Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17999 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 04/07/2019, (ud. 09/04/2019, dep. 04/07/2019), n.17999

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 879-2017 proposto da:

C.P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHIANA N.

48, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PILEGGI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CONFEDERAZIONE NAZIONALE COLDIRETTI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DI RIPETTA 22, presso lo studio legale GERARDO VESCI & PARTNERS,

rappresentata e difesa dall’Avvocato GERARDO VESCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1696/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/06/2016 R.G.N. 2262/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/04/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONIO PILEGGI;

udito l’Avvocato GERARDO VESCI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. C.P.P., dipendente della Coldiretti con qualifica dirigenziale (qualifica oggetto di accertamento giudiziale passato in giudicato), veniva licenziato una prima volta il 12 aprile 1996. Tale licenziamento veniva dichiarato ritorsivo e il lavoratore veniva reintegrato L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18, con pronuncia del giudice di merito confermata da questa Corte con decisione del 25 luglio 2008, n. 20500.

2. Immediatamente dopo la pronuncia del dispositivo di accertamento della nullità del primo licenziamento e dopo il compimento del 65mo anno di età, il ricorrente veniva nuovamente licenziato in data 24 settembre 2003.

3. Il C. conveniva nuovamente in giudizio la Coldiretti innanzi al Tribunale di Roma per sentire accertare l’illegittimità del secondo licenziamento e per ottenere la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno, nonchè il pagamento delle retribuzioni sulla base della qualifica dirigenziale dal primo licenziamento al secondo.

4. Il Tribunale adito accoglieva solo la domanda relativa alle retribuzioni per il periodo intercorso tra il primo licenziamento dichiarato ritorsivo ed il secondo e condannava parte convenuta al pagamento della somma di Euro 551.711,09, oltre accessori di legge. Respingeva l’impugnazione del secondo licenziamento.

5. Avverso tale sentenza il C. proponeva appello principale e la Coldiretti appello incidentale. La Corte di appello di Roma, in limitato accoglimento dell’appello del C., condannava la Coldiretti a pagare al dirigente l’ulteriore somma di Euro 27.888 a titolo di indennità di preavviso, oltre accessori di legge, confermando nel resto la pronuncia di primo grado.

5.1. Per quanto ancora rileva nella presente sede, la Corte territoriale osservava:

– quanto al licenziamento, che il segretario generale che aveva sottoscritto la lettera di recesso non era munito del relativo potere e che quindi non poteva condividersi l’assunto del primo giudice secondo cui l’atto era formalmente valido, in quanto proveniente dal datore di lavoro; che tuttavia da tale vizio non potevano scaturire conseguenze ripristinatorie, data la qualifica dirigenziale del C.; che neppure erano state avanzate pretese risarcitorie, al di fuori del pagamento del periodo di preavviso;

– quanto alla pretesa di vedere rideterminato il proprio trattamento retributivo per il periodo compreso dall’assunzione (1971) al primo licenziamento secondo i parametri della qualifica dirigenziale, a prescindere dalla contestata natura ontologicamente dirigenziale delle mansioni effettivamente svolte, non vi erano elementi per ritenere applicabile il CCNL dei dirigenti del settore commercio e servizi (il ricorrente era stato invece integralmente retribuito secondo i parametri previsti per i livelli via via assegnatigli); quanto al periodo successivo, effettivamente regolato dal contratto dirigenziale, la pretesa di vedere applicato il trattamento corrisposto ad altri dirigenti che secondo il ricorrente sarebbero stati retribuiti in misura maggiore – era priva di fondamento, stante l’insussistenza del nostro ordinamento di un principio di parità di trattamento.

6. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso il C. affidato a tre motivi. La Coldiretti ha resistito con controricorso.

7. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 4 e della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18. Lamenta che la Corte territoriale, pur avendo accertato che il licenziamento era stato intimato da soggetto non legittimato, aveva erroneamente escluso l’applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, non applicabile ratione temporis) o comunque l’applicazione del regime di inefficacia del licenziamento e ripristino del rapporto di lavoro.

1.1. Il motivo è infondato. Con la sentenza n. 20500 del 2008 di questa Corte, emessa tra le stesse parti e avente ad oggetto il primo licenziamento, è stata riconosciuta espressamente alla odierna controricorrente natura di organizzazione di tendenza, precisando che nell’ipotesi oggetto di quel giudizio (ossia relativamente al primo licenziamento intimato al C.) si verteva in un caso di licenziamento intimato per ritorsione, per cui trovava applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro. In quella sede questa Corte aveva affermato che la L. n. 108 del 1990, art. 4 nel riconoscere alle cosiddette organizzazioni di tendenza l’inapplicabilità dell’art. 18 statuto dei lavoratori, ha fatto salva l’ipotesi regolata dall’art. 3 sull’estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori; ne consegue che, ove il licenziamento sia stato determinato da motivo di ritorsione o rappresaglia, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore, restando privo di rilievo il livello occupazionale dell’ente e la categoria dirigenziale cui apparteneva il C.. Il principio è stato anche recentemente confermato nel senso che la L. n. 108 del 1990, art. 4 nel riconoscere alle cd. organizzazioni di tendenza il privilegio dell’inapplicabilità dell’art. 18 st.lav., fa salva l’ipotesi regolata dall’art. 3 sull’estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia, sicchè, in tale evenienza, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore (nella specie, avente la carica di dirigente sindacale), restando privo di rilievo il livello occupazionale dell’ente e la categoria di appartenenza del dipendente (Cass. n. 19695 del 2016).

1.2. L’ipotesi di licenziamento illegittimo per carenza di potere dell’organo che (o ha emesso esula dal predetto ambito applicativo, comportando l’inefficacia dell’atto fino alla sua ratifica (Cass. n. 17461 del 2003, n. 28514 del 2008).

1.3. In proposito, il ricorrente menziona Cass. n. 8621 del 2001 per sostenere la nullità dell’atto di recesso. La tesi è infondata. La predetta sentenza ha affermato che il licenziamento intimato da soggetto che non riveste la qualità di datore di lavoro è totalmente privo di effetti. Tale principio non riguarda l’ipotesi di licenziamento intimato da un soggetto appartenente alla compagine sociale, ma privo del potere rappresentativo; essa si riferisce all’ipotesi più radicale di licenziamento intimato da soggetto che non è datore di lavoro e dunque in quest’ultimo caso il licenziamento è inesistente, nel primo è inefficace fino a che non intervenga una ratifica.

1.4. Più volte la giurisprudenza di questa Corte ha affermato (vedi Cass. n. 7044 del 2010 e precedenti pronunce ivi richiamate) che può considerarsi valido anche un licenziamento intimato con una lettera non sottoscritta, ma recante nell’intestazione e in calce la denominazione dell’impresa e il nome del titolare e sia così riferibile all’effettivo datore di lavoro. Tale caso non può neppure assimilarsi ad un licenziamento orale (ipotesi in cui il licenziamento è nullo e inidoneo a produrre alcun effetto e, quindi, anche la risoluzione del rapporto; principio ritenuto applicabile anche alle organizzazioni di tendenza, cfr. Cass. n. 7176 del 1996).

1.5. Nel caso in esame, incontestata la riferibilità del licenziamento alla Confederazione nazionale Coldiretti (la sentenza riferisce che “il ricorrente ha riconosciuto il soggetto firmatario”), si verte in un’ipotesi di licenziamento inefficace fino alla sua ratifica. Più volte questa Corte ha avuto modo di affermare il principio di diritto secondo cui la disciplina dettata dall’art. 1399 c.c. – che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo del potere di rappresentanza – è applicabile, in virtù dell’art. 1324 c.c., anche a negozi unilaterali come il licenziamento. Pertanto, la dichiarazione di recesso proveniente da un organo della società datrice di lavoro sfornito del potere di rappresentanza della medesima può essere efficacemente ratificata dall’organo rappresentativo della società anche in sede di costituzione in giudizio per resistere all’impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore che deduca il detto difetto di rappresentanza (Cass. n. 2824 del 1990, n. 814 del 1986, n. 1250 del 1985, n. 501 del 1984; n. 5308 del 1980). Dunque, il licenziamento di un dipendente, intimato da un organo del datore di lavoro che sia privo del relativo potere, realizza una situazione soggettivamente complessa a formazione successiva, destinata a perfezionarsi con la ratifica del dominus, in mancanza della quale l’atto di recesso non è nè nullo, nè annullabile, ma temporaneamente privo di effetti e soltanto nei confronti dell’ente irregolarmente rappresentato: questo è l’unico soggetto dal quale tale temporanea inefficacia è rilevabile, finchè non intervenga la ratifica (Cass. n. 855 del 1987; v. pure 1594 del 1987).

1.6. Nè varrebbe in contrario opporre che tale efficacia retroattiva della ratifica non possa operare nei confronti del dipendente licenziato. Invero, il lavoratore non può considerarsi terzo, del quale, rispetto all’effetto retroattivo della ratifica, sono fatti salvi i diritti a norma dell’art. 1399 c.c., comma 2, giacchè egli non è un avente causa dal dominus di diritti incompatibili con quello su cui è destinata ad incidere la dichiarazione unilaterale datoriale, siccome titolare di una posizione soggettiva costituita con il dominus proprio in virtù del rapporto di lavoro subordinato (cfr.: Cass. n. 1250 del 1985 e n. 2824 del 1990).

1.7. Il principio è stato recentemente ribadito anche in materia disciplinare, per cui il lavoratore incolpato non può pretendere di contrapporre alla ratifica del dominus il verificarsi di preclusioni o decadenze che presuppongono l’inefficacia dell’atto ratificato e che invece devono ritenersi non verificatesi proprio per effetto dell’operatività ex tunc dalla ratifica, per cui l’atto emesso dal soggetto privo del potere rappresentativo è divenuto efficace sin dal suo compimento (v. Cass. n. 21032 del 2016, in motivazione, in tema di procedimenti disciplinari nel pubblico impiego contrattualizzato).

1.8. La Corte di appello ha riferito che non era intervenuta una ratifica espressa. Al riguardo, tuttavia, non può essere condivisa la soluzione espressa dal giudice di merito, in quanto la costituzione in giudizio con memoria difensiva in cui si esterna la volontà di parte datoriale di resistere all’impugnativa del licenziamento integra gli estremi di una ratifica implicita, ma espressa in forma scritta.

1.9. In proposito, occorre osservare che questa Corte ha già affermato che la ratifica di un contratto soggetto alla forma scritta ad substantiam, stipulato dal falsus procurator, non richiede che il dominus manifesti per iscritto espressamente la volontà di far proprio quel contratto, ma può essere anche implicita – purchè sia rispettata l’esigenza della forma scritta – e risultare da un atto che, redatto per fini che sono consequenziali alla stipulazione del negozio, manifesti in modo inequivoco la volontà del dominus incompatibile con quella di rifiutare l’operato del rappresentante senza potere (v. tra le più recenti, Cass. n. 21844 del 2010, nonchè Cass. n. 12647 del 2008; v. pure Cass., 11123 del 1991, n. 4794 del 1999).

1.10. Dunque, deve ritenersi che, nel caso di un licenziamento emesso da un organo appartenente alla struttura organizzativa dell’ente, ma privo del potere di rappresentanza, l’atto di costituzione in giudizio con cui il datore resiste all’impugnativa del licenziamento costituisce manifestazione della volontà di far proprio quell’atto, di cui costituisce ratifica implicita, ma avente forma scritta.

1.11. La sentenza di appello va dunque corretta nella motivazione ex art. 384 c.p.c., comma 2, essendo conforme a diritto il dispositivo (e non occorrendo impugnazione incidentale da parte della Coldiretti, parte completamente vittoriosa nel merito). Difatti, correttamente la Corte di appello ha ritenuto non applicabile la tutela reintegratoria. Inoltre, pur ritenendo il licenziamento inefficace ed affermando che il lavoratore avrebbe avuto diritto al risarcimento del danno, determinabile anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute (cfr. tra le tante Cass. n. 13669 del 2016, 18844 del 2010), ha accertato che nella specie non era stato rivendicato alcun risarcimento del danno, ma solo l’indennità sostitutiva del preavviso. In altri termini, la Corte ha dato atto – con accertamento non specificamente censurato – che “…nemmeno sono state richieste conseguenze risarcitorie”, ossia domande economiche ulteriori rispetto al pagamento dell’indennità di preavviso. Quest’ultima domanda è stata accolta dalla Corte di appello, che ha riconosciuto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata nel resto, l’ulteriore somma di Euro 27.888,00 oltre accessori dalla maturazione al saldo (statuizione pure passata in giudicato in difetto di impugnazione di Coldiretti).

2. Con il secondo motivo del ricorso principale il C. denuncia omessa pronuncia sulla natura ritorsiva anche del secondo licenziamento, finalizzato ad eludere l’ordine di reintegrazione relativo all’accertamento della nullità del primo licenziamento.

2.1. Il motivo è inammissibile per violazione degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non essendo stato trascritto, almeno nelle parti essenziali, il contenuto degli atti posti a base della censura. Nel ricorso si afferma che “…nel fascicoletto che sarà depositato con il ricorso saranno evidenziate in giallo le parti del ricorso di primo grado e del ricorso in appello nella quali sono state articolate le domande oggetto di omesso esame. Queste comunque le parti del ricorso di primo grado rilevanti: da pag. 28 in poi, punti da 1.13 a 1.43. Queste le parti del ricorso in appello: pagg. da 34 a 37, da 40 a 44, pag. 98”. Tale tecnica di redazione dell’atto non soddisfa i requisiti formali richiesti per l’ammissibilità del ricorso, sia perchè le argomentazioni poste a base del motivo sarebbero contenute in un atto diverso, depositato successivamente alla notifica (si legge in calce al ricorso: “produrremo copia autentica della sentenza impugnata ed istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio in duplo ex art. 369 c.p.c., oltre al fascicoletto con gli atti rilevanti da sottoporre a consultazione”), sia perchè non può essere rimessa a questa Corte la ricostruzione delle ragioni poste a base dell’impugnazione attraverso estrapolazione, ancorchè agevolata (dalla sottolineatura) delle parti ritenute salienti.

2.2. Nè l’indicata forma espositiva può essere giustificata dall’esigenza di consentire la verifica degli atti, poichè tale verifica attiene ad una fase successiva a quella di redazione del ricorso e può essere assolta attraverso l’allegazione, di seguito al ricorso, di copia degli atti ritenuti strumentali allo scopo (cfr. Cass. n. 17447 del 2012).

2.3. Detta modalità grafica viola, dunque, il precetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che impone l’esposizione sommaria dei fatti di causa. Ove si assuma che la sentenza impugnata non abbia tenuto conto o abbia mal interpretato determinati atti processuali, costituisce onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale degli atti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore. (cfr. Cass. S.U. n. 5698 del 2012, nonchè, ex plurimis, Cass. 10244, 17002 e 26277 del 2013).

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 277 c.p.c. per omessa pronuncia sulla domanda di adeguamento retributivo ex art. 36 Cost. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4). In subordine, vizio assoluto di motivazione per omesso esame del fatto decisivo per il giudizio relativo alla inadeguatezza della retribuzione con riferimento a caso identico (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

3.1. Il motivo non è meritevole di accoglimento. Innanzitutto, la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c.e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, si coglie nel senso che, mentre nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia (Cass. n. 1539 del 2018, n. 25761 del 2014).

3.2. Tanto premesso, deve rilevarsi la contraddittorietà del ricorso che, da un lato, prospetta un omesso esame della domanda di adeguamento retributivo ex art. 36 Cost. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c.) e, dall’altro, lamenta l’omessa esame di un fatto decisivo in relazione alla medesima questione (art. 360 c.p.c., n. 5). La cumulativa censura;li- risolve in una sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, tra loro incompatibili, quali quella della omessa pronuncia, che suppone non esaminata la domanda, e quella del vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, che suppone che tale esame sia avvenuto, censurandone invece il relativo accertamento per avere il giudice di merito trascurato un fatto rilevante e decisivo. L’esposizione cumulativa delle questioni, oltre ad essere logicamente incompatibile, finisce per rimettere al giudice di legittimità il compito di ricercare la censura utilizzabile allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse.

3.3. Sembra poi che parte ricorrente alluda ad una erronea ricognizione della domanda introduttiva, laddove afferma che pretesa relativa alle differenze retributive dal 1.1.1971 al 30.6.95 non era quella, ritenuta dal giudice di appello, di applicazione di un differente CCNL, ma quella dell’adeguamento retributivo ex art. 36 Cost., stante la riconosciuta qualifica dirigenziale. Ove dovesse in tal senso intendersi la censura, il motivo sarebbe comunque inammissibile ex art. 366 c.p.c., stante l’omessa la trascrizione degli atti da cui evincere il contenuto della domanda originaria.

4. Infine, quanto all’integrazione documentale che viene proposta in sede di memoria difensiva, va osservato che l’eventuale vizio del ricorso per cassazione non può essere sanato da integrazioni, aggiunte o chiarimenti contenuti nella memoria di cui all’art. 378 c.p.c., la cui funzione è di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi debitamente enunciati nel ricorso e non già di integrarli (Cass. n. 30760 del 2018).

5. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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