Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17985 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/07/2019, (ud. 31/05/2019, dep. 04/07/2019), n.17985

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11673/2013 R.G. proposto da:

D.G.L., rappresentata e difesa dall’Avv. Alberto

Marcheselli e dall’Avv. Raimondo Fulcheri, elettivamente domiciliata

presso lo studio dell’Avv. Marina Milli, in Roma, Via Marianna

Dionigi n. 29, in virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, n. 187/24/2012, depositata il 17 dicembre 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31 maggio

2019 dal Consigliere Dott. D’Orazio Luigi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. L’Agenzia delle entrate emetteva due avvisi di accertamento, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, art. 37, comma 3 e art. 41 bis nei confronti di D.G.L., per gli anni 2006 (da Euro 15.907,00 ad Euro 112.990,00) e 2007 (da Euro 22.794,00 ad Euro 127.443,00), evidenziando che la contribuente aveva solo fittiziamente trasferito la sua quota della società Sarny sas di L.P.T. alla Profil Mec, in data 11-11-2004, ma, in realtà, aveva continuato a percepire quasi la totalità degli utili della società, nonostante fosse rimasta mera nuda proprietaria. Né rilevava la cessione del 29 % della sua quota (del 30 %) al proprio figlio, restando così formalmente proprietaria solo dell’1 % delle quote. Pertanto, il reddito della società è stato attribuito per il 30 % alla contribuente. Vi era stata interposizione fittizia della Profil Mec nell’imputazione degli utili sociali, in virtù del fittizio contratto di cessione del diritto di usufrutto delle quote sociali. La Profil Mec, invece, aveva compensato il reddito da partecipazione con i costi derivanti dall’acquisto dei diritti di usufrutto di altre società, alcune delle quali in perdita da almeno tre anni.

2. La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello proposto dalla contribuente avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Varese, che aveva respinto il ricorso della D.G.. In particolare, quanto al dedotto errore materiale, in cui sarebbe incorso il primo giudice, che ha quantificato la quota sociale nel 30 %, anziché nell’1 %, dopo la cessione del 29 % delle quote al figlio, per il giudice di appello, il trasferimento della nuda proprietà di una quota sociale non comporta che il nuovo nudo proprietario possa percepire gli utili relativi, che restano attribuiti all’usufruttuario. Il secondo motivo di appello relativo alla effettività della cessione del diritto di usufrutto ed alla insindacabilità della antieconomicità della operazione il motivo era “assolutamente generico”, ignorando del tutto il ragionamento posto a base della decisione. Nè era fondato il motivo sulla violazione del principio di unitarietà dell’accertamento del reddito della società di persone e dei singoli soci, in quanto il reddito della società non era stato oggetto dell’accertamento. Il quarto ed il quinto motivo, inerenti la mancata emissione del processo verbale di constatazione e la violazione dell’onere della prova, erano generici per l’omessa considerazione degli argomenti contrari svolti dal primo giudice.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la contribuente.

4. Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di impugnazione la contribuente deduce “violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 132 c.p.c.”, in quanto la sentenza di appello non entra nel merito di alcun motivo di appello ritenendoli formulati in modo generico e, quindi, risulta priva di motivazione. Al contrario di quanto affermato dalla Commissione regionale nell’atto di appello sono state riproposte tutte le eccezioni svolte nel ricorso originario.

1.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la Commissione regionale ha esaminato ciascuno dei cinque motivi di impugnazione, sicché la motivazione della decisione, non solo esiste, ma analizza separatamente ogni motivo. Solo per il secondo, il quarto ed il quinto motivo, il giudice di appello ritiene la genericità degli stessi per non avere confutato la ratio decidendi della sentenza impugnata. La Commissione regionale ha, invece, affrontato nel merito i motivi primo e terzo, sicché è stata fornita risposta a tutte le doglianze sollevate con l’atto di appello.

Del resto, per questa Corte, in tema di contenzioso tributario, benché l’appello abbia carattere devolutivo pieno, le deduzioni dell’appellante devono essere svolte in contrapposizione alle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, di cui la parte non può disinteressarsi, limitandosi a riproporre al giudice di secondo grado le medesime testuali difese contenute nel ricorso introduttivo (Cass., 22 febbraio 2017, n. 4558; Cass., 23 novembre 2018, n. 30525).

Il giudice di appello, quindi, non ha soltanto affermato che la appellante si era limitata a riproporre le questioni già avanzate con il ricorso di primo grado, ma ha evidenziato che non era stata affrontata in alcun modo la ratio decidendi della sentenza di prime cure (“perchè ignora completamente il ragionamento posto a fondamento della decisione e sviluppato nella motivazione”).

Peraltro, la ricorrente non ha neppure riportato la motivazione della sentenza di primo grado ed i singoli motivi di impugnazione della stessa, onde consentire a questa Corte di comprendere se effettivamente era stata censurata la ratio decidendi della sentenza emessa dalla Commissione provinciale.

Anzi, la contribuente si è limitata ad allegare che “sono state riproposte tutte le eccezioni svolte nell’originario ricorso”, senza indicare in che modo era stata attinta dal gravame la motivazione della sentenza di prime cure.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione ex art, 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 5Tuir. Omesso esame, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, in quanto per la Commissione regionale il recupero a tassazione origina dalla fittizietà delle cessioni del diritto di usufrutto sulle quote sociali della Sarny sas alla Profil mec e si fonda sull’assunto che gli utili, anche dopo le cessioni, continuavano ad essere imputabili ai soci, ormai solo nudi proprietari, in proporzione della quota di partecipazione. Tuttavia, la D.G. aveva solo l’1% delle quote, sicché ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, solo per tale misura gli utili potevano essere a lei attribuiti. Il giudice di appello non ha tenuto conto che la D.G. aveva ceduto il 29 % delle proprie quote sociali (prima pari al 30 %) all’altro socio, restando, quindi, titolare, dopo la cessione delle quote di usufrutto, della nuda proprietà solo dell’1 % delle quote e non del 30 % come ipotizzato dalla Agenzia delle entrate. La Commissione regionale, invece, si è limitata ad affermare che il trasferimento della nuda proprietà di una quota sociale non comporta che il nuovo nudo proprietario possa percepire i relativi utili, che restano attribuiti alla usufruttuaria. L’assunto decisivo non è, allora, che gli utili vanno attribuiti al nudo proprietario, ma che le cessioni di usufrutto sono fittizie e che gli utili vanno imputati pro quota ai nudi proprietari. Non è stata provata, invece, la fittizietà della cessione di quote tra soci, circostanza del tutto diversa dalla cessione dell’usufrutto a terzi; poiché la D.G. era titolare solo dell’1 % delle quote, solo per tale percentuale potevano esserle attribuiti gli utili, sulla base della fittizietà della cessione dei diritti di usufrutto. Non si è, dunque, considerato il fatto, decisivo e controverso, della cessione di quote tra soci.

2.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la Commissione regionale ha chiarito che “il trasferimento della nuda proprietà di una quota sociale, invero, non comporta che il nuovo nudo proprietario possa percepire gli utili relativi, che restano attribuiti all’usufruttuaria, come frutti del capitale investito e ormai di proprietà nuda dell’altro socio”.

Tale motivazione, pur nella sua stringatezza, prende in esame anche la questione relativa alla cessione di quote tra la D.G. ed il L.P., con la quale la prima ha trasferito al secondo il 29 % delle quote da essa possedute (pari al 30 %), residuando l’1 % delle stesse. La frase “non comporta che il nuovo nudo proprietario possa percepire gli utili relativi” non può che far riferimento al disconoscimento degli effetti di tale cessione intrasocietaria. Non si fa solo riferimento, quindi, alla fittizietà del trasferimento del diritto di usufrutto sulle quote ai terzi, e segnatamente alla Profil Mec s.r.l., ma anche al disconoscimento del contratto di cessione, con il quale alla D.G. resta solo l’1 % delle quote sociali.

La D.G., dunque, aveva il 30 % sia della nuda proprietà che del diritto di usufrutto sulle quote di partecipazione detenute nella Sarny s.a.s. Il disconoscimento del contratto di cessione delle quote, con il quale alla socia resta solo l’1% delle stesse, sia della nuda proprietà che dell’usufrutto, determina il ripristino della situazione anteriore alla cessione per entrambe le situazioni giuridiche (sia la nuda proprietà sia l’usufrutto). Insomma, i disconoscimenti effettuati sono due: il primo attiene alla cessione di quote intrasocietaria; il secondo alla cessione del diritto di usufrutto. La motivazione sul punto della Commissione regionale pur se estremamente sintetica, chiarisce proprio che vi è stato un doppio disconoscimento, sia “interno” alla società (cessione di quote) sia “esterno” alla compagine societaria (cessione a terzi del diritto di usufrutto).

La ricorrente, invece, nel motivo di ricorso trascura completamente la circostanza che il giudice di appello si è espresso inequivocabilmente anche con riferimento alla “cessione infrasociateria” della nuda proprietà delle quote, tanto da affermare con nettezza che “il trasferimento della nuda proprietà di una quota sociale, invero, non comporta che il nuovo nudo proprietario possa percepire gli utili relativi”, con il richiamo specifico, dunque, al “nuovo nudo proprietario”, che non può non essere che il L.P., figlio della D.G., cui questa ha ceduto il 29 % della propria nuda proprietà.

Nel ricorso, invece, si aggredisce la motivazione della sentenza, sia per violazione di legge che per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione successiva al D.L. n. 83 del 2012, unicamente sotto il profilo della dedotta erronea asserzione del giudice del gravame che gli utili spettavano, come era ovvio, all’usufruttuaria Profil Mec s.r.l., e non al nudo proprietario, non cogliendo, quindi, la vera ratio della decisione di appello, ed incorrendo nel difetto di specificità del motivo di impugnazione (cfr. pagine 15 e 16 del ricorso per cassazione “L’assunto decisivo non è che gli utili vadano attribuiti al nudo proprietario – ipotesi abnorme che la sentenza confuta – ma che lo stesso avviso di accertamento postula che:a) le cessioni di usufrutto siano fittizie; b) gli utili vadano imputati pro quota”).

La sentenza di appello, dunque, non afferma (“abnormemente” secondo la ricorrente) che gli utili vanno imputati al nudo proprietario, e non all’usufruttuario, ma che gli utili, solo fittizia mente indirizzati verso l’usufruttuario, non possono essere attribuiti al “nuovo nudo proprietario” (il L.P.), ma al precedente nudo proprietario (ossia la ricorrente D.G.). 3.Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce ” violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 14 e 59″, in quanto la sentenza si fonda sull’assunto che le quote di spettanza degli utili tra i due soci, fossero diverse da quelle risultanti dall’assetto civilistico dichiarato dalle parti. La ripresa a tassazione è fondata su una diversa attribuzione delle quote sociali ai soci. Sussiste il litisconsorzio necessario, non solo nel caso di accertamento dei redditi da partecipazione in società di persone fondato sul reddito della società, ma anche in caso di rettifica delle quote di partecipazione nella società. Il giudizio doveva essere “integrato” anche nei confronti del socio L.P..

3.1. Il motivo è infondato.

Invero, sussiste il litisconsorzio necessario solo nel caso in cui il reddito della società di persone viene imputato per “trasparenza” ai singoli soci ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14.

Infatti, costituisce principio ormai consolidato quello per cui, in materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicché tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario. Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio (Cass.Civ., Sez. Un., 4 giugno 2008, n. 14815; in tema di Irap cfr Cass.Civ, 20 giugno 2012, n. 10145).

Nella specie, però, l’accertamento non ha avuto ad oggetto il reddito della società, che è rimasto del tutto immutato, ma soltanto l’imputazione di tale reddito ai due soci, dopo che la D.G. aveva ceduto il 29 % delle sue quote (pari al 30 %) al socio L.P. e la società ha ceduto il diritto di usufrutto delle quote alla Profil Mec s.r.l.. Pertanto, con l’avviso di accertamento si è ritenuto che la cessione intrasocietaria delle quote era fittizia, come pure fittizia era la cessione del diritto di usufrutto, tanto che i redditi attribuiti alla Profil Mec s.r.l. sono stati, invece, riconosciuti per il 30 in capo alla D.G., mentre il restante 70 % al L.P.. L’unico soggetto pregiudicato dall’avviso di accertamento era, allora, la D.G., mentre i redditi della società e del L.P. erano rimasti invariati. Al L.P. si attribuiva solo il 70 % dei redditi della cessionaria dell’usufrutto, anziché il 99 %, come sarebbe accaduto se fosse stata ritenuta effettiva la cessione della nuda proprietà per il 29 % in suo favore da parte della socia. Sono stati, quindi, disconosciuti ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37,comma 3 gli effetti fiscali del contratto di cessione alla Profil Mec s.r.l. dell’usufrutto sulle quote di partecipazione detenute dai soci della Sarny s.a.s., trattandosi di atto simulato e stipulato solo per evitare la tassazione dei redditi.

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “omesso esame, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, in quanto per la Commissione regionale è generico il motivo di appello, con cui si contesta la decisione di prime cure, in relazione alla cessione dell’usufrutto alla Profil Mec s.r.l.. Per l’appellante la cessione dell’usufrutto era effettiva ed il reddito della Sarny doveva essere tassato in capo all’usufruttuario. Inoltre, non era sindacabile l’antieconomicità dell’operazione. L’appellante ha ignorato completamente il ragionamento posto a fondamento della decisione di prime cure. Per la ricorrente, invece, la cessione del diritto di usufrutto è perfettamente congrua e risponde ad una sana gestione imprenditoriale. La Profil Mec, quale usufruttuaria, non si limitava a pagare il corrispettivo, ma apportava un rilevante contributo operativo alla attività. Fino all’esercizio precedente la Profil Mec era l’associato in partecipazione. L’operazione non era antieconomica perché i soci ottenevano, quale corrispettivo della cessione del diritto di usufrutto, non solo il prezzo della cessione, ma anche l’apporto della cessionaria.

4.1.Tale motivo è inammissibile.

Invero, a fronte della motivazione della sentenza del giudice di appello che ha ritenuto “assolutamente generico” il motivo di appello articolato in ordine alla effettività, e non fittizietà, della cessione del diritto di usufrutto, la ricorrente non ha impugnato la specifica ratio della decisione, ma ha formulato un vizio attinente alla motivazione, e segnatamente l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia.

Al contrario, la ricorrente avrebbe dovuto riportare il contenuto della sentenza di prime cure, il motivo di appello articolato dinanzi alla Commissione regionale, evidenziando la specificità dello stesso, proprio in ordine alla censura della motivazione del giudice di primo grado.

Non avendo la ricorrente impugnato la decisione del giudice di appello, che ha ritenuto non specifico il motivo di impugnazione, per avere ignorato “completamente il ragionamento posto a fondamento della decisione e sviluppato nella motivazione”, la sentenza sul punto è passata in giudicato. Invero, al fine di evitare il formarsi del giudicato interno sulla statuizione d’inammissibilità della domanda è necessario investire la pronunzia con uno specifico motivo d’impugnazione, non essendo al riguardo sufficiente limitarsi a chiedere l’accoglimento della domanda nel merito, deducendo in ordine alla relativa fondatezza (Cass., sez. 3, 31 maggio 2006, n. 12984).

Pertanto, le censure sul merito della questione sollevata (cessione effettiva del diritto di usufrutto delle quote ed economicità della decisione) sono inammissibili per mancanza di interesse.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5”, in quanto, in base al principio di trasparenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, il reddito delle persone fisiche socie di società di persone è indissolubilmente legato al reddito loro attribuito dalla società nella dichiarazione del reddito. Pertanto, nessuna accertamento di una diversa quota di utile può essere attribuita ai soci, “sia pure nella ripartizione delle quote”, senza la previa rettifica della dichiarazione dei redditi della società.

5.1.Tale motivo è infondato.

Invero, come correttamente deciso dal giudice di appello, nella specie, non v’è stata alcuna rettifica del reddito della società di persone, operando, quindi, il principio di trasparenza di cui al del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, con attribuzione ai soci dei redditi della società in proporzione alla rispettiva quota di partecipazione.

6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “omessa pronuncia su fatto decisivo – omesso pvc e violazione art. 12 commi 4 e 7 statuto”, in quanto, nonostante l’Ufficio avesse effettuato un accesso presso la sede della società, tuttavia non aveva redatto il processo verbale di constatazione e non aveva rispettato i tempi di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 6.

6.1.Tale motivo è inammissibile.

Invero, il giudice di appello in realtà ha pronunciato su tale censura, affermando che era generica “per omessa considerazione degli argomenti contrari svolti dal primo giudice in motivazione della sentenza impugnata”.

La Commissione regionale ha, quindi, ritenuto inammissibile il motivo di appello perché generico.

La socia, anziché impugnare la ratio decidendi della motivazione, fondata sulla genericità del motivo di appello, ha avanzato critiche avverso il merito della questione sollevata, con la conseguente formazione del giudicato interno sulla mancata specificità del motivo di gravame.

7. Con il settimo motivo di impugnazione (rubricato come sesto motivo a pagina 28 del ricorso per cassazione), la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 5 Tuir. Omesso esame, ex art. 350 c.p.c., comma 1, n. 5, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, in quanto il giudice di appello ha assunto come elemento decisivo per il giudizio per provare la fittizietà della cessione dell’usufrutto delle quote tra i soci e la Profil Mec, la circostanza che l’entità degli utili distribuiti alla cessionaria è stata sproporzionata rispetto a quella degli utili distribuiti ai soci originari. Profil Mec avrebbe ricevuto Euro 78.000,00 a fronte di una partecipazione del 79 %, mentre gli altri due soci avrebbero ricevuto la somma di Euro 73.000,00 in relazione ad una partecipazione del 21 %. In realtà, le somme oggetto di movimenti di cassa considerati sono solo una piccolissima frazione degli utili della Sarny s.a.s.. Gli utili distribuiti sono soltanto una mera anticipazione degli stessi, ma non l’attribuzione definitiva, avendo la società in cassa utili, in attesa di distribuzione, perfettamente congrui alle quote risultanti dalla cessione dell’usufrutto. Residuavano da distribuire Euro 700.000,00.

7.1.Tale motivo è inammissibile.

Invero, il giudice di appello in realtà ha pronunciato anche su tale censura, affermando che era generica “per omessa considerazione degli argomenti contrari svolti dal primo giudice in motivazione della sentenza impugnata”. La Commissione regionale ha, quindi, ritenuto inammissibile il motivo di appello perché generico.

La socia, anziché impugnare la ratio decidendi della motivazione, fondata sulla genericità del motivo di appello, ha avanzato critiche avverso il merito della questione sollevata, con la conseguente formazione del giudicato interno sulla mancata specificità del motivo di gravame.

Il motivo è inammissibile anche perché la ricorrente chiede una rivalutazione degli elementi istruttori già effettuata dal giudice di merito, non consentita in questa sede.

8. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il, nella Camera di Consiglio, il 31 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019.

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