed altri sopra citata) e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta”.

Ciò posto, deve osservarsi che con specifico riferimento al rapporto esistente tra sanzione disciplinare e sanzione penale sia la giurisprudenza nazionale che quella della C.E.D.U. hanno sempre escluso la configurazione del bis in idem, muovendo dal presupposto della diversità dei beni-interessi protetti dai due differenti ambiti normativi.

In particolare, questa Corte (Cass. Sez. 2 penale, Sentenza n. 43435 del 20/06/2017, dep. 21/09/2017, non massimata) ha avuto modo di evidenziare -sulla base degli elementi enunciati dalla Grand Chambre della C.E.D.U., nella sentenza 15 novembre 2016, caso A. e B. c/Norvegia, con la quale era stato rigettato il ricorso di due contribuenti che per la medesima evasione fiscale avevano subito due distinti procedimenti, l’uno di carattere penale e l’altro amministrativo (consistenti nell’agevole prevedibilità del cumulo di sanzioni previsto dal diritto interno, della sostanziale contestualità dei due giudizi, nel richiamo, nel procedimento penale, dei fatti accertati nel procedimento amministrativo e nella considerazione, ai fini della quantificazione in concreto della sanzione penale, della già irrogata sanzione amministrativa) – il divieto del bis in idem va ritenuto sussistere solo nei casi in cui gli Stati “… con una sorta di “frode delle etichette” qualifichino formalmente come amministrative sanzioni sostanzialmente penali”. Esso, pertanto, non sussiste nelle ipotesi in cui i due giudizi, pur se aventi ad oggetto il medesimo fatto storico, presentino “… un nesso sufficientemente stretto dal punto di vista materiale…”ed in particolare:

1) siano tra loro in rapporto di complementarietà, nel senso che essi perseguono non solo in astratto ma anche in concreto aspetti diversi dell’unico atto pregiudizievole, entrambi rilevanti per la collettività;

2) la concorrente applicazione delle due sanzioni allo stesso fatto sia conseguenza prevedibile nel diritto interno;

3) i procedimenti siano condotti in modo tale da evitare, per quanto possibile, ripetizioni nella raccolta delle prove, attraverso una interazione tra le diverse Autorità procedenti tale che l’accertamento operato dall’una di esse venga necessariamente ripreso anche dall’altra;

4) la sanzione irrogata nell’uno dei due procedimenti sia considerata ai fini della quantificazione della diversa sanzione comminata nel secondo giudizio, in modo da evitare che sull’interessato gravi un onere eccessivo, assicurando al contempo che l’entità globale della sanzione sia commisurata e proporzionata all’effettiva afflittività della condotta, sotto tutti i profili ritenuti rilevanti dall’ordinamento interno.

Sulla base delle richiamate motivazioni, questa Corte ha escluso, nel precedente appena richiamato, la sussistenza del bis in idem tra la sanzione disciplinare di cui al D.P.R. n. 230 del 2000, art. 81, comma 2 e il reato di danneggiamento aggravato, in relazione al medesimo fatto rappresentato dalla volontaria rottura, da parte di un detenuto, del vetro di una finestra della casa circondariale di Ascoli Piceno nella quale il medesimo si trovava ristretto.

Negli stessi termini, con specifico riferimento al rapporto esistente tra giudizio penale e procedimento disciplinare previsto per i notai, si è ritenuto che “… in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in relazione al principio del ne bis in idem – secondo le statuizioni della sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia – in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicchè ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2927 del 03/02/2017, Rv.643161; in termini analoghi, con riferimento al diverso tema delle sanzioni previste per il cd. pubblico impiego privatizzato, cfr. anche Cass. Sez. L, Sentenza n. 25485 del 26/10/2017, Rv.646112, secondo la quale “… il lavoratore, condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato, non può invocare l’art. 4 del protocollo 7 della CEDU per sottrarsi al procedimento disciplinare, che il datore di lavoro abbia avviato per i fatti contestati in sede penale”).

In coerenza con i principi sin qui richiamati, va ritenuta la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente.

2. Passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo di essi il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 26, comma 2 e art. 147, comma 1, lett. c) Legge notarile in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe errato nel non ravvisare, tra le due disposizioni di cui anzidetto, un concorso formale di norme e, di conseguenza, nel non considerare che l’intervenuta oblazione della sanzione speciale di cui all’art. 26 esaurisse anche i profili di punibilità prescritti dall’art. 147 stessa legge.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 147, comma 1, lett. c) Legge notarile in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte di Appello avrebbe omesso di applicare al ricorrente la norma di maggior favore, violando in tal modo i principi C.E.D.U. affermati, tra l’altro, dalla cd. sentenza Grande Stevens.

Le due censure, che possono essere trattate congiuntamente, non sono fondate.

3. In particolare, la seconda di esse va disattesa in quanto, pur se effettivamente la nuova formulazione della L. n. 89 del 1913, art. 147 non fa più riferimento – a differenza del testo in precedenza vigente – alla concorrenza illecita tra i notai “… con riduzioni di onorari, diritti o compensi, ovvero servendosi dell’opera di procacciatori di clienti, di richiami o pubblicità non consentiti dalle norme deontologiche, o di qualunque altro mezzo non confacente al decoro e al prestigio della classe notarile”, tuttavia alla materia disciplinare si applica, ove non diversamente previsto, il principio generale del tempus regit actum (cfr. ad esempio, in materia di sanzioni disciplinari per gli avvocati, Cass. Sez. U, Sentenza n. 14374 del 10/08/2012, Rv.623482 e Cass. Sez. U, Sentenza n. 15120 del 17/06/2013, Rv.626758; nonchè, in materia di sanzioni disciplinari per gli esercenti le professioni sanitarie, Cass. Sez.3, Sentenza n. 25494 del 30/11/2006, Rv.596245 e Cass. Sez.3, Sentenza n. 8587 del 14/06/2002, Rv.555067).

L’opposto principio della applicazione retroattiva della norma di maggior favore trova la sua giustificazione normativa, per le sanzioni disciplinari degli avvocati, nell’esplicita previsione della L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5 che ha recepito il criterio del favor rei in luogo di quello del tempus regit actum (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 30993 del 27/12/2017, Rv.646740). E peraltro anche in quel caso la retroattività è stata esclusa con riferimento all’istituto della prescrizione dell’illecito, in assenza di specifica previsione normativa in tal senso (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9558 del 18/04/2018, Rv.648104).

Allo stesso modo, nelle sanzioni disciplinari previste per i magistrati questa Corte ha valorizzato il fatto che l’ultrattività della legge anteriore più favorevole era espressamente prevista, sia pure per un limitato lasso temporale, dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32-bis, comma 2 (Cass. Sez. U, Sentenza n. 967 del 21/01/2010, Rv.611108) dovendosi invece far riferimento, al di fuori della richiamata norma di favore, al principio generale del tempus regit actum.

Il diverso principio della cd. retroattività in mitius invocato dal ricorrente è invece ritenuto configurabile soltanto in presenza di sanzioni di carattere formalmente o sostanzialmente penale, dovendosi intendere nel secondo caso quelle particolari ipotesi in cui la sanzione, pur essendo nominalmente amministrativa, presenta tuttavia caratteri “punitivi” alla luce dell’ordinamento convenzionale. Ne costituiscono esempi la confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate (cfr. Corte Cost., sentenze n. 68 del 2017 e n. 223 del 2018) ovvero la sanzione pecuniaria relativa alla medesima fattispecie, ritenuta -quest’ultima – di particolare afflittività alla luce dell’elevato massimo edittale e della possibilità di triplicare quest’ultimo per giungere sino ad un importo di dieci volte il profitto conseguito o le perdite evitate (cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma ed altri, cause C596/16 e C-596/16 par.38).

Il caso di specie si differenzia da quelli appena richiamati sotto due concorrenti profili.

Da un lato, la sanzione ha carattere disciplinare e quindi trova la sua giustificazione nell’ordinamento interno di una specifica categoria professionale, rispetto al quale possono permanere specifiche esigenze di particolare severità anche in ragione della peculiare attività svolta dagli appartenenti. Questa esigenza, in particolare per la categoria dei notai, ha uno specifico rilievo alla luce della delicatezza delle funzioni svolte e della fede privilegiata che assiste la maggior parte dell’attività notarile.

Dall’altro lato, la sanzione in concreto irrogata al ricorrente non presenta elementi di particolare afflittività in relazione ai quali si potrebbe – in linea teorica – porre la questione della retroattività in mitius.

4. Per quanto invece attiene alla prima censura proposta dal ricorrente, va osservato che nel caso di specie non sussiste alcun concorso formale di norme: l’art. 26 Legge notarile, infatti, sanziona specificamente l’apertura di uno studio fuori distretto, mentre l’art. 147 della predetta normativa – che nella formulazione anteriore all’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017, applicabile ratione temporis, costituisce norma di chiusura del sistema – sanziona qualsiasi condotta idonea a recare pregiudizio alla categoria creando concorrenza illecita tra i notai con qualunque mezzo non confacente al decoro e al prestigio della categoria.

L’art. 147 delinea pertanto una peculiare fattispecie di illecito di pericolo a condotta libera (Cass. Sez. 6-3, Sentenza n. 21203 del 13/10/2011, Rv.620006) per la cui configurabilità non è richiesta la prova specifica del danno; detta fattispecie è posta a tutela dell’ordinato svolgimento della concorrenza tra professionisti appartenenti alla categoria (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17266 del 28/08/2015, Rv. 636221; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10872 del 07/05/2018, Rv. 648829) e ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale.

Ne consegue l’irrilevanza dell’intervenuta oblazione dell’illecito conseguente alla violazione dell’art. 26 Legge notarile, rispetto alla separata contestazione del diverso ed autonomo illecito derivante dalla violazione dell’art. 147 Legge notarile, nel testo applicabile ratione temporis.

Nè può sostenersi che la violazione della norma da ultimo richiamata sia stata in concreto contestata in assenza di un quid pluris rispetto alla semplice condotta di apertura della sede secondaria non autorizzata (oggetto della diversa fattispecie prevista dall’art. 26 Legge notarile), posto che la Corte di Appello ha evidenziato, nel provvedimento impugnato, una serie di elementi caratterizzanti la fattispecie, quali in particolare: (1) il fatto che le affermazioni rese dal ricorrente nella fase amministrativa, secondo cui lo studio in (OMISSIS) era stato gestito in vista di una associazione professionale da costituirsi con il notaio V., che all’epoca dei fatti era avvocati, erano state smentite dal diretto interessato, appositamente audito dinanzi il Consiglio notarile di Novara, il quale aveva descritto un diverso contesto di collaborazione professionale, limitata nel tempo, in attesa della sua nomina a notaio; (2) il fatto che le fatture depositate nel procedimento amministrativo dal F. recassero la dicitura “collaborazione professionale”, con ciò confermando l’inesistenza della dedotta associazione professionale tra notai; (3) il fatto che comunque il rapporto di collaborazione si fosse sciolto il 19.11.2015, così privando – almeno a partire da tale data – di qualsiasi legittimazione, ancorchè apparente, l’attività svolta dal F. presso la sede secondaria di (OMISSIS); (4) il numero di atti rogati dal F. presso detta sede, maggiore di quello relativo alla sede principale di Verbania; (5) la differenza dimensionale tra le due sedi e le relative strutture, a vantaggio di quella asseritamente secondaria; (6) ed infine, la circostanza che “proprio l’aver creato l’apparenza legittimante di una associazione fra notari, prima – e senza – che questa fosse stata veramente costituita, appare di per sè plus di comportamento disdicevole quale richiesto dalla giurisprudenza (peraltro risalente e riferita ai recapiti) che lo stesso ricorrente cita, per l’irrogazione della sanzione prevista dall’art. 147 L.N.” (cfr. pag. 7 del provvedimento della Corte di Appello impugnato).

In definitiva, il ricorso va rigettato e le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dei presupposti per l’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 17 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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