Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17989 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/07/2019, (ud. 31/05/2019, dep. 04/07/2019), n.17989

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28324/2015 R.G. proposto da:

Clean Fast Service s.r.l. in liquidazione, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.

Cortazzo Michele, elettivamente domiciliata presso lo studio

dell’Avv. Germani Fabio, in Roma, Via Matera n. 23/A, in virtù di

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

n. 3677/10/2015, depositata il 23 giugno 2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31 maggio

2019 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

Fatto

RILEVATO

Che:

1. L’Agenzia delle entrate, a seguito di verifica sugli acquisti dalla venditrice Meridiana Scarl, emetteva avviso di accertamento nei confronti dell’acquirente Clean fast Service s.r.l., ai fini Ires, Iva e Irap, in quanto la Meridiana (ritenuta una cartiera) non aveva presentato la dichiarazione dei redditi e dell’Iva per l’anno 2007, la convenzione di appalto tra le due società era del tutto generica, come pure le fatture (“lavori di manodopera svolti per vs. conto nel mese di”, parte della somma risultava versata in contati (Euro 71.600,00 su Euro 129.350) e non erano stati prodotti gli assegni asseritamente utilizzati per una porzione dei pagamenti. Trattavasi, quindi, di fatture emesse per operazioni inesistenti.

2. La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello proposto dalla contribuente avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale che aveva respinto il ricorso del contribuente, evidenziando che la sentenza di prime cure era adeguatamente motivata, che i costi relativi ai servizi asseritamenti resi dalla Meridiana, per Euro 129.350,00, erano stati disconosciuti per la “mancata dimostrazione della effettività delle prestazioni fatturate dalla predetta società”, che la contribuente non aveva dimostrato con documenti l’esistenza dei costi e la loro inerenza.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società, depositando anche memoria scritta.

4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 spiegato per violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ovvero gli art. 109, comma 5, Tuir nonchè gli artt. 2697,2727 e 2729 c.c.”, in quanto il giudice di appello ha compiuto una erronea applicazione della regola di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., oltre che del D.P.R. n. 916 del 1986, art. 109, comma 5, avendo identificato i concetti di inesistenza e di non inerenza dei costi. In realtà, l’Ufficio ha fondato l’avviso di accertamento sul “disconoscimento dei costi” e non sulla assenza di inerenza, sicchè è erronea l’applicazione alla fattispecie dell’art. 109, comma 5 Tuir. In realtà, a fronte della esibizione della fattura, spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per la detrazione o la deduzione. L’Agenzia, in tal caso, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione non è stata effettuata. Solo in tale secondo momento l’onere della prova si trasferisce al contribuente che deve, appunto, dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Nella specie, la società ha esibito la fattura, il registro iva acquisti, il partitario fornitore, il regolamento afferente i pagamenti e le modalità degli stessi, oltre al contratto di appalto. L’Agenzia delle entrate avrebbe dovuto dimostrare, dinanzi a tale apparato probatorio, che in realtà l’operazione non era stata effettuata e che la società emittente la fattura era una “cartiera”.

1.1.II motivo è infondato.

Invero, per questa Corte, in tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che le operazioni commerciali oggetto di fatturazione non sono mai state poste in essere, indicando gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione (Cass., 27554/2018; Cass., 21953/2007; Cass., 9363/2015; Corte Giustizia, 6 luglio 2006, C -439/04; 31 novembre 2013, C-642/11), mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo, altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, trattandosi di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass., 15 maggio 2018, n. 11873; Cass., 27554/2018; Cass., 28683/2015; Cass., 5406/2016).

Si è anche precisato che, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova (ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasma”) dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 5 luglio 2018, n. 17619).

Inoltre, una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo (Cass., 14 settembre 2016, n. 18118).

Nella specie, il giudice di appello, sia pure con motivazione sintetica, ha applicato correttamente il principio giurisprudenziale sopra indicato. Infatti, dapprima ha chiarito, nella parte della sentenza dedicata alla “succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa”, che i pagamenti in favore della Meridiana, società che avrebbe rogato i servizi in favore della contribuente, erano in parte avvenuti in contanti e che la contribuente non aveva prodotto le copie degli assegni relative ai restanti pagamenti. Pertanto, in tal modo la Commissione regionale ha indicato gli elementi indiziari che inducevano a ritenere oggettivamente inesistenti tali operazioni, dovendosi tenere conto dell’importo elevato delle spese, pari ad Euro 129.350,00. A quel punto il giudice di appello, avendo ritenuto corretto il disconoscimento dei costi per servizi resi dalla Meridiana per la mancata dimostrazione della effettività delle prestazioni fatturate dalla stessa, ha evidenziato che la contribuente non ha dimostrato documentalmente, con elementi certi e precisi, il sostenimento di tali costi, precisando che “a fronte del contestato disconoscimento dei costo il contribuente è rimasto inerte”.

Va, poi, tenuto conto che, come emerge dal controricorso, la Meridiana s.r.l. per l’anno di imposta 2007 non ha presentato nè la dichiarazione dei redditi nè la dichiarazione ai fini Iva.

Pertanto, la regola sull’onere della prova è stata applicata correttamente dal giudice di appello.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 spiegato per violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ovvero l’art. 109, comma 5, Tuir sotto altro profilo”, in quanto il giudice di appello ha erroneamente applicato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, in ordine al principio di inerenza dei costi. Infatti, se l’acquisto dei beni rientra tra le spese astrattamente riconducibili all’attività di impresa, sul contribuente non grava alcun onere probatorio in ordine alla loro inerenza. Spetta all’Ufficio, che intende contestare la deducibilità dei costi, allegare la prova della non inerenza degli stessi. Al contrario, nella specie, la Commissione regionale ha dato rilievo solo al semplice disconoscimento operato dall’Ufficio. Non è, infatti, oggetto di discussione che la contribuente svolgesse attività di lavanderia e fosse astrattamente riconducibile a quell’attività il trasporto ed il facchinaggio da parte della Meridiana.

2.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la sentenza del giudice di appello poggia su due distinte ed autonome rationes decidendi, in quanto i costi sono stati disconosciuti sia per la loro inesistenza sia per la loro inerenza.

Il rigetto del primo motivo di ricorso, relativo al preteso errore di applicazione della regola di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., con conseguente disconoscimento dei costi, in quanto relativi ad operazioni inesistenti, comporta che il passaggio in giudicato della decisione di appello sul punto, eliminando ogni interesse all’esame del secondo motivo di impugnazione.

Se i costi sono ormai ritenuti inesistenti, è chiaro che diventa irrilevante e superflua ogni questione sulla loro inerenza.

Invero, costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui il giudice di merito che, dopo avere aderito ad una prima “ratio decidendi”, esamini ed accolga anche una seconda “ratio”, al fine di sostenere la propria decisione, non si spoglia della “potestas iudicandi”, atteso che l’art. 276 c.p.c., distingue le questioni pregiudiziali di rito dal merito, ma non stabilisce, all’interno di quest’ultimo, un preciso ordine di esame delle questioni; in tale ipotesi, pertanto, la sentenza risulta sorretta da due diverse “rationes decidendi”, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, sicchè l’inammissibilità del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti all’altra, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile (Cass., 13 giugno 2018, n. 15399).

3.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 31 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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